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Siamo Tornati, Stronzi!

Ti ricordo nel mio passato,

Ti cerco nel mio presente,

Ti sogno nel mio futuro.

ETHAN SMITH'S POV

Fissavo lo scoppiettare del fuoco.

In una di quelle rare sere dove le mie ossa erano più fredde, il mio volto bramava calore proprio dove esse erano più gelide. Era lì, lì lo aveva trovato in quella sovrapposizione disordinata di legna.
Ardeva, come ardeva la mia pelle.
Faceva caldo, un caldo insopportabile che mi scioglieva poco a poco.
Bruciavo, sudavo, mentre puntavo lo sguardo su ciò che avevo dinanzi.
Lo sentivo sulle mie guance bollenti, lo sentivo sul busto, sulle gambe, sui piedi impiantati nel terreno stabile.

Caldo, ma non quel caldo torrido da rito dell'isola.
Non provavo la necessità di muovere le mani verso la mia faccia per un po' d'aria fresca, nè di pensare a qualcosa di ghiacciato.

I miei compagni sonnecchiavano con qualche giacca che fungeva da cuscino e tra tutte spiccava l'ombra di Arya che stringeva la foto della sua ragazza.
Tinsi le mie labbra di saliva, illudendomi che sarebbero magicamente apparse meno rovinate.
La mia mente mi manteneva attento, vigilante, anche quando meno avrebbe dovuto.

Una folata di vento, tale da far affievolire la fiamma, mi destò dalla pretesa di farmi scivolare tutto addosso.
Una consapevolezza, sempre più opprimente, si faceva strada in me.

E, ancora una volta, la odiai.
La odiavo per tutte le volte in cui le avevo permesso di giocare con me.

Parlare d'amore a diciott'anni era precoce, oltre che superficiale.
«Come puoi parlarne se sei nato ieri?», mi chiedeva l'adorabile vecchietta della porta accanto.
Profumava di pane fatto in casa, di lenzuola pulite lavate a mano, d'erba tagliata.
Aveva gli abiti coperti di pelo di gatto, quel micetto che la seguiva ovunque in cerca di attenzioni.
La signora Willis, con i tratti rugosi di chi ne aveva vista una più di Satana, colse l'occasione per schernirmi.
«Voi crescete, noi invecchiamo, ci abbassiamo e la schiena s'incurva...», diceva sempre, per farmi presente di quanto mi avesse visto negli anni.
Si sorreggeva ad un bastone, ne collezionava, addirittura. Per solitudine.

«Pensa a studiare, giovanotto. Se vuoi crearti un futuro e uscire da questo schifo, studia. È il tuo unico lavoro, non hai altro da fare, ne verrai ripagato un domani. Non riempirti la testa di fandonie, a quest'età devi rendere la tua vita semplice.»

La sua voce risuonò in qualche ricordo sconnesso che per qualche ragione captai lontano.
In quel gruppetto che Seth definiva "di amici" - visto che aveva avuto le palle di criticare la mia proposta di chiamarlo "ridicolo club di cuori-infranti-raccontiamo-la-nostra-storia-perchè-domani-potremmo-fare-compagnia-ai-morti-sepolti-metri-sotto-terra-sempre-se-si trovi-un-cimitero-nelle-vicinanze" perché troppo lungo, ognuno aveva raccontato qualche frammento di sè.

Un vero peccato come io avessi nascosto le mie schegge di vetro, bene, ma talmente bene, da non ricordarmi dove le avessi lasciate.

Capitava che, se le cercavo, ero solo.
Capitava che volessi piangere, ogni tanto.
Aspettavo il momento giusto, ma era inutile.

E sì, avrei potuto premermi un grilletto nelle tempie e fare centro senza sforzo, al pensiero che la soluzione al mio squilibrio psicologico e debole era niente di meno che una persona.

Non ero pronto a parlarne a nessuno, solo nella mia testa lo ero.
E per farlo dovevo tornare indietro nel tempo.

Da quando avevo memoria, mi era concesso uscire solo per frequentare la scuola, io così eccitato di entrare per la prima volta in un istituto dove mi sarei potuto davvero costruire un castello non solo di Lego.
Mi sarei impegnato, avrei studiato sodo, e a quei tanto lontani diciott'anni avrei spiccato il volo verso un'indipendenza che mi potesse permettere il benestare di cui avevo tanto sognato.

