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Karma E Pasta Al Sugo

Perché mi fai ancora quest'effetto?

Perché credevo di aver perso più battiti

per il panico

e invece

Eri tu


ETHAN SMITH'S POV

Per molti poteva essere un piccolo ed insignificante ritorno alla realtà, ma per me era una vera e propria partita.
Una partita a tutti gli effetti, con il primo fischio dell'arbitro, la prima bandierina colorata alzata, il primo secondo in campo a rappresentare l'inizio.

Io, che di calcio non ne avevo mai capito molto, mi sentii come un calciatore all'inizio della sua carriera. Occhi attenti a scrutarlo dagli spalti mentre lui faceva tutto il lavoro, applausi incoraggianti, le grida che rieccheggiavano nella testa.

Lontano, soprattutto la notte.
Lontano dagli altri, da tutti.

I miei piedi erano doloranti, non sapevo quanto fossi stato su quei pattini a rotelle.
Avevo imparato ad usarli di nascosto in una di quelle sere in cui scappavo dalla mia famiglia.
Avevo giocato a biliardino, giocato con quelle luci, disegnato per conto mio, ironizzato persino con la dottoressa mentre operava Seth per smorzare il suo nervosismo mascherato da sicurezza e dovere.

La verità era che quel velo di ingenuità era quanto di più caro potessi conservare.
Quell'ingenuità di cui solo i vinti erano capaci, solo i bambini tenevano stretti con le proprie manine.
Lasciavo libertà a quel briciolo d'infanzia rimasta solo quando non mi sentivo minacciato.

Perché, l'illusione, era l'ultimo appiglio che avevo con quel mondo infantile da cui mi ero allontanato prematuramente.
E mi mancava.

Ma le mie mani erano cresciute, il mio corpo non era più quello di un ragazzino.
Stavo diventando un uomo.
Giorno dopo giorno, anche il mio corpo stava invecchiando.
A pari modo di come la mia mente era invecchiata precocemente.
E provai schifo.
Ingiustizia.
Odio.
Vendetta.
Rabbia, per gli anni in cui avrei dovuto solo godermi cartoni animati.

Era finita la pacchia, il mio cervello non poteva più ammettere scuse o errori.
Non li aveva mai commessi quando c'erano più vite in ballo.

Perciò sì, era stato bello sentirmi libero di essere un bambino, per una volta.
Con la corazza di uno stupido che lo faceva per far divertire, ciò che contava era che io, una volta tanto, mi stavo davvero divertendo.

«Come stai oggi?»
Era la domanda di rito che mi veniva posta appena prendevo posto sulla sedia che spettava ai pazienti. Odiavo farmi psicoanalizzare, ma qualcosa dentro me si faceva grattare. Grattava, grattava, grattava la superficie. E quel grattare non se ne andava mai, era impresso nelle mie unghie rovinate, nel palmo delle mie mani. Era quello sporco che tanto cercavo di togliermi con le docce, strofinando la spugna insaponata da ogni parte e con violenza.
«Bene», rispondevo automaticamente con un sorriso abbastanza falso. Per quanto mi sforzassi di essere sincero, le parole non conoscevano la lingua della verità quando si trattava di me.
Lei, così trasparente e studiosa, tuttavia rispondeva con un sorriso pieno di sapienza.

Accarezzavo il disegno che avevo creato. Appositamente infantile, il foglio era macchiato di pennarello che definiva i tratti di un mostro nascosto sotto un letto. Non perché il mio si trovasse lì, ma perché avevo cara l'idea idiota di poterlo identificare in quel posto. Mi sarebbe piaciuto da piccolo, però ogni volta lo trovavo all'interno della mia pistola. La stessa pistola che tenevo nascosta sotto il cuscino, lo stesso strumento che mi era stato regalato, la stessa arma con la quale aspiravo anime e uccidevo corpi.

