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SETH HAWLEY'S POV
Non siamo mai così indifesi
verso la sofferenza,
come nel momento in cui amiamo.
SETH HAWLEY'S POV
Forse quando mi dicevo “non auguro a nessuno quello che mi sta capitando” mi sbagliavo.
Perché, egoisticamente, desideravo che la gente capisse il mio dolore fisico e mentale.
La cosa che più mi corrose era il dover guardare tutti rimboccarsi le maniche e fare tutto il possibile per sopravvivere.
Io potevo solo starli a guardare, e al massimo incoraggiarli, o ascoltarli.
Ed era quello che volevo fare con Ethan; perché io lo vedevo, da come comunicava con chiunque, che aveva un masso più grosso di lui sulle spalle.
Lui non sapeva di averlo, perlomeno, credevo fosse per quello che sottovalutava i suoi malori.
Quando ebbe l'ultimo attacco di panico io dormivo, tutti dormivano.
Quando si riprese, e andò al lago per sciacquarsi la faccia, lo avevo sentito.
Io lo avevo sentito piangere.
Avevo deciso di fare finta di niente e di continuare a far finta di dormire, perché sapevo che se gli avessi chiesto cosa stesse succedendo avrei peggiorato la situazione, o comunque si sarebbe girato male mandandomi a quel paese.
Perché ormai lo conoscevo, e gli volevo bene.
Sono sempre stato una persona che conta molto sui rapporti umani, forse perché per me contavano solo quelli. Sottovalutavo il concetto di “stare bene con se stessi”, perché a me stesso non ci pensavo quasi mai.
Ma allo stesso tempo ero la persona più diffidente che avessi mai conosciuto, le delusioni sono state troppe e sono tramutate in lezioni di vita importanti.
In quel momento però non potevo far altro che fidarmi, perché la mia sopravvivenza dipendeva da chi mi stava attorno. E da quel che vedevo, ce la mettevano tutta.
Arya stava quasi sempre con me, nonostante ci fossero più persone da soccorrere, rimanevo una delle sue priorità. Il che mi faceva sentire un po’ in colpa e allo stesso tempo contento di essere importante.
Qualche ora prima pensavo di essere spacciato, mi sentivo come su una barca in mare aperto, durante una tempesta.
Mi bruciava la gola, per le quintalate di vomito che continuavo ad espellere, la testa era come se trapassata da un chiodo che mi impediva di muovermi, parlare e addirittura ragionare.
Quindi optai per addormentarmi, non potevo più sopportarlo.
Dormire per non provare niente.
Nessuno sapeva da cosa fosse stato causato questo malessere, insieme all’ondata di gelo che aveva fatto svenire tutti.
Fortunatamente stavo relativamente meglio, e non ne potevo più di stare da solo.
Quindi cacciai un urlo, richiamando Madison, che mi raggiunse in brevissimo tempo.
«Sei vivo allora», constatò divertita, sembrava felice di vedermi.
«Purtroppo o menomale?», chiesi divertito.
Si sedette accanto a me appoggiando la testa sulla mia spalla e le presi la mano.
«Scusa se me ne sono andata», disse dopo un lungo attimo di silenzio, «non riuscivo a vederti così» confessò.
A dire il vero, non mi ero nemmeno accorto della sua assenza, e ciò mi fece sentire una persona di merda.
«Stai tranquilla, ora sto meglio», sussurrai tranquillizzandola.
Non riuscivo bene a capire cosa ci trovassi di così tanto speciale in Madison, ma era sufficiente il solo fatto che mi facesse stare sempre un po’ meglio.
Ma purtroppo non avevamo tempo di poter fare i romanticoni, dal momento che eravamo bloccati su un isola, e che i nostri cari ci credevano morti.
«Hai visto Ethan?», le posi un quesito.
«Sì, è con gli altri», sospirò, «Sembra che gli sia passato un treno addosso», aggiunse ridacchiando appena.
Evidentemente non lo conosceva, evidentemente non sapeva nè comprendeva.
«Uff», sbuffai, «Non ti ha parlato, vero?».
«Figurati», rispose rassegnata.
«Strano», ribattei sarcasticamente.
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