Una bambina, tuttavia, mi teneva sull'orlo di una crisi esistenziale.
«Secondo te, matita blu o nera?», mi sorrise, togliendo la barriera di astucci di cui andavo tanto orgoglioso.

«Che importanza ha?», domandai confuso, sbadigliando.

«Ho letto che quella blu fa ricordare meglio i concetti», squittì.

«Tu cosa ne sai? Hai sei anni.»

«Sì, ma sono intelligente», scrisse una frase a me sconosciuta perché non ero ancora in grado di leggere.

«Se già sapevi quale matita avresti usato, perché me lo hai chiesto?», proseguii la conversazione, vedendo quanti brillantini avesse liberato da un piccolo contenitore e di quanto la colla fosse troppo appiccicosa.

«Perché volevo farti parlare», mi tese la mano che prontamente rifiutai, con una battuta squallida che fece ridere la classe.
Il suono della maestra che ci dava il benvenuto al nostro primo anno d'istruzione era squillante, da darmi i nervi.
Nonostante questo, trovai il modo di concentrarmi sul suo discorso per non calcolare la coetanea che aveva preso a darmi le spalle.

E inevitabile tornavo a quel falò.

Se avessi saputo...
Se avessi saputo che in quei suoi occhi mi sarei perso.

I miei genitori si erano illusi di amarsi a vicenda, quando in realtà l'amore era solo dalla parte di mio padre.
Talmente tanto, da fingere di non vedere che mia madre aveva un'altro uomo.

E io lo sapevo. Io avevo visto.
Me lo aveva presentato, piegandomi al silenzio di una bugia e della negazione in caso di sospetti.

Era talmente tanto innamorato, da odiare me.
Mi odiava, perchè le assomigliavo.

Mi ero promesso che non sarei finito in quel modo.
Avevo promesso al piccolo me che mai, mai, avrei avuto una così bassa considerazione di me.
Mai, mi sarei fatto accecare dall'idea dell'amore che tutto può.

È maledettamente umano dipingere un sentimento come positivo solo guardando un lato della medaglia e frantumarsi quando si scopre l'altro.
Fingere, ignorare, prediligere l'innocenza.
È maledettamente amaro piangere per chi non ci merita.

È maledettamente amaro essere il risultato di un amore che non c'era.
Non c'era mai stato.
Era paura di rimanere solo, la stessa che stavo prendendo a pugni io piuttosto di accontentarmi e finire come loro.

Le loro foto del matrimonio erano appese ovunque, simbolo che incoronava tutto era un vecchio filmino di trent'anni prima che avevo tenuto da parte per quando sarei più stato più grande.
Peccato, che mai lo avrei visto.
Mai lo avrei visto in generale, mai lo avrei visto come avrei voluto vederlo, ovvero con felicità.

Quando mi resi conto di amare Jacqueline, era questo ciò che vedevo: due occhi in piena e un cuore spezzato che gridavano di non essere lasciato indietro.

Perché era questo ciò che ero io.
Un bambino che si tappava le orecchie e cantava a squarciagola per la stanza per non sentire le liti.
Un bambino in mezzo a due immaturi che non avevano un briciolo di cervello da non capire che sarei dovuto rimanerne fuori.
Un bambino che voleva essere il figlio, non il piedistallo che concentrava tra le sue mani il potere.

Ecco perché attribuivo alla parola "amore", la parola "dolore".
Ci avevo lavorato tanto a non essere sopraffatto dal mio caro amico panico ad ogni relazione sociale instaurassi.

Questo, quella bambina, non poteva saperlo.

Mi stuzzicava, cercava la mia attenzione, che puntualmente le negavo.
Non ero interessato, odiavo la scuola, risvegliava solo stress e inferiorità.
Tant'è che glielo dissi: "Io ti odio."
Non lo avevo mai detto a nessuno.
Nemmeno ai miei genitori.
Volevo creare amicizia, ma sentivo che qualcosa in un o modo o nell'altro sarebbe andato a storto.

Era vero.
La odiavo.
La odiavo perché era quello che non ero io.
La odiavo perché riusciva ad essere buona in mezzo agli spari della gente.
La odiavo perché era ancora capace di piangere e di coprirsi gli occhi davanti ad un corpo che cadeva, morto.