In quel rifugio c'era stato concesso un letto a testa, io avevo scelto l'unico isolato.
Con dei pigiami offerti gentilmente, per una volta, non mi feci troppe paranoie.
Avevo mirato tanto alla sopravvivenza e ora ero riuscito a poterla assaporare.
Perché privarmene?
Gli altri là fuori avrebbero fatto lo stesso, ne ero certo.

Mettere in pausa la testa.
Mettere in pausa il mio corpo.
Fermarmi.

Il piccoletto tra le strade innevate di Chicago che era in me avrebbe pregato per avere quella manna dal cielo anni prima.
Non m'importava quali fossero i loro scopi, cosa volessero, se ci avrebbero usato, in quel momento.
Volevo solo passare una giornata tranquilla.
Una volta tanto credevo di meritarmela.

Chiusi gli occhi divenuti pesanti e mi lasciai cullare dal terpore delle coperte profumate, morbide e calde e di un cuscino con niente sotto.

La neve.
I bambini uscivano trepidi dall'emozione con i propri amichetti e giocavano a produrre pupazzi con carote al posto del naso e bottoni sul fisico.
Fiocchi di neve scendevano e riempivano la terra di manto bianco.
I cani a spasso lasciavano impronte ovunque, passeggini di neonati da poco alla luce tenevano al riparo creaturine indifese.
Alle finestre famiglie riunite con alberi addobbate, palline colorate, luci colorate, regali.
Cene imbadite di caldi pasti appena sfornati, sorrisi e occhi lucidi dalla commozione.
Abbracci.
Baci.
Spari.
Il mio udito si destò al suono del grilletto abbassato.
Fece freddo come non mai.
Calò il silenzio.
Una pallottola.
Due pallottole.
Tre pallottole.
Grida.
Grida.
Panico.
Avrei voluto portare le mani alle orecchie, eppure in cuor mio sapevo che non avrei potuto.
E li sentivo, i bambini impauriti.
Odore di rimorsi.
Odore di sangue.
Odore di morte.

Potevo tastare con il tatto la preoccupazione, la magia svanire, la felicità che andava allontanandosi.
Tremai.
Forzai la presa sul mio utensile, giocherellai con il grilletto arrugginito, e premetti.
Tonfo sordo.
Tonfo affatto passato inosservato.

L'adrenalina scorreva nelle vene, il cuore martellava nel petto come un cervo che scappava dal cacciatore, la saliva che andava a mancare.
Ancora grida.
Ancora grida.
E gli occhi della folla che mi guardavano come se quello sbagliato in quella storia fossi io.

Spalancai gli occhi.
Misi a fuoco cosa ci fosse attorno a me, ancora stordito.
Volevo portare via i segni del sonno sul mio volto, ma temevo che le mie mani fossero di nuovo artefici di una vita stroncata in un omicidio.
Richiusi gli occhi.

Dovevo solo premere un grilletto. È per la sopravvivenza. Devo respirare. Respirare. Respirare.

Le grida continuavano a scorrere nella mia testa.
Le pozze di sangue che evitavo come fosse normale.
Flebili respiri.
Polso debole.
Occhi aperti.
Occhi spenti.

Riaprii.
Non c'era nessuno accanto a me ed era un bene.
Le mie dita stringevano con insistenza il lenzuolo al punto da divenire rosse e le nocche bianche, il petto pesante e il respiro irregolare.
Mossi con fatica la mano destra e la portai alla bocca.
Morsi con prepotenza.
Forte.
E impedii alla mia voce di cacciare alcun suono.

*

La luce filtrò dalla finestra della camera di cui mi ero appropriato. Un nuovo giorno era cominciato e onestamente avevo delle occhiaie terribili a solcarmi il viso pallido. Sospirai, dirigendomi verso il bagno privato che ognuno di noi aveva potuto avere.
Aprii il rubinetto e lasciai che l'acqua fredda m'investisse; FINALMENTE provai la gioia di radermi la barba che stava iniziando a farmi sembrare un cinquantenne buttato in mezzo alla strada.
Accurato ciò, mi spogliai di quei vestiti che avevo indossato letteralmente tutti i giorni e non obbiettai quando l'acqua mi depurò.
Deglutii, sotto quel getto naturale quanto scontato, mentre mi toglievo gli ultimi indumenti che poco a poco andavano bagnandosi.

