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Donna aquila

Donna aquila. Mi avevano soprannominato così quando avevo formato la pattuglia dei balestrieri saltatori.

Eravamo gli audaci che avevano accettato di collaudare l'invenzione per scendere da una nave volante buttandosi nel vuoto, ed eravamo segnati a dito, un tempo.

Ma da molto nessuno usa più questo soprannome, e mi stupisce che una Oros lo conosca.

"Quando ho chiesto se potevo utilizzare questa casa, e mi è stato consentito, ero certa che i proprietari fossero morti", continua la donna con fare cortese. Direi quasi che voglia essere amichevole, ma non sono disposta a esserlo con uno di loro. Certo, la mia coscienza mi ha impedito di rimanere impassibile a lasciar morire il giovane nell'altra stanza, ma stringere amicizia è un'altra cosa. Una cosa al di là delle mie forze.

"Era vuota ma non aveva subito danni", continua a parlarmi della casa, "la sala sul retro era grande, luminosa, dotata di acqua corrente, ideale per visitare e soccorrere un ferito, mentre le altre stanze consentivano di seguire un malato fino alla guarigione. E dal momento che molti degli Oros rimasti a Liberia non si sentivano di ricorrere a un medico liberiano..."

Si ferma e mi guarda con attenzione, come si aspetti una qualche reazione che non arriva. Io ho la gola chiusa, in questo ingresso che è stato svuotato di tutte le vecchie cose. Ora ci sono solo scaffali pieni di erbe addossati alle pareti, altrimenti nude, e il senso di estraneità che provo mi fa sentire, fortissimo, solo il desiderio di uscire al più presto di qui.

Ma non può immaginarlo, direi, e piuttosto si preoccupa del mio pensare che loro disprezzino le nostre cure.

"Non per diffidenza, bada", rincara infatti, "ma perché un medico liberiano, che abbia curato sempre e solo umani, sarebbe in difficoltà a trattare alcuni problemi. Tra noi Oros c'è una mescolanza di razze, talune con particolarità tali che necessitano di competenze ed esperienza specifiche; che io ho, anche se non approfondite come servirebbe, purtroppo".

"Come per il morso della murena...", mormoro io, che infatti non lo avevo sospettato così pericoloso, per l'anfibio.

"Esattamente. Quindi ho chiesto il permesso di creare qui questa erboristeria, che è anche un piccolo pronto soccorso. Quando poi ho scoperto di chi era questa casa, mi sono stupita... molto stupita che qualcuno non la volesse più".

Il giorno è avanzato, dalla porta che ho già aperto, già in fuga, entra vivida la luce a rendere distinguibili, ma solo per me che so dove sono, le minuscole tacche sul muro che mia madre segnava ridendo, per come cresceva alta e in fretta quella sua figliola dalla pelle color bronzo.

"Tientela pure, questa casa è una tomba".

Non sono parole, ma un fiotto di veleno. Non riconosco la mia voce, ma oggi è un anno. Tre giorni ha infatti agonizzato. Tre giorni, col moncherino del braccio destro da cui è risalita nera la morte, fino a fargli scoppiare il cuore. Tre giorni e quindi, esattamente oggi, un anno fa.

Un anno, dunque, che non riesco a uscire da questa prigione fatta di gelo. Tutti i ricordi che ho di mio padre, i pensieri che nascono a ogni parola detta come la diceva lui, a ogni gesto fatto come d'abitudine lo faceva, a ogni cibo che preparo, come l'amava lui... ogni ricordo si sfigura, dopo pochi istanti, nella maschera tumefatta che era la sua faccia, l'ultima volta che l'ho visto. Nell'orrore del suo corpo coperto di ferite, come si fossero divertiti a infliggergli rasoiate, a lungo, prima di staccargli di netto il braccio destro.

Da un anno, non c'è notte che il sonno non si trasformi in incubo, da cui mi risveglio sudata urlando.

"Tientela pure, questa casa. Le vite che proteggeva sono ormai spente, non è altro che una tomba".

"Tutto il mondo è una tomba, allora. Rifletti come in natura non ci sia vita che non si nutra di morte", mi risponde.