Lei non rispose e sapevo di aver fatto centro.
I suoi occhi si erano spenti ancor prima che potessi guardarla e si era voltata altrove.
Scarabocchiava qualcosa sul quaderno di matematica, mancando ogni quadretto della pagina.
Mi chiesi da dove provenisse quel bel nome che in classe spiccava molto tra le battutine poco mature a cui delle volte partecipavo anch'io.

Non parlammo più.

Ero una persona di merda, che non lasciava avvicinare nessuno.
Facevo battutine, scherzavo su di lei e non con lei.
Eppure, lei non reagiva.
Non mi rispondeva, e questo mi permetteva di provocarla maggiormente.

Da bambini, non ci si pensa.
Si dovrebbe farlo, ma non lo si fa.
Specie se non si ha avuto un'educazione.
Specie se l'unico compito che aveva tua madre era accompagnarti e venire a riprenderti a scuola, illudendosi che quello che avrebbe dovuto fare con il suo titolo fosse solo quello.

Abitava poco lontano da me, in un quartiere non meno malfamato del mio.
Del resto, si parlava del South Side, non della Casa Di Babbo Natale.

Ci sarei potuto arrivare tranquillamente a piedi e confesso di averlo fatto ogni tanto, per sfizio, per noia e perennemente di nascosto dai miei genitori.

Le sue tendine erano scostate, la luce accesa di quella che pareva essere la sua camera.
I suoi genitori conoscevano i miei e loro conoscevano me.
Così gentili, così sorridenti e bravi, cercavano di riscaldarmi con la loro gentilezza.
Peccato che io fossi difettoso.

Suonava il piano come poche mani sapevano toccare i tasti.

E gli anni passarono.
Le medie non facevano contesto.
Era una giornata soleggiata, ma non potevo trattenermi molto in cortile.
Affiancato dal figlio di un amico di mio padre che negli anni era diventato il mio unico e caro amico, m'affrettai a raggiungere il cancello.
Fu sufficiente un passo, prima di rimanere impigliato in quelle sue iridi tanto strabilianti.

Di un marrone ordinario, i suoi occhi furono la scintilla che bastò per stordirmi.
Immobile, impassibile, m'incantai.
Occhi negli occhi, come la più bella poesia sussurrata ad un sordo.

Bloccato, stranamente bloccato.
Ancora.
Ma il mio appassire lentamente dinanzi a qualcuno, quella volta, fu differente:
Non tremavo, non c'era segno di panico nel mio petto.

Ero tornato indietro, a quel bambino di poche parole.
Perché, in quello scambio di sguardi, non c'era stata mezza frase.

Occhi negli occhi, senza parlare.

Ecco, il segnale: l'inizio di un martirio diverso.
Pungente, infuocato, rischioso, ma pur sempre bellissimo.

Quello che mi conduceva a lei.

L'avevo amata, tanto.
L'avevo cercata ovunque, nei posti che frequentavamo, in altre persone.
Finché non mi ero rassegnato al fatto che in quel rapporto platonico nessuno dei due avrebbe lottato.

E saremmo stati solo quello: un'incrocio di sguardi passionali, persi, bisognosi, con dei ricordi.

Troppo per essere amici, niente per essere una coppia.

Non mi spiegai perché all'improvviso quella nostalgia di lei mi aveva stregata.
Forse il silenzio di quella notte, forse perché tutti dormivano, forse perché rimanere solo con i propri pensieri non era poi il massimo.

Le farfalle nello stomaco, il suo sorriso dipinto quando era con gli amici, le sue stronzate condivise nei social, il piano che suonava divinamente e che sentivo da casa mia.

Se avessi avuto un carattere diverso, sarei stato con lei.
Se ci fossimo fatti avanti, non sarei salito su quell'aereo.

In prima media, in gita, era fradicia almeno quanto lo ero io in quella nottata.
Ballava, ballava a braccia aperte in mezzo alla folla.
Aveva la bocca aperta, beveva qualche goccia d'acqua piovana e rideva.
Rideva come non mai.

Era bellissima.

Aveva gli occhi grandi e marroni, gli stessi che mi guardavano con indifferenza e fastidio alle elementari.
Aveva un sorriso sincero, il naso piccolo, i ricci castani che non spostava più dal suo viso.
Si chinò, lasciandosi andare ad una danza sfrenata e scuotendoli come se non le importasse nulla.