Non era acqua salata, non era acqua del mare, non era acqua che avrebbe potuto uccidermi.

Profumato, rilassato e conceduto un po' di relax, mi vestii con abiti puliti gentilmente offerti da Jade.
Quella donna aveva un patrimonio davvero grande per concedere a degli sconosciuti un lusso tale.

Una parte di me che non voleva sovrastare sapeva che prima o poi mi sarei dovuto affacciare di nuovo a quello che è il mondo.
Sapevo che mi sarei dovuto imbattere nell'interesse dell'essere umano, perchè "il dare per ricevere" ai giorni d'oggi era una frase dei biscotti della fortuna.

E mi tornò nella mente Seth che era tornato a stare bene e suonava la chitarra, mi tornò nella testa The Night We Met, mi fulminò il pensiero dei suoi occhi.

Jacqueline.
Non era stato un sogno.
Merda, no, che non lo era!

La sera prima, dopo l'intervento, dopo aver riconosciuto Jade, la figura della figlia aveva davvero posato lo sguardo su di me.

Era in carne ed ossa, lei.
Davanti a me, a noi, anche se mi ero dimenticato degli altri.

Mentre tamponavo i capelli con l'asciugamano, la scena continuava a prostarsi come se un fantasma potesse avere sostanza.
Non mi riferivo al mio pallore, o alla sua forma fisica, ma bensì alle emozioni.

Cosa si dice a qualcuno che non è un vecchio amico quando si rincontra?
Non mi riferivo ad un incrocio causale, ma ad un vero incontro degno di nota.

Le sue labbra semi-aperte, i suoi occhi luminosi, il suo deglutire a fatica.
Se solo avessi potuto saperlo prima...
Stronzate. Avrei comunque fatto la figura dell'idiota.
Perché, non importava quanti segnali avevo avuto, io non li avevo colti.
Non avevo voluto coglierli.

Sarei comunque andato su di giri.
Ne sarei rimasto lo stesso destabilizzato, capitava sempre, quando si trattava di lei.

L'incubo collegato a Chicago non era stato un caso, non dopo averla rivista.
Le mie gambe erano instabili, il mio respiro debole mascherato.

A distanza di anni, come poteva farmi ancora quell'effetto?

La porta si spalancò.

«Ci possiamo fidare?», Seth era appoggiato alla porta del bagno e ringraziai il Cielo che fossi vestito.

Lo guardai, gettando l'asciugamano a casaccio.
Mi scrutava, in attesa.
La gamba pareva stare meglio, ma il suo appoggiarsi mi lasciava interpretare che era ancora lontano da abituarsi a qualcosa di cui era rimasto privato per un po'.

«Di loro, ci possiamo fidare?», specificò, guardandosi dopo attorno. «Abbastanza da... rivelare la sistemazione degli altri?»

Si riferiva a Madison, in particolare.
Lo sapevo.

In quella situazione caotica e confusa, non sapevo proprio che dire.
Ma se c'era qualcosa che avevo apprezzato era il suo essere diretto, e soprattutto riservato.

Non mi aveva chiesto di Jade, o di Jacqueline.
Forse non lo riteneva importante, o almeno, non il nostro rapporto.
Forse pensava fossimo stati conoscenti, il che non era esattamente errato.
Mi veniva difficile definirci.

Forse, riteneva fosse poco rilevante perché c'era altro che doveva sovrastare al mio cuoricino lunatico.

Forse, voleva capirci qualcosa anche lui senza risultare troppo pesante.
Forse voleva solo alzare il culo perché si era stancato di rimanere a guardare e non essere preso in considerazione.

