7. Il cavaliere che salva le fanciulle in difficoltà
«Sei stato in riunione fino ad ora?»
Lo shock di Carlo andava a braccetto col suo. Zlatan emise un grugnito di assenso. Era esausto, era stato tutto il pomeriggio chiuso in un ufficio a discutere di nulla. Avrebbe preferito di gran lunga correre per un'ora di fila. Arrampicarsi su una montagna. Giocare a calcio.
Com'era semplice la sua vita quando giocava ancora a calcio. E sarebbe rimasta semplice se invece di accettare quell'incarico se ne fosse andato in giro per il mondo a fare la vita da pensionato. Ma d'altronde non sarebbe stato lui se non si fosse trovato un'altra sfida da accettare e per la quale svegliarsi la mattina.
Solo che quel giorno si era veramente annoiato.
Sospirò. «Stasera ci vediamo?» chiese al suo amico. Carlo lo aveva chiamato mentre Zlatan era in riunione e non aveva potuto rispondere. Lo aveva richiamato mentre tornava verso casa, credendo che Carlo volesse proporgli di andare a bere qualcosa dopo cena.
«No, ho un appuntamento.»
Zlatan cercò di non lasciar trasparire la sua delusione. Lo aveva chiamato solo per aggiornarlo sull'ennesimo appuntamento con una donna. «Non mi dire. Una nuova?»
«Sì. Sai com'è, non mi lascio sfuggire certe occasioni.»
Si morse la lingua per non mandarlo a quel paese. Si riferiva a lui e al fatto che avesse lasciato Amara da sola dopo il loro bacio. Gli lanciava frecciatine ogni giorno, da una settimana.
«Divertiti.»
Carlo ridacchiò. «Te la saluto, non temere.»
Perplesso, Zlatan aggrottò la fronte mentre si immetteva in una stradina laterale per accorciare il tragitto verso casa. «La conosco?» chiese curioso.
«Amara Monti, hai presente? La ragazza che ti ha invitato a casa sua e tu hai rifiutato? Beh con me non avrà bisogno di supplicarmi perché la scopi, semmai lo farà per chiedermi di smetterla dopo che l'avrò sfondata per bene.»
Alzò gli occhi al cielo e strinse forte il volante. Ignorò volutamente il tuffo allo stomaco che aveva avvertito all'udire il suo nome. «Certo, ti supplicherà di smetterla di impegnarti perché tanto non le stai facendo sentire niente.»
Carlo rise forte. «Non fare il geloso. Ti racconterò ogni minimo dettaglio, sarà come se ci fossi stato tu al posto mio.»
«Vaffanculo, Carlo.»
«Ti voglio bene anche io, amico. A domani.»
Zlatan si tolse l'auricolare e lo lanciò nel cassettino. Perché non lo faceva veramente invece di provocarlo e infastidirlo? Perché non ci provava con Amara? Magari Amara avrebbe accettato. In fondo perché no, Carlo era un bell'uomo e lei era libera.
Magari così se la sarebbe tolta dalla testa una volta per tutte.
Per l'ennesima volta si maledisse di aver raccontato a Carlo del loro bacio. Ma la sera non era riuscito a pensare ad altro e aveva sentito il bisogno di dirlo al suo amico, come se dirlo ad alta voce lo rendesse più reale.
Era stato un bacio intenso. Aveva immaginato che quella piccola tentatrice avrebbe fatto o detto qualcosa per provocarlo, ma baciarlo... Decisamente non se lo immaginava. E a quel punto solo sfiorare le sue labbra non gli era bastato.
Il desiderio che reprimeva costantemente quando lei gli era vicino era venuto fuori tutto d'un colpo e l'aveva baciata con passione. Più la baciava, più voleva baciarla e più la stringeva, più desiderava che quel momento non finisse mai.
Ma era stato proprio lui a porvi fine.
Non l'aveva più sentita da allora. A distanza di una settimana pensava ancora a quel bacio. Al momento in cui lei si era avvicinata e aveva poggiato le labbra sulle sue. Alla scarica che lo aveva attraversato. E alle sue braccia che si erano mosse e l'avevano intrappolata contro il suo petto prima che la ragione gli impedisse di fare quello che voleva fare dal primo momento in cui l'aveva vista, quel pomeriggio sul pianerottolo di casa sua.
