Problemi Di Percorso?
What came first,
the chicken or the dickhead?
ARYA MICKLEM'S POV
Chantal.
Quanto mi piaceva ripetere il suo nome sottovoce, forse per nostalgia, o semplicemente perché suonava bene.
Ogni volta che lo ripetevo sentivo per effetto placebo il profumo del suo shampoo alla camomilla; puntualmente lo usava per schiarirsi i capelli, dato che non le piacevano rossi.
Si faceva tanti complessi, sui suoi capelli.
Da quello che mi raccontò, i bulletti alle superiori lo usavano come pretesto per darle della donna dai facili costumi, con le solite battutine goliardiche.
"Rossa di capelli, golosa di piselli" le ripetevano ogni giorno. Beh, lei essendo già consapevole che preferiva la sedia elettrica ad un pisello, si autoconvinceva di "non essere nella norma".
Io, a differenza sua, non ebbi nessun problema ad accettare il fatto che fossi lesbica, pensavo fosse perché a nessuno importasse realmente di me, ma alla fine ero solo stata fortunata, ad essere cresciuta in un ambiente meno tossico del suo.
«A cosa pensi, Doc?» mi chiese Seth vedendomi con gli occhi spalancati, a fissare il cielo stellato.
«Niente, ricordi», dissi schiarendomi la voce, non avevo troppa voglia di parlare, ero veramente stanca.
«Va bene, buonanotte», disse stendendosi accanto a me, usando il suo solito zainetto scaltro come cuscino.
Seth era sempre così "nel suo mondo" che a volte mi chiedevo se fosse consapevole della situazione in cui ci trovavamo.
Eppure lo invidiavo, almeno se la viveva abbastanza bene. Io al posto suo sarei impazzita.
Continuai a fissare il cielo, sperando che in qualche modo mi avrebbe aiutato ad addormentarmi.
Infatti, dopo quasi due ore, riuscii a prendere sonno.
Avevo decisamente bisogno di una bella dormita.
«Arya», sentii qualcuno scuotermi la spalla. «Svegliati, subito», continuava a sussurrare quello che ormai avevo capito fosse Ethan.
Mi voltai prontamente verso di lui, che mi fece segno di stare zitta.
Sembrava stare bene, non capivo minimamente dove fosse il problema. Ma il mio sesto senso mi disse di fidarmi di lui, quindi decisi di assecondarlo e di seguirlo.
Lo guardai dritto negli occhi, aveva uno sguardo attento e curioso.
«Devi seguirmi, non parlare, non fare rumori», mi sussurrò.
Mi portò dietro ad una grossa quercia, indicandomi una luce abbastanza vicina a noi.
Non potevo parlare, ma riuscii a capire cosa stesse intendendo.
Una voce femminile iniziò a parlare.
«Roger, mi ricevi?» chiese la donna, sottovoce. «Sono circa in tredici, uno è ferito», disse togliendosi la grossa maschera che la faceva mimetizzare tra la flora.
Intravidi solamente dei lunghi capelli biondi.
Guardai Ethan, che era evidentemente più consapevole di ciò che stava succedendo, e mi fece segno di stare tranquilla.
«Da domani applichiamo il protocollo numero diciannove, avvisa Klimber e i suoi specializzandi», concluse.
L'atmosfera si fece più che tesa, stringevo il mio coltellino come se fosse l'ultima cosa a tenermi in vita.
Non avevo idea di chi fosse quella donna.
Perché era su quest'isola e non l'avevamo mai vista? Con chi stava parlando?
Erano troppi i dubbi che mi sorsero in quel momento, ma ero talmente spaventata da non riuscire a darmi una risposta.
D'istinto mi aggrappai al secco braccio di Ethan, che pochi secondi dopo mi strattonò.
«Non muoverti», mi sussurrò per poi tirare fuori la pistola che si era promesso di non usare più, e puntarla a vuoto, dato che la luce si era spenta.
«Chi cazzo sei?», urlò talmente forte da svegliare tutti gli altri, speravo solo non ci seguissero.
«Hey, ti conviene rispondermi, non mi faccio scrupoli a premere il cazzo di grilletto», continuò ad urlare.
«Va bene, l'hai voluto tu», pronunciò, mirò in maniera impeccabile, tuttavia il proiettile parve scomparire e quasi trapassare il bersaglio.