Forse, mi rispettava e si aspettava gliene parlassi io.
Forse, non voleva nemmeno saperlo e voleva andarsene, o rimanere. A seconda di quel qualunque cosa gli passasse per la testa.

Voleva solo che la sua fidanzata fosse al sicuro, potesse stare al sicuro, godesse del Ben di Dio che noi avevamo sperimentato per primi.
Doveva farle sapere.
Doveva e voleva.

Forse, e dico forse, mi stavo facendo troppe pippe mentali.

«Non lo so, Seth. Non lo so.»

«Non lo sai?», sbuffò. «Se non tu, chi? Chi deve saperlo?»

Non ci capii niente.
Perché mai le due sarebbero dovute stare in mezzo al nulla?
Perché Jade mi aveva riconosciuto e mi aveva trattato come uno che non aveva mai visto in vita sua?
Perché tenermelo nascosto?
Perché non dirmelo subito?

«È... complicato.»

Il South Side pesava. Viveva dentro me.
Tanto da non fidarmi mai, mai e poi mai, di nessuno.
Soprattutto da chi proveniva dal mio stesso posto.

«E rimarrà tale, se non agiamo. Non possiamo rimanere qui a spassarcela mentre gli altri là fuori si chiedono dove siamo, se stiamo bene. Madison non li terrà buoni e obbedienti per l'eternità. Dobbiamo rischiare, secondo quello che tu credi sia giusto.»

Oh, Seth...non mi aspettavo che avresti indossato tanto presto la maschera da SuperMan.

Non eravamo più bambini, ma ragazzini. Quel gradino in più che non mi permetteva libertà, che non provava pietà, che sapeva non poteva avere poco peso sulle spalle e fingere mentre lasciava il lavoro sporco a qualcun'altro.

«C'è molto che non torna.»

«Fin qui ci siamo tutti. Ma... tu sei la miglior risorsa che abbiamo al momento. L'unico che sa qualcosa più di noi.»

Aveva ragione, ma io proprio non sapevo cosa pensare.
Maledetta famiglia, maledetto colpo di scena, maledetto destino e maledetto aereo!

«Se non si fosse presentato il colpo di fortuna che c'è stato, se tu non avessi saputo la verità, o se io o chiunque altro non avesse conosciuto queste due, cosa avremmo fatto? Avremmo aspettato! Quindi, perché non aspettare ancora come niente fosse successo? Stiamo bene, ma non possiamo rischiare di mandare al patibolo Madison e compagnia bella. Poi, come ci convivi con la coscienza sporca di aver sbagliato tutto? Come convivi con le mani sporche di sangue e persone che hai portato a morire?»

Lo chiesi, quasi come se avessi potuto prendere appunti da una risposta che mai mi avrebbe dato.

«Non ti sto chiedendo di fare la scelta che ci porterà alla salvezza, o alla scoperta del secolo che ci farà vivere felici e contenti. Non potrei mai perché non puoi saperlo, e se potessi, so che lo faresti. Ti sto chiedendo di provare, di tentare. È sempre meglio che non fare nulla.»

«Se vorranno fregarci, lo faranno. Ma se avessero voluto ucciderci, lo avrebbero già fatto. È evidente che vogliono qualcosa da noi», girai avanti a indietro per la stanza.

«Sembra abbiate avuto un rapporto per lo meno civile, tralasciando lo stronzo che la ragazza ti ha detto. Perché esiti tanto?»

Perché le persone cambiano e pure noi, se non totalmente, lo facciamo. Perché gli anni passano, la vita ti cambia, gli eventi lo fanno.
L'educazione lo fa, il contesto, le persone o la noia.

«Faremo alla vecchia maniera», conclusi.
E per "alla vecchia maniera" mi riferivo alla mia maniera, l'unica che avessi conosciuto.