Era piena di vita, tanto che volevo pienasse anche la mia.

Socievole e logorroica, niente a che vedere con la bambina timida che si vestiva larga con le Winx sul grembiule.
Stringeva amicizia in un battito di ciglia, gentile, simpatica, un po' immatura.

Era il suo compleanno.
Lo sapevo, perché ero più piccolo di lei di quattordici giorni.
Per poco, avevamo un segno zodiacale diverso.
A me non importava, ma a lei sì.

Non la conoscevo a parole, la osservavo da lontano.
La conoscevo, studiandola a distanza.
Non come uno stalker, ma come un qualcuno che non voleva interferire con la sua felicità e romperla in mille pezzi.

Si meritava, quella gioia in quei occhi tanto splendidi.
Bruciavo dentro al solo pensiero di averli guardati tanto vicino, ardevo al ricordo di averla avuta per un secondo che mi era sembrata un'eternità.

Anche se fossi riuscito a tornare a Chicago, niente sarebbe cambiato.
Io non sarei riuscito a parlarle senza dire minchiate, lei mi avrebbe solo guardato e incrociato.
Avrebbe trovato un ragazzo perfetto, ricco quanto lei, bello e garbato.

Incasinati, pieni di complicazioni di cui il fato era artefice.
Non sarebbe mai durata.
Con degli sguardi, con un respiro affannato e il suo viso ad un passo dalle mie labbra, poteva definirsi qualcosa?

Il primo amore non si dimentica.
Guardai una stella, lei le amava.
Riconobbi una costellazione e sperai che stesse bene.
Sperai che non avesse perso quella vitalità che l'aveva caratterizzata.

Mi alzai.
Scossi Arya che si girò dalla parte opposta.

«Doc», tantai imperterrito.

«Non voglio fare sesso con te», mugugnò, senza aprire gli occhi.

«Cos- non voglio andare a letto con te», risposi ovvio.

«Ethan, a meno che tu non stia morendo, fammi dormire», tornò a russare.

La scossi ancora e ancora, finchè non si sedette di scatto e mi tirò uno schiaffo ammonitorio non forte.

«Manchi solo tu all'appello.»

Alle mie parole, si guardò attorno e realizzò che avevo ragione.

«Perchè sei senza maglia?», non capì.

«Solo perché tu hai rifiutato la mia offerta, non significa che altre ragazze abbiano fatto lo stesso», sorrisi sghembo.

«Dopo questa torno sul serio a dormire.»

Risi. «Stiamo facendo il bagno. Quest'isola ci terrà pure imprigionati, ma dovremmo pur conviverci, no? Guardati attorno, non mi ero mai reso di quanto fosse meravigliosa prima d'ora!»

Spostò la visuale sulle persone, intente a schizzarsi l'uno con l'altra e scherzando come si conoscessero da anni.

«Avviati. Arrivo.»

Sorrisi e raggiunsi la riva.
I piedi furono bagnati dalle onde, le risate in sottofondo mi apparirono improvvisamente distanti.

Chiusi gli occhi e un brivido mi percorse.

Schianto.
Acqua.
Colpo.
Acqua.
Acqua.
Alghe.
Mancanza d'ossigeno.
Polmoni pregni d'acqua salata.
Il mio braccialetto che tenevo alla caviglia impigliato da qualche parte.
Avevo urtato qualche pezzo di metallo.
Acqua.
Acqua.
Acqua.
Tentativo di tornare in superficie e nuotare contro la corrente.
Buio.

«Hey destriero, hai intenzione di cavalcare quelle onde o puntavi ad avere un pretesto per farti vedere mezzo nudo?», scherzò Arya, alle mie spalle, il poco che bastò per farle un cenno di "sì, ci sono."

La presi per i fianchi, provò a dimenarsi dalla mia presa invano, e la buttai in mare.

«È calda?», scherzai di nuovo.

«È fredda come il marmo!»

Mi tuffai, ignorando il bruciore proveniente dalle mie ferite fisiche in attesa di disinfettarsi con il sale dell'acqua, e mi unii allo spettacolo.

Che si apra il sipario.
Fanculo lo schianto.
Fanculo la morte.
Fanculo tutto.

Siamo tornati, stronzi!

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