Zlatan si stropicciò la faccia, tormentandosi il pizzetto con le dita. Il modo in cui Carlo parlava di Amara lo faceva infuriare. Scoparsela, sfondarla... Cristo santo, era una ragazza, non uno strumento di piacere. E poi scoppiò in una risata beffarda pensando che forse a lei sarebbe piaciuto sentirsi dire quelle cose. A lei piaceva sentirsi oggetto di desiderio da parte degli uomini.
Fermò la macchina al suo posto nel garage. Che avrebbe fatto quella sera? Carlo aveva altri impegni e probabilmente anche gli altri suoi amici si erano già organizzati. Si ricordò di aver ignorato alcuni messaggi e prese il cellulare per controllare se avesse ricevuto qualche invito. Proprio non gli andava di restare solo.
Delle voci catturarono la sua attenzione. Una maschile, molto forte, e l'altra femminile, più delicata. Sembrava che stessero discutendo animatamente.
Zlatan scese e si guardò intorno. Le voci provenivano dall'altro lato del garage. Si mosse in quella direzione. Non che fossero affari suoi, ma era rarissimo sentire qualcuno discutere in quel condominio e l'aggressività nella voce maschile lo aveva messo in allarme. Voleva almeno sincerarsi che fosse tutto ok.
Superò una decina di macchine e finalmente riuscì a mettere a fuoco le due persone che stavano discutendo.
Ivanov e Amara.
Gli si serrò lo stomaco. Vederla con quello lì lo fece infiammare di gelosia.
Lei sistemò qualcosa sul sedile del passeggero della sua auto e fece il giro con Ivanov alle calcagna.
«Non mi piace che te ne vai in giro con altri uomini quando io sono a Milano» tuonò lui.
Dal primo momento in cui l'aveva visto Zlatan aveva nutrito un'antipatia nei confronti di quel ragazzo, che rappresentava tutto quello che lui aveva sempre odiato: il ricco figlio di papà che pensa di poter fare tutto e passarla sempre liscia. Al Tempio Amara gli aveva detto che non era il suo ragazzo, ma a quanto pareva Ivanov la pensava diversamente.
Le labbra gli si incurvarono verso l'alto quando si rese conto di essere uno degli uomini con cui Amara se ne andava in giro. Ripensò al loro bacio. Si leccò il labbro inferiore e fissò lo sguardo su di lei.
Amara si voltò per fronteggiare Ivanov. «Non sono una tua proprietà, lo capisci? Non sto al tuo servizio e non stiamo più insieme. Faccio quello che mi pare.»
Zlatan si ritrovò a sorridere di nuovo. Maledizione, quella ragazza era uno spirito libero e lui ne era affascinato. Come faceva a uscire con un ragazzo e il giorno dopo resettare tutto e stare con un altro? Aveva fame di emozioni? O non provava niente ed era costantemente alla ricerca di sensazioni forti?
Il loro bacio le aveva lasciato qualcosa?
E a lui cosa aveva lasciato?
Zlatan sospirò. Non aveva senso porsi quella domanda. Era stato un bacio, avevano provato qualcosa che era rimasto incastrato sulle loro labbra per un po'. Aveva occupato i suoi pensieri, e forse anche quelli di Amara, e sarebbe rimasto un bel ricordo. Ma quello che aveva detto a lei quel giorno lo pensava davvero: non avrebbe funzionato tra loro.
Abbassò la testa, si rigirò le chiavi della macchina tra le dita.
«Non ti rivolgi a me così» continuò Ivanov, minaccioso.
«Lasciami stare, Grigorij» la sentì rispondere, con voce stanca.
Che stava facendo lì? Perché continuava a guardare quei due discutere di cose loro? Non lo avevano ancora notato, ma se lo avessero visto sarebbe stato imbarazzante. Gettò un'altra occhiata ad Amara, un ultimo silenzioso saluto. Ma in quel momento il cuore gli si bloccò nel petto e il sangue si gelò nelle vene. Vide Ivanov afferrare con forza i capelli di Amara e sbatterla contro la macchina.
«Dove credi di andare? Non abbiamo finito.»
Zlatan scattò in avanti, facendo lo slalom tra le decine di macchine parcheggiate per raggiungerli più in fretta possibile.
«Vaffanculo! Lasciami!» urlò Amara, cercando di spingerlo via.
«Hai fretta di correre a fare la troia?» ringhiò Ivanov, a un soffio dalla sua faccia.
Il cuore gli batteva forte nel petto. «Ehi!» gridò, ma nessuno dei due sembrò accorgersi di lui che si avvicinava. Dio santo, ma quanto era grande quel parcheggio? Sembravano così vicini eppure non riusciva a raggiungerli.