«Ovvero?», si accigliò.

«GTA.»

«GTA?», ripetè credendo di non aver capito bene.
Oh, eccome, se lo aveva fatto.

Percorsi i corridoi perdendomi di tanto in tanto.
Avevo superato impulsivamente Seth, quasi colpito da una repentina sete di riprendermi la mia cazzo di vita una volta per tutte, quasi mi fossi risvegliato dalla trance.

Oltrepassai stanze di tutte i tipi, da salotti a bagni, a camere da letto a sale giochi che mi tentavano.
Finché non vi trovai una con diversi tipi di armeria, dai fucili calibrati, a pistole più basilari da poliziotti. Era cupa, buia, solo uno spiraglio di luce si intravedeva ed era sufficiente per mostrare quella che a tutti gli effetti era proibito.

«Vedo con piacere che te ne sei accorto in tempo», la voce di Jade tuonò alle mie spalle. Non mi ritrassi, non reagii, nè sussultai.
Ci voleva un controllo davvero disumano che io - almeno in quella circostanza - ero in grado di reggere.

«Cosa vuoi da noi, Jade?»

Avrebbe potuto chiedere di tutto, ci aveva in pugno. Solo una mente malata avrebbe scelto di vivere su un'isola quasi disabitata e in culo al mondo, solo qualcuno di pazzo avrebbe accettato le radiazioni ormai evidenti anche a noi, solo qualcuno che non stava bene avrebbe ospitato qualcuno che aveva invaso la sua aerea.

Mi venne difficile pensare male di lei, poiché il suo tono era ben differente da quello che avevo conosciuti anni fa.
Era dolce, tranquillo, sereno, materno.

Perché l'istinto materno mi repelleva tanto?
Perché era reciproco?

Cosa poteva volere da noi?
Protezione? Eravamo i primi a non averne!
Eravamo spacciati, eravamo con niente in mezzo al nulla!
Cosa mai potevamo donarle che non avesse già?

«Beh, non mi ringrazi per i vestiti puliti? Mio marito ne sarebbe contento.»
Non mi voltai.
Lei seppe precedere la mia domanda. «È partito, è via. Non tornerà prima della fine della stagione.»

Poi rise. Una risata sincera, genuina, quella che i miei timpani avevano riconosciuto.

«Ethan, non voglio farvi del male», cauta, m'intimò a voltarmi e lo feci.

«Questa stanza-»

Incredibilmente le mie sicurezze crollarono. La mia vigliacca impulsività se n'era andata e mi restavano solo i miei sensi, il mio istinto.
Uno scontro alla cieca, insomma.

«Sono un militare. Cosa credi che ci faccia con questi pantaloni, il sugo?»

La guardai.

«Senti,» proseguì «Tu forse stai iniziando ora a sviluppare i tuoi traumi ed è grazie a te se ho capito cos'era meglio per mia figlia. Andarmene è stata la scelta più saggia che potessi fare per... non farla crescere in quell'ambiente là.»

Per non farla diventare come sei tu, ero certo che intendeva quello.

«Prendila come una vacanza, come un'aiuto che voglio darti. Darvi», si corresse, «Anche ai tuoi amici.»

«Non sono miei amici», chiarii.

«Oh... avrei dovuto immaginare che uno schianto aereo non fosse stato piacevole. Non di certo l'ideale per fare amicizia.»

«Bene, allora ti ringrazio per questo favore che ci hai fatto. Ma queste persone vogliono tornare a casa, da chi hanno lasciato, e io ho un volo in sospeso.»

Sorrise, fingendosi sorpresa. «Tesoro, vorrei fosse così semplice. Non c'è segnale quaggiù, nè modo di scapparne. Ti va di fare colazio-»

Colsi una scintilla nelle sue iridi, la stessa che aveva Jacqueline quando vinceva a 1,2,3 Stella.

«Una chiacchierata, niente di più.»

