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Tornare a casa

Mi risulta che non sia esattamente un veleno, quello delle murene, ma comunque è una tossina che scompensa.

L'oros nuota a mala pena, e so che i morsi che ha subito sono tra i più dolorosi che si possano incassare. Senza contare che quella dentatura affondata nella coscia ha strappato brandelli di muscolo, e provocato un'emorragia non indifferente.

Lo tiro fino agli ascensori e, mentre ci issano, uso la cintura con cui tengo le reticelle del pescato in vita per bloccare la perdita copiosa della gamba ferita. L'avambraccio anche, gronda sangue.

Benché all'arrivo scenda orgogliosamente dal mezzo, scacciando con un gesto un paio di pescatori che sono accorsi, a me pare che si regga a stento. Anzi, spudoratamente mi passa un braccio attorno alle spalle e cerca appoggio, indicando la discesa della città bassa.

E non è un fuscello, per tutti i venti! Ho voglia davvero di mollarlo qui, solo che a guardarlo in faccia ha una smorfia di dolore impressa, che mi blocca. Maledetta coscienza, che mi obbliga a sorreggerlo.

Di passo in passo ci inoltriamo, per strade ancora poco affollate; è mattina, gli artigiani lavorano in bottega, i bambini sono a scuola... ancora il mercato non è attivo, si attendono le verdure dai campi, il pesce dalle barche.

Senza fiatare, mi indica il percorso. Non capisco se si appoggia a me ogni passo di più, perdendo forze, o se le perdo io, perché ci inoltriamo lì dove sono cresciuta, ogni passo più vicini alla fucina che era di mio padre. Chiusa. Ma nella casa accanto hanno aperto un sorta di erboristeria.

È il posto dove l'oros è diretto, ma io mi blocco sulla soglia. Troppo, per il mio cuore. Ma il giovane non ce la fa, e sussurra: "Lì, per favore".

Allora parli, maledetto. Conosci pure qualche parola di liberiano.

Entro, perché devo. Ci accoglie una donna oros che, pronta, ci guida subito nella stanza sul retro. Quella che era la nostra cucina.

Lo fa sdraiare dove c'era il tavolo, e ora c'è un ampio piano per i feriti o i malati. È pratica di medicina, la oros, e parla bene la mia lingua. "Grazie per averlo aiutato", mi dice per prima cosa mentre con le mani agili già sta ripulendo la ferita alla coscia per accertarne l'entità.

"Che animale ha fatto questo", chiede mentre una ruga di concentrata preoccupazione le segna la fronte.

"La Vecchia", le rispondo. "Una murena molto grossa", specifico meglio.

"Una murena!"

Si volta e armeggia con delle boccette, alla ricerca di qualcosa di preciso. Sembra andare davvero di fretta, tanto furiosamente spinge qua e là i piccoli contenitori, senza preoccuparsi di cosa rovescia. Ficca in gola al giovane qualche sorso di un liquido rosato, senza aver neppure più degnato d'attenzione la squarcio che intanto sanguina ancora, abbondante.

Ha piantato una mano sul collo del ferito, a sentire i battiti della giugulare, e così resta immobile, a guardarlo respirare.

Non fa un bell'effetto, devo dire, il respiro di questi; fischiante, affannoso, non mi ero accorta di quanto fosse forzato. Si regolarizza in fretta, però. 

 Mi muovo per uscire, l'oros è accudito, ormai, quindi posso disinteressarmene.

Anzi, se fossi sincera dovrei dire: quindi posso scappare. Scappare da questo luogo in cui credevo non sarei più riuscita a rientrare. È proprio vero, che se anche dentro il petto senti qualcosa frantumarsi, in realtà fuori nulla accade, e cammini e respiri senza volerlo, senza che nessuno senta l'urlo che hai nelle orecchie e senza che nessuno veda il ghiaccio che ti sta stritolando le ossa.

"Miwaka... tu sei Miwaka la pescatrice, vero?"

Mi costringo a girarmi. Non ho fiato, dunque mi limito a un gesto veloce, d'assenso.

Non ti dimostrerò che i ricordi di questa casa mi stanno mettendo in ginocchio, oros, penso, ma lasciami andare, che non ho voglia di restare in questa tomba.

"Puoi fermarti ancora? Ti prego, ho bisogno di una mano per ricucire queste ferite..."

Ed è certo tempo di farlo, perché di sangue ne sta perdendone a litri, l'amico. Non so come, mi trovo a tenerle una lampada per avere la miglior luce possibile e un vassoio di strumenti da sutura. Non è un bel vedere, ma è veloce e sicura.

Mi chiedo se il giovane sia pallido. Cioè, se come noi gli anfibi cambino colore quando l'afflusso di sangue si riduce sotto la pelle. Le sue sfumature azzurrine sembrano sbiadite, ma potrebbe essere l'effetto della luce della lampada, che si aggiunge a quella naturale dalla finestra.

Di certo è cosciente, sta lottando per non gridare di dolore. Pensavo gli avesse dato una droga, invece è del tutto sensibile, pare, da come stritola i bordi del tavolo e da come si tendono i legacci con cui lo abbiamo bloccato.

"Perché non stordirlo?", chiedo infine quando la donna, ultimata la sutura, sta fasciando l'avambraccio.

"Avrebbe rischiato d'avere un collasso, avevo già dovuto dargli l'antidoto per il veleno".

"Il morso della murena non è mica così pericoloso", le replico, "è solo molto doloroso".

"Non per un umano, forse. Per questo tritone lo era eccome. Direi che è arrivato da me giusto in tempo. Questione di minuti. D'altronde il tempismo è il tuo dono, donna aquila".

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