Amara rise. «Non vorrei rubare il lavoro a tua madre.»
Lo schiaffo risuonò per tutto il sotterraneo.
Porca puttana.
Zlatan agguantò il petto di Grigorij e lo spinse indietro. Amara barcollò tenendosi una mano sul lato sinistro del viso e si sostenne vicino all'auto.
«Oh, che cazzo fai?» Tenne il pugno stretto attorno alla giacca di Ivanov.
Gli occhi del ragazzo erano furiosi e quando incrociarono i suoi guizzarono di odio puro. Gli si disegnò un mezzo sorriso feroce sulle labbra.
«Oh, guarda chi c'è. Un altro idiota che la nostra puttanella ha catturato all'amo. Te la sei già scopata? Immagino di sì. Amara sa fare solo quello.»
Zlatan gli si fece sotto. «Vedi di andartene» gli intimò. Se non se ne fosse andato sarebbe finita molto male. Un altro minuto in sua presenza e lo avrebbe pestato a sangue.
«Levami le mani di dosso.» Ivanov allontanò bruscamente la mano di Zlatan dal suo petto e si aggiustò la giacca. «Me ne vado, certo che me ne vado. Non spreco altro tempo con questa troia.» Rivolse uno sguardo schifato ad Amara, che lo osservava in silenzio, gli occhi gonfi di lacrime e risentimento. «Non mi chiamare più. Mai più! Trovati un altro cazzo per quando sei annoiata.»
Zlatan gli diede uno spintone, con la mano aperta, in pieno petto. Lui gli lanciò un'altra occhiata furiosa e girò sui tacchi, infilandosi tra le macchine.
Zlatan lo seguì con lo sguardo, inspirando lentamente prima di voltarsi verso Amara. Gli si strinse il cuore quando i suoi occhi lucidi si posarono su di lui. Sembrava impaurita e sotto shock. Fece un paio di passi verso di lei.
«Stai bene?»
Amara annuì piano prima di voltargli le spalle e schiacciare il bottone del telecomando per aprire la portiera dell'auto. Allora Zlatan le si avvicinò e le tolse il telecomando dalle mani, premendo il bottone di chiusura. Lei batté le palpebre e un paio di lacrime le rigarono le guance.
«Che stai facendo?» chiese con un filo di voce.
Avrebbe voluto stringerla al suo petto, ma si limitò a restituirle il telecomando. «Sali un attimo da me. Voglio essere sicuro che tu sia al sicuro.»
Senza aggiungere altro, lo seguì fin dentro all'ascensore. Una macchina passò come un razzo davanti a loro prima che le porte si chiudessero. Era Ivanov che lasciava il palazzo. Amara si avvicinò allo specchio e si guardò la guancia, sfiorando con le dita il punto in cui era arrossata. Quel bastardo l'aveva colpita fortissimo.
Zlatan serrò la mascella e incrociò le braccia al petto. Dio, voleva massacrare di botte quell'essere inutile. Era cresciuto circondato da violenze del genere, nel suo quartiere era quasi la norma vedere una donna picchiata dal proprio uomo. Da piccolino non aveva potuto fare altro che guardare, ma quando era cresciuto non si era mai tirato indietro. A volte le aveva prese, altre le aveva date a quegli uomini violenti, ma non aveva mai lasciato che una donna venisse picchiata in sua presenza.
«Lo fa spesso?» le chiese, osservandola attraverso il vetro.
Amara incrociò i suoi occhi. «È la prima volta.»
Era propenso a crederle, sembrava abbastanza sconvolta. Poggiò le mani sulle sue spalle e la fece voltare.
«Fa' vedere.» le prese il mento tra le dita. La parte colpita si stava arrossando rapidamente, mostrando un brutto ematoma sotto la superficie. Le sfiorò la pelle con l'indice e Amara si tirò indietro, sibilando. Zlatan ritrasse la mano. «Ti si sta già formando un brutto livido. Dovrei avere una pomata a casa.»
Lei non disse niente, ma il suo sguardo si addolcì mentre lo fissava.
«Sei consapevole di dover prendere dei provvedimenti contro il tuo ragazzo, vero?»
Amara chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte con le dita. «Non è il mio ragazzo!»
«Allora che ci facevi a casa sua?» chiese Zlatan, con un pizzico di nervosismo nella voce.