Un rumore. Ritrassi il riflesso di scattare l'attenzione verso dove l'avevo sentito.

In trappola. Rinchiuso. Ancora e ancora.

Sentii un corpo cadere e intravidi il camice di Arya.
«Ethan!», la voce di Seth.

La donna tentò di colpirmi, ma schivai prontamente.

«La pasta al sugo non mi è mai piaciuta», sostenni il suo sguardo, «E nemmeno le cose a metà.»

Non le avevo mai chiesto cosa facesse nella vita quando m'invitava a fare merenda da lei.
Sorrideva, gli occhi luccicavano, la sua delicatezza nell'imtimarmi a stare calmo che poi mi faceva incazzare ancora di più.
Mi toglieva dalla strada, da quella famiglia tossica, per il tempo di un pasto davanti ad una persona che non sapevo minimamente potesse essere un militare.

E, mentre schivavo, ricordavo Jacqueline a scuola con la testa bassa al suono della parola "mamma" perché era come loro.
Lo capii solo mentre lei tentava di colpirmi, che in chi ritieni più fiducia, è chi ti assesta più colpi.
E lei, Jacqueline, con il diario pieno di scarabocchi e firme false, sognava guardando fuori dalla finestra.
Sognava una famiglia più presente, come me.

Perché avevo capito tardi che, in fondo, non eravamo tanto diversi?

«Non devi farlo per forza», dissi alla donna, nel bel mezzo della sua performance cazzuta.

«Hai insultato la mia pasta in tutti questi anni in cui mi hai detto che ti piaceva, che ti aspetti?»

Arricciai il naso, perché la mia gentilezza non veniva mai apprezzata nei suoi piccoli momenti a cui le lasciavo spazio.
Ero la brutta copia di Jacqueline, quella in penombra, mentre lei spiccava il volo e raggiungeva il posto che meritava lontana da coglioni.

Un destro.

Notai per intero il corpo privo di coscienza di Arya; anche la mia roccia - quella che sempre soccorreva - era caduta.
Per un secondo, la vidi ricoperta di sangue.
Sul volto, sulle mani, sui vestiti.
Deglutii, lasciando che la fazione nemica mi colpisse volontariamente.

Portai una mano al naso che perdeva sangue, alzando il volto.

«Che bassa considerazione puoi avere di te stessa prendendotela con chi non sa difendersi?»

«Starà bene», roteò gli occhi.

Non ero un medico, ma lo sapevo. Sapevo che era solamente svenuta, che non sguazzava realmente nel suo stesso sangue.
Era solo nella mia testa.

Poco distante, un Seth traballante veniva spinto all'interno di una stanza a prova di uscita.

«Non voglio lottare contro di te.»

Lo volevo, se questo significava abbandonare quest'isola.
Ma non potevo riporre la risposta in lei, non potevo sperare che magicamente tutto si sarebbe risolto e che avrei potuto mettermi un costume per buttarmi in un mare delle Hawaii.
Anche se, dopo quello schianto, non apprezzavo particolarmente l'acqua addosso a me.

«È per mio padre?», potevo permettere alla mia bocca di produrre quella parola, quella che accennava alle mie origini, al mio stesso sangue.

Perché, tutto nella mia esistenza, riportava a quel liquido rosso che rifiutavo tanto.
Sangue.

Potevo permetterlo perché non c'era nessuno che mi avrebbe sentito.
E non potei essere più sciocco.

Avevo basato la mia esistenza a vedere Jacqueline come un fantasma, come qualcuno che si palesava solo quando si parlava di morte.
Perché con Jade andavo automaticamente a lei per quanto si somigliassero.
Anche se ero a coscienza che si trovava tra le stesse quattro mura, preferivo fingere che non si trovasse lì.
E, ovviamente, lei, si palesò davanti a me.
Mi guardò da capo a piedi.
Il secondo nostro incontro, uno di fronte all'altro, sarebbe potuta essere una rivincita dove vittorioso avevo la meglio sulla ragazza.

