Tremo
Tremo
Ma sto bene
Piango
Ma sto bene
Ho caldo e fa freddo
Ma sto bene
Forse
Tanto bene
Non sto.
ETHAN SMITH'S POV
Finalmente avevo un lavoro più emozionante, seppur macabro.
Era soddisfacente aver un ruolo, mantenuto rispettabile nonostante la variazione d'ambiente.
Avrei preferito qualcosa di più felice, ma avevo promesso a me stesso che mi sarei preso quel che sarebbe venuto.
Mi trovavo su quell'aereo per il classico cambiamento, per dare un senso e seguire a pieno i miei sogni, il mio vero e proprio volere.
Ero stufo di essere soppresso dai miei genitori, sposati per interesse, tra l'altro.
Non ricordavo una sola volta in cui li avevo visti baciarsi, o avere dell'intimità tra loro.
Non un "tesoro", "amore" o qualche altra smanceria da carie.
Non che questo volesse dire che, se non si rispecchiava i soliti canoni imposti dalla società, non fosse amore.
Solo che conoscevo mia madre e mio padre e lì, di amore, non c'era mezza briciola.
Mi ero offerto di trasportare i corpi privi di vita perchè avevo visto sia Arya che Seth piuttosto scossi, perciò volevo rendermi utile e un po' meno stronzo, ogni tanto.
Avevo capito che in parte mi temevano, per il mio avere la pistola appresso.
Domande scontate sarebbero sul come io potessi averne una, specie con i controlli rigidi di un pre-volo.
Odiavo essere temuto, al contrario del senso di soddisfazione che provava soprattutto l'uomo che portava il mio cognome.
Non volevo che avessero un qualunque tipo di conversazione pacifica con me, per paura di rimetterci qualche pallottola nel cranio.
Non era mia intenzione, non avrei visto utilità.
Non ero un pazzo, un maniaco, come la gente che mi aveva circondato fin da neonato.
Ma sì, avevo ucciso.
Più volte.
Avevo avvolto prima il piccolo perché era più semplice per le sue minuscole dimensioni.
Poi il pezzo grosso era la madre.
Mentre coprivo meglio con un panno che avevo ricavato, studiavo Destiny.
Le avevo chiuso gli occhi, così inespressivi, gli stessi con cui qualche ora fa guardava il proprio ventre gonfio.
Non ci avevo parlato tanto, non potevo dire se mi stesse simpatica o meno, perchè sostanzialmente non avrei dato un giudizio adatto.
Ciò che era certo era che non se lo meritava.
Nè lei, nè il figlio, nè Kalim.
L'ultimo, poi, avrebbe sofferto più di tutti e tre, perchè sarebbe dovuto andare avanti con il dolore, con la consapevolezza, di esser rimasto solo.
In un attimo, in una giornata, il suo mondo era crollato.
Non approvavo la decisione di Arya, di nascondere la verità.
Gli avrebbe fatto male, ma rimandare la data per diminuire il dolore, era no-sense.
Il dolore sarebbe arrivato, era inevitabile.
Come dirglielo? Non c'era modo che risparmiasse la sofferenza.
Stava a lui prendere le redini e decidere cosa farne del proprio futuro.
Se disperarsi e riprendersi, se lasciarsi andare e non risorgere dagli abissi.
Si sputa il rospo, diretto, senza peli sulla lingua.
Si sarebbe lacerato, comprensibile, ma era suo diritto conoscere, sapere, perché sua moglie e suo figlio non sarebbero ritornati la stessa sera.
Da subito.
Ad ogni modo non mi misi in mezzo per fare l'uomo vissuto, specie perché non era affar mio e non volevo risultare incoerente.
Raggiunsi Seth e Arya, i quali ai piedi avevano la fossa, da me ripienata dei due cadaveri coperti.
I due mi guardarono in cenno, come per ringraziarmi.
Avevano apprezzato il gesto, credo.
Gli occhi del ventenne erano puntati sulle mie tasche, dalle quali, una delle due, arma non fuoriusciva.
«Ricopro io», Arya parlò per interrompere quel pesante silenzio.
«Suo marito dovrebbe essere qui, dovrebbe essere lui a dire loro addio», dissi come la pensavo io, poi mi zittii.
Di certo non avrebbe messo in dubbio la sua idea per me.
Annunciai di tornare verso la grotta per controllare se Kalim fosse nei paraggi, per garantire che il loro piano non si rivelasse un totale fallimento.
Non avevo imprecato per il lavoretto, per me era naturale farlo, purtroppo.
Intravidi Khai dirigersi verso i ragazzi, ma non lo fermai.
