2
Londra, 13 gennaio 1926.
Roger
- Rosie? Sei pronta? - chiedo speranzoso io, dopo più di mezz'ora di attesa.
- Sì! Un secondo solo! - esclama la mia fidanzata chiusa dentro il bagno.
- È da mezz'ora che dici un secondo! Coraggio, non voglio cenare a mezzanotte! I locali saranno già tutti pieni! - mi spazientisco io, ma non appena pronuncio queste parole, ecco che Rosie si decide ad uscire.
- Come sto? - chiede lei, facendo un giro su se stessa.
Io la guardo incantato per diversi secondi, e poi scuoto la testa per disimbambolarmi. Indossa un vestito azzurro lungo fino al ginocchio con il colletto bianco, dello stesso colore della cintura legata sotto il busto. Le gambe sono coperte da delle calze nere e le scarpe sono azzurre con un leggero tacco. Ha le palpebre colorate di azzurro, dello stesso colore dei suoi splendidi occhi e un nastrino bianco le raccoglie i suoi capelli dorati in una coda bassa.
- Sei...sei bellissima - riesco a dire in un secondo momento, ma Rosie mi molla uno schiaffo sulla guancia sinistra, provocandomi bruciore.
- Ahia! Perché l'hai fatto? -
- Perché non si può guardare una signorina in questo modo! Mi sciupi! - a quell'esclamazione, io allaccio le braccia sul petto.
- Oh, Rosie...non fare la ragazzina innocente. Sai meglio di me che ti sei chiusa in quel bagno per una mezz'ora abbondante solo per provocarmi e torturarli per tutta la sera... - detto questo, il mio sguardo scende sulle sue scarpe.
- E ti ho detto mille volte di non metterti i tacchi! Mi fai sembrare basso! - esclamo io, con sguardo di scherno.
- Ma tu non sembri basso...lo sei - e così, ci dirigiamo ridacchiando alla porta per poi uscire e correre alla mia auto parcheggiata all'entrata.
Johnson, l'autista era già arrivato, e dalla faccia si può notare che anche lui stava aspettando da diversi minuti, così io e lui ci scambiamo un'occhiata complice.
- Johnson, portaci in centro. Vorremmo cenare in un posto poco affollato, anche se l'orario e abbiamo fatto per colpa della signorina ci rende difficile l'impresa, grazie - al mio esordio, Rosie mi tira una gomitata.
Arriviamo in un locale niente male, abbastanza pieno ma molto grande e ampio, è un ristorante di lusso, privo di quell'atmosfera familiare che piace tanto a me.
Il menù è ottimo, e la serata sembra passare in modo piacevole, ma sento che manca qualcosa, che viene subito colmato non appena le prime note di un pianoforte arrivano al mio orecchio.
- Vado ad incipriarmi il naso, Roger - mi avvisa Rosie, ma io non la sto ascoltando, perché le mie orecchie sono impegnate ad ascoltare quell'armoniosa melodia, e i miei occhi sono impegnati ad ammirare colui che la crea.
È un ragazzo magro, con i capelli neri leggermente arricciati lasciati cadere liberamente sulle spalle, le labbra sottili, il naso fine e gli occhi scuri, di un nero raccapricciante, freddo e tenebroso. Sono occhi tanto dannati quanto belli.
È lui, è Farrokh Bulsara, il cameriere straccione immigrato così designato da mia madre, capace di suonare il pianoforte divinamente, in modo da incantare tutti i presenti e cullarli tra le note armoniose, intrattenendoli facendo loro sentire la gioia che la sua musica può trasmettere, e non solo.
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