La rabbia che ho dentro fatico a contenerla. Di cosa osa parlarmi, come se la morte che mi ossessiona fosse quella che rientra nel ciclo normale dell'esistenza, quella a cui ci si prepara, per far posto ai giovani che nascono?

Non è morto di vecchiaia, mio padre, che possa rassegnarmi!

"Certo, bisogna nutrirsi...", reagisco con sarcasmo: "che stupide regole abbiamo a Liberia, vero? Immagino vi pesi rinunciare ad assaggiare uno di noi ogni tanto, per sostenervi...", e non mi trattengo dal dirle, in poche parole, che per me loro sono esattamente dei mostri, che si sono nutriti di morte.

Perché, davvero, non posso farcela ad accettare lezioni di filosofia spicciola da una Oros.

"Io e mio marito non mangiavamo alcun tipo di carne", risponde con calma, come se a tutti i costi volesse vincere la mia resistenza. Devono averle detto che la casa dove lavora è mia... forse crede di dovermi qualcosa? Ma io non voglio nulla, solo andarmene e stare lontana da tutti loro.

"L'antropofagia era per lo più dei guerrieri, Miwaka, e nasceva da rituali antichi di una terra ormai persa. Quando un nemico forte veniva sconfitto, i combattenti assimilavano la sua forza e il suo coraggio nutrendosi delle sue carni. Non aveva nulla a che fare col nutrirsi quotidiano.

Poi molte voci sono circolate incontrollate su di noi e le abbiamo alimentate, intenzionalmente, perché una preda spaventata è più debole, meno lucida e più facile. Ma non tutto era vero", dice.

"Non parlo di ciò che ho sentito, Oros, ma di ciò che ho visto. Ho visto usare esplosivi in città, ho visto armi levate contro la gente comune, donne e bambini compresi".

Ormai, sto perdendo la pazienza. Perché l'Oros voglia a tutti costi parlare con me non lo so, ma trovo questa sua voglia di fare amicizia insopportabilmente ipocrita!

"Questo non avrebbe dovuto accadere, il re aveva vietato espressamente che..."

Vietato espressamente! Questo è troppo... 

"Non farmi ridere, Oros! Non ripetermi la balla delle donne e dei bambini che sarebbero stati risparmiati. Per cosa, dimmi? Per diventare prede di guerra, alla mercé di padroni che li avrebbero rivenduti come schiavi? Davvero nobili intenzioni.

La regina aveva offerto acqua e oro, se le vostre mire non fossero state fin dall'inizio d'espugnare Liberia sareste andati via senza spargimento di sangue. Volevate tutto, invece, e se i Cordai vi avessero appoggiato, come credevate che avrebbero fatto, la città sarebbe interamente vostra, ora, e alle vostre regole.

Qualcosa è andato storto, e infine vi è convenuto ridimensionarvi e assoggettarvi a qualche condizione... ma resta il fatto che vi siete impadroniti con la violenza di ciò che era frutto del lavoro altrui, e che dunque siete ladri, tutti.

Molti di voi, poi, sono anche assassini senza scrupoli, e voglio sperare che sia vero che i peggiori, i folli che amavano tanto la guerra da non rassegnarsi a un benessere pacifico, siano salpati per non tornare mai più".

Ci fissiamo, e la vedo infine irrigidita, coll'espressione amareggiata.

Mi sfiora il pensiero che forse anche lei avrà vissuto i suoi lutti, la notte maledetta in cui invasero Liberia il sangue scorse a fiumi, tanto liberiano che Oros e Cordai.

Ma è pur sempre una di loro, li vorrebbe giustificare e io rifiuto di ascoltare.

"Potevi lasciar andare a segno quella lama, allora..."

E mentre mi chiedo che significhi questa frase, la memoria mi restituisce un'immagine. La piazza, il caos dei combattimenti, la figuretta di Violet trascinata, persa tra le armi che rutilavano e, come in un improvviso bloccarsi del tempo, la donna che correva con lei nasconderla dietro di sé, per impedire a un coltello di raggiungerla.

Fermi, immobili, come pietrificati; ricordo la bambina, l'uomo che brandisce l'arma e una donna fra i due, che fa da scudo alla piccola. E io che prendo la mira, alla disperata. Era lei. È, lei!

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