Sarebbe stato solo sospetto e sia la dottoressa che Mr. Leg se la sarebbero sbrigati da loro.
D'altronde erano entrambi adulti e vaccinati per assumersi le proprie responsabilità.
Oppure prendere la via delle menzogne per pararsi il culo.
[flashback]
«Perché non iniziamo da come ti senti?», la psicologa si sistemò gli occhiali sulla punta del naso, per potermi squadrare meglio.
Io così alto, eppure così basso di difese. Senza armi, sarei stato agnentato perchè rimasto con me stesso.
Picchettò le lunghe unghie colorate di rosso sulla cattedra, a tempo con le lancette dell'orologio che segnavano le tre del primo pomeriggio. Le foglie cadevano dagli alberi, secche, varie di più colori, le osservavo scendere. Era più semplice, che incrociare degli occhi neri come la pece che mi risucchiavano e mi facevano parlare di quel che rappresentava il casino che avevo dentro.
Impiantai le mie stesse unghie, rovinate da quanto me le mordevo a causa del mio vizio, tentando di iniziare un discorso sensato.
Mio padre era stato chiaro: non devi mai e poi mai mostrare le tue fragilità, oppure rimarrai fottuto.
Mi ero pagato le sedute con i miei soldi, ad insaputa dei miei cari vecchi genitori.
Volevo davvero esternare quel che provavo ma, ogni qual volta aprissi la bocca, usciva un solo fiato flebile di poco spessore.
Come nebbia, come brezza, si portava via le mie speranze di poter liberare quel peso che da tempo mi premeva il petto.
Non riuscivo ad essere ironico, il che era grave. Ero disperato, perso.
Avrei voluto creare un monologo, ma ero oppresso dagli strati di oppressione che mi avevano inciso mia madre e mio padre negli anni. Guardavo in faccia la morte, non tremavo alla vista di un anima che si innalzava al cielo dopo che aveva esalato l'ultimo respiro verso la mia persona.
Eppure, qualcosa, mi teneva ancorato con forza a terra.
Un grande spreco di denaro,
complimenti, Ethan.
Era questo che mi ripetevo mentalmente, come un disco rotto.
Ad essere rotto, ero proprio io.
[fine flashback]
Guardai le mie mani; piccole gocce di sudore scorrevano, simili a quelle che guardavo cadere dal finestrino dopo una giornata di pioggia e scommettevo con il mio amico immaginario quale arrivasse per prima.
No, no, no.
Ti prego no, non ora.
Non qui.
Aspetta ancora un po', perfavore.
Portai la mano al petto, mentre questo si alzava ed abbassava irregolarmente.
Alzai gli occhi al cielo, sereno e soleggiato.
Avrei pagato anche per far sì potessi essere meteopatico e lasciarmi influenzare dai caldi raggi solari.
Ma quel che potevo vedere erano minacciosi nuvoloni pronti a vomitare acqua gelida sulla mia esile figura.
È tutto okay, starai bene.
Inspirai ed espirai.
Il cuore fece una capriola.
Deglutii; la saliva stava venendo a mancare.
Uno.
Due.
Tre.
I muscoli si intorpidirono, impedendomi anche movimenti banali.
La tachicardia si aggiunse, fino a che l'organo per eccellenza mi rimase in gola.
Mi accasciai al tronco di un albero, fissando il vuoto.
Sto morendo.
Sto morendo.
Sto morendo.
Sto morendo.
Tremai ancora, durante un'improvvisa vampata di calore in un'iperterrito freddo invernale che si celava dietro le mie palpebre socchiuse che vedevano offuscato.
Ringraziai la fortuna per non avermi fatto inbattere in nessun'altro, non potevo esser visto da nessuno.
La pistola era caduta, a pochi centimetri da me.
Avevo premuto il grilletto, avevo stroncato un'altra vita.
L'angoscia.
L'ansia che saliva.
La mia mente che riproduceva pensieri disastrosi.
Mio fratello era uno spirito libero, eterno.
Protettivo, coraggioso, di contrasto a mamma e papà.
Lo avevo ringraziato decine di volte per esser stato il figlio perfetto, perchè non avrei dovuto esserlo io.
Ma era caduto.
Era morto.
Non si era più alzato.
Ed io, io, ero diventato quel che odiavo.
Un assassino.
Quella parola si era fatta strada dentro me, che avevo giurato di smetterla.
Ma la mia vera natura era stata riscoperta con poco, tramite attacco di panico.
Nudo di forze, come un albero spoglio nelle stagioni di non rinascita, appassivo.
Mi guardavo appassire.
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