Neanche il tempo di bloccarlo, che la donna rispose con un altro sparo, beccandolo sulla spalla.
Mi aveva detto di restare ferma, ma era appena stato sparato.
«Ethan vieni subito qua», dissi avvicinandomi, lui ansimava dal dolore, ma non si smuoveva.
Guardai la sua ferita, e ringraziai il Signore per aver fatto uscire il proiettile.
«Giuro che ti ammazzo», continuava ad urlare.
Non sapevo cosa fare, ma sicuramente quella non era la maniera giusta per estrapolare informazioni. Il problema era che Ethan era armato, e non esisteva cosa più pericolosa.
«Sei ferito, vieni qua», sussurrai un'ultima volta per poi essere interrotta dalle urla di quella donna.
Ci catapultammo da dove provenivano quest'ultime.
Trovammo Seth, che teneva la donna puntandole un coltellino alla gola.
«Rimani sempre in gamba», disse compiaciuto Ethan a quella vista.
Effettivamente mi chiesi anch'io come avesse fatto a bloccare una donna armata di fucile con una gamba sola.
«Va bene, i ringraziamenti me li farete dopo», disse Seth, «Ora aiutatemi a legarla, non riuscirò a stare in piedi ancora a lungo.»
Ethan si avvicinò a lei strappandole il walkie talkie che teneva attaccano con il feltro alla cintura.
Lo lanciò a terra, rompendolo in mille pezzi.
Quanto avrei voluto prenderlo a pugni in quel momento.
Il suo primo errore madornale, quasi imperdonabile.
Quell'aggeggio avrebbe potuto salvarci la vita, e lui l'aveva distrutto come se niente fosse.
Sapendo che Seth sarebbe scattato, presi la sua posizione immobilizzando la donna e legandola all'albero più vicino.
«Cosa cazzo ti passa per il tuo cervello di merda?», gli urlò in faccia, «Eh? Vuoi restare qui per caso?»
Lo spinse via, ma rimaneva il fatto che fosse visibilmente debilitato a causa della gamba.
Una volta legata la donna, riuscii a guardare la ferita di Ethan.
«Non è grave», dissi strappandomi un pezzo di camicia, per legargliela intorno al braccio, così da fermare il sangue.
«Spero muoia dissanguato», sibilò sottovoce Seth, ancora in preda alla rabbia. Ma sapeva meglio di me che se fosse stata un'altra situazione non avrebbe augurato questa cosa neanche al peggiore dei suoi nemici, infatti Ethan gli rispose soltanto con un occhiataccia.
In tutto questo, non sapevamo minimamente cosa fare.
Avevamo legato una donna che parlava di noi ad uno sconosciuto, cosa avremmo dovuto fare se non interrogarla?
Ma non era così facile, sapendo di essere a fianco di due ragazzini più incapaci di me.
«Chi sei?», le chiesi dopo lunghi minuti di silenzio.
«Forse dovrei chiedertelo io», prese parola scorbuticamente e, a mia grande indifferenza, mi sputò sulle scarpe.
«Siamo superstiti di un incidente aereo, il ragazzo che ti ha bloccato prima è ferito», confessai. «Potete aiutarci?» provai, educatamente.
«Che storiella comica, voi sareste sopravvissuti ad un incidente aereo? Su quest'isola?», ridacchiò, come se ci fosse qualcosa di vagamente divertente.
«Esatto», rispondemmo all'unisono.
«È impossibile», ci rise in faccia.
A quel punto, Ethan, le tirò un pugno da parte mia, e prese il mio posto.
«O mi dici chi sei, o ti ammazzo», la minacció facendo uno pseudo-sorriso da psicopatico.
«Te l'hanno mai detto che sei veramente bellissimo?», ribattè, meritandosi altri due schiaffi da parte sua, «Un ragazzino che picchia una donna, ma non ti fai un po' schifo?»
«Beh, tu mi hai sparato e non parli. Non uso violenza su di te perché sei donna, fossi stata un uomo lo avrei fatto comunque», concluse il discorso.
«La violenza non è mai la risposta giusta.»
«Chi sei, Ghandi?»
«Dalla mia bocca non uscirà nulla.»
Vidi Ethan irrigidirsi e portare una mano chiusa alla propria bocca, cercando di calmarsi.
Durante gli interminabili momenti di silenzio, pensai a quanto facesse freddo. Ovviamente non ai livelli di quell'ondata di gelo.