«Sono venuta a prendere delle cose che avevo lasciato da lui» disse lei, appoggiandosi alla parete di fronte a lui e sollevando il mento.
Cosa stava facendo? Voleva sfidarlo a dirle che era una puttana, come aveva fatto l'altro, che prima baciava lui e poi tornava dritta dritta dal suo ex? Credeva che fosse come tutti gli altri?
Non gli era mai interessato quanti altri uomini prima di lui avessero avuto le ragazze che aveva frequentato. Helena, la donna che aveva amato più di qualunque altra e che era stata con lui per moltissimi anni, aveva dieci anni più di lui, aveva avuto molte altre esperienze prima di lui, ma per Zlatan era sempre stato irrilevante. Contava solo il rispetto reciproco, nel momento in cui decidevano di fare sul serio.
L'ascensore si aprì sull'ultimo piano della "torre", come veniva chiamato il grattacielo più alto di Milano, e Zlatan fece entrare Amara in casa. La invitò a sedersi sul divano mentre lui andò in cucina a prenderle un bicchiere d'acqua e in bagno a recuperare la crema per far riassorbire rapidamente gli ematomi.
La trovò in piedi vicino alla vetrata che guardava fuori. Senza tacchi e con indosso una tuta larga sembrava più minuta. Le porse il bicchiere e lei lo prese, bevendone un lungo sorso.
«Grazie.»
Zlatan svitò il tappo del tubetto di crema e se ne mise un po' sulla punta del dito. «Vieni qui» le disse, prendendole poi il viso con la mano libera.
Amara chiuse gli occhi, stringendoli appena, ma stavolta non si ritrasse. Doveva farle già parecchio male, era diventata completamente viola. La vide accennare un sorriso.
«Sembra che stia diventando un'abitudine.»
«Cosa?»
Lei aprì gli occhi. «Io che mi faccio male e tu che mi curi.»
Zlatan si bloccò un istante. Quella sera in infermeria era stato tutto diverso, lei di era fatta male davvero, mentre adesso... La rabbia gli fece serrare forte la mascella. «Non ti sei fatta male, il tuo... ex ti ha messo le mani addosso.»
Amara sorrise triste e gli sfiorò le braccia. «Ti stanno bene i panni del cavaliere che salva le fanciulle in difficoltà.»
La fissò negli occhi e, per un attimo, lei gli parve davvero una fanciulla in pericolo. Gli parve davvero bisognosa del suo aiuto. Dei suoi abbracci, magari, e anche dei suoi baci. Si umettò le labbra. Erano vicinissimi e il suo cuore accelerò. Ma Amara era tutt'altro che un'ingenua fanciulla. Le scostò i capelli dal viso, fermandoli dietro l'orecchio, e si spremette dell'altra pomata sul dito.
Alzò di nuovo gli occhi su di lei e in quel momento Amara lo baciò. Per un solo istante anche lui ricambiò il bacio, ma subito le strinse le spalle e la allontanò.
«Che stai facendo? Ti sei appena presa un ceffone in faccia da un altro e adesso mi baci?» le disse, infuriato. «Ti rendi conto di quanto sei immatura? Non mi meraviglia che ti ritrovi in queste situazioni del cazzo.»
Amara fece un paio di passi indietro e si strinse le braccia intorno al corpo. «Scusa.»
Zlatan si rese conto di aver esagerato e scosse la testa. «Scusa tu.»
Lei lo confondeva. Perché lo aveva baciato? Voleva dimenticare quanto accaduto nel parcheggio o lo voleva davvero? Lo voleva anche lui, solo non gli sembrava il momento opportuno.
Lei gli sorrise. «Grazie per la pomata. Ora vado.» Gli passò di fianco e poggiò il bicchiere che aveva in mano sul tavolino accanto al divano.
«Non vai da nessuna parte» disse Zlatan. «Non mi sento sicuro a lasciarti da sola.»
Lei si infilò la borsetta rossa a tracolla e lo guardò. «Voglio tornare a casa mia.»
Era stanca e anche molto triste. Probabilmente ce l'aveva pure con lui per averla respinta di nuovo. Ma non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare da sola. Ivanov era pazzo. Forse era già a casa di Amara ad aspettarla. Rimise il tappo al tubetto di crema e prese le chiavi della sua macchina.
«Allora ti accompagno.»
Vide la ragazza scrollare le spalle e nascondere un sorriso. «Come vuoi.»
Aprì la porta e uscì, e a lui non restò che seguirla.
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