Il tempo si bloccò ancora, una goccia di sangue mi macchiò il vestiario di suo padre.
Stavo andando nella direzione sbagliata, perché guardare Jacqueline significava voltarsi e trovarsi un fucile alla tempia.

Stavo sbagliando, ma cosa potevo fare?
Il piano Gta era andato a puttane.
Tutto, per lei.

Jade sapeva che mai mi sarei battuto contro sua figlia.
Il mio cuore che pulsava adrenalina si chiese perché.

Non perché non riuscissi, ma perché non volessi farlo.
In fondo, lo sapevamo tutti quanti.
Solo, era più semplice respirare che darlo a vedere.

Sconfiggendole, ad ogni modo, non sarei uscito da quel buco.
Cosa mi era saltato in mente?
Perché avevo avuto quella mania di protagonismo se ero sempre stato una comparsa scarsa?

Mantenne le distanze, facendo breccia nel mio sguardo che aveva lei come obbiettivo.

«Vendetta», sibilò una delle due.

Non potevo schierarmi contro di loro, in fondo avevamo bisogno del loro lusso.
O di quel che sapevano più di noi.

«Non chiedi pietà per i tuoi amichetti?», domandò Jade.

Definirli amici per me era ancora presto, per i miei standard esagerato, per i gesti da loro compiuti che nessuno mai mi aveva mostrato era invece tardi.
Tuttavia, regola numero uno della sopravvivenza: mai mostrare punti deboli.

Non abbassai lo sguardo sulla ragazza.

«Fai quel che devi fare.»

Vendetta. Aveva parlato di vendetta, dopo avermi dato dello stronzo.
Come darle torto? In fondo ero sempre stato un'egoista che riponeva le poche cose belle dentro il suo cuore e le teneva per sè, nascoste e lontane da mani inaffidabili.
Mi guardava, gli occhi accecati dalla rabbia.
La sua mano destra che teneva salda la maglia che andava stropicciandosi, lei che insisteva nel far avvicinare il mio viso al suo.

Una resa dei conti non equa, perché i suoi occhi brillavano come una distesa di stelle nel cielo più buio ed io ero solo un navigante disperso.

Jacqueline vedeva altro, vedeva quello che facevo vedere. Iridi fisse sulla sua figura, in grado di affrontare le sue.
Sorrise sbilenca, scuotendo la testa.

«Sei il solito stronzo di sempre, non sei cambiato, uh?»

«Scrivi ancora come vanno le tue giornate sul diario?»

Aumentò la stretta.

«Non sei nella posizione adatta per parlarmi, sai?», sbuffò.

«Questo ti pare uno scontro alla pari? Disarmato, con persone a terra che non ti hanno fatto niente?»

Con un soffio, spostò una ciocca di capelli dal volto.

«Avrei dovuto prendermela solo con te, ma vedo che continui a non aver paura di me. Nemmeno con una pistola che potrebbe farti saltare il cranio o perdere sangue da morire dissanguato e solo come un cane.»

Mi chiesi dove fosse finita la Jacqueline che avevo conosciuto alle elementari.
Mi chiesi davvero se scriveva ancora sul suo diario, se lasciava le pagine aperte perché voleva una firma dai suoi genitori.
Se parlava ancora agli animali, se sorrideva quanto sorrideva un tempo.
Era cambiata.
E provai frustrazione, per questo.

Provai rabbia, perché non avrei voluto che il mondo mi potesse riporre nella posizione di vederla differente.

Tuttavia, ad un palmo dal suo viso, mi ritrovai a sussurrare.

«Non m'importa un cazzo se spari a loro, nè se spari a me. Vedo che il coraggio non ti manca», innarcai un sopracciglio, anche se l'istinto di sopravvivenza era legato da un filo finissimo alla mia testa.

«Non ti preoccupare. Ho in serbo altro per voi.»

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