Un freddo non dovuto solamente dalla bassa temperatura, e dal fatto che fosse notte fonda, ma un freddo talmente sottile da riuscire a persuadere tutto il corpo entrando dalle narici, che dava la sensazione di avere le ossa di ghiaccio, pronte a spezzarsi da un momento all'altro.
Ovviamente era anche un fattore psicologico, ma io sentivo freddo.
«Seth, mi daresti la tua felpa per favore?» chiesi interrompendo il tetro silenzio.
Lui me la porse gentilmente senza pensarci due volte, in quel momento non mi resi conto che anche lui avrebbe potuto aver freddo quanto me.
Eppure l'istinto di sopravvivenza sovrastava qualsiasi forma di altruismo e di empatia.
Invece la donna dalla folta chioma bionda sembrava non dare segni di umanità, dal momento che chiunque al posto suo avrebbe provato esattamente altruismo e empatia per dei superstiti di una tragedia.
Ma nonostante questo lei sembrava sapere tante cose in più di noi, ed era per questo che la tenevamo legata.
Ethan continuava a camminare avanti e indietro davanti a lei, mentre io e Seth eravamo sul punto di addormentarci appoggiati ad un albero.
«Se mi liberate, posso fare aiutare il vostro amico» disse di punto in bianco, indicando Seth muovendo la testa.
«Seth sta bene, piuttosto dicci come lo aiuteresti» rispose l'invincibile destriero che tanto stimavo.
«Non sta bene, ha bisogno di cure, o perderà l'uso della gamba», disse come se non lo sapessi dall'inizio.
«Sono un medico, ho fatto il possibile», replicai.
«Sarai pure un medico, ma non hai a disposizione un ambiente sterile, degli assistenti e tutte le attrezzature utili al caso», continuò.
A quel punto guardai il mio amico negli occhi. Entrambi eravamo increduli, eravamo talmente tanto stanchi da essere facilmente manipolabili.
Avevo bisogno di mettere in chiaro le mie idee, quindi presi Ethan per il braccio illeso, e lo portai da parte per parlargli.
«Cosa vogliamo fare?», gli chiesi.
«Io non mi fido, ma come potrebbe essere una serial killer psicopatica, potrebbe anche essere sul serio una persona utile per andarcene» rispose tranquillo.
«Sì, ma noi non sappiamo niente. Perché è qua? con chi parlava al walkie talkie? E dove ha preso quel fucile?» sibilai sottovoce.
Ethan si passò una mano tra i capelli, facendo una lunga pausa di riflessione.
«Io ho una pistola, Seth se la sa cavare, e tu pure» disse toccandomi la spalla «Dobbiamo seguirla Arya, è l'unica soluzione».
Anche perché lei menzionò una "squadra di specializzandi", questo implicava il fatto che non fossimo assolutamente gli unici sull'isola.
Perché dei medici lavoravano su un isola disabitata, senza nessuna evidente struttura?
La situazione si stava facendo molto più che bizzarra, talmente tanto da farmi venire una crisi di pianto.
«Ma perché non sono venuti i soccorsi subito?» dissi tra un singhiozzo e un altro «Non vi meritate tutto questo, avete tutta la vita davanti» urlai tirando dei piccoli pugni sul largo petto di Ethan, che sembrava impassibile.
«Non pensare a quello che sarebbe dovuto succedere. Quasi niente va come te lo aspetti, piuttosto cerca di calmarti, e deciditi sul da fare» disse andandosene quasi disinvolto, lasciandomi in preda alla mia crisi.
Da sola.
Avevo bisogno di un abbraccio, in quel momento più che mai.
Ethan se ne era andato.
E io avevo bisogno di un abbraccio.
Non che io me lo aspettassi da lui, ma al pensiero che io avrei fatto di tutto per riportarlo - insieme a tutti gli altri, ovviamente - a casa senza troppi danni, mentre lui non si degnò neanche di fare il minimo indispensabile, mi corrodeva.
Corrodeva l'anima buona che avevo, e che nessuno era mai riuscita a plasmare.
Ma quella sera mi fu da lezione, decisi di non contare emotivamente più su nessuno, se non su me stessa.
Dopo una decina di minuti, mi ripresi, e raggiunsi gli altri.
«Okay, veniamo con te.»
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