Fare Carità
Qualche opera di bene
Non guasta
Ma deve essere rara
Altrimenti la gente se ne approfitta.
ETHAN SMITH'S POV
Pesantezza.
Era pesantezza il modo in cui mi sentivo.
Una pesantezza diversa, oltre a quella fisica.
La testa esplodeva.
Lo stomaco era in sobbuglio.
La brezza mi smuoveva i capelli neri come la pece, corti.
Aprii con estrema lentezza gli occhi, cambiai la posizione, sbattendo prepotentemente la mano sull'acciaio di un'ala spezzata.
Trattenni l'impulso d'imprecare, emettendo un grido soffocato per il male che mi ero procurato involontariamente.
Rimasi ancora un po' ad occhi chiusi, al freddo di un mattino indistinguibile di orario.
Mi ci volle del tempo per metabolizzare davvero che, riaperte le palpebre, tutto quello che avevo sperato si trattasse di un incubo, era reale.
Ero affamato, reazione più che comprensibile poiché ero a digiuno dal dì precendente.
Ciò che più mi faceva incazzare era quel "quasi" nelle frasi, perchè era il segnale di un risultato non pienamente raggiunto.
Ero quasi arrivato.
L'aereo era il mezzo di trasporto che più preferivo.
Non lo prendevo d'abitudine, era una rarità, a dirla tutta.
Ci ero stato a bordo un numero di volte contabile sulle dita di due mani, abbastanza da ricordare la rottura di coglioni del rigido anticipo da rispettare prima della partenza e della stuzzichevole ansietta del decollo.
Chi avrebbe mai detto che, dal perpetuo animo strafottente e menefreghista per quanto riguardava le regole delle cinture - che avevo stranamente messo - avrei avuto il trauma dell'atterraggio di cui la mia stupida mente aveva, tra l'altro, rimosso.
Erano ricordi spezzettati, come vetri rotti e dispersi, come singhiozzi sconnessi senza tregua, frammentati.
Stando all'ascolto di dicerie che si era solito udire dalla gente, i sedili in fondo erano quelli dove si percepivano maggiormente scosse.
Quelli davanti, invece, avevano a che vedere con il disagio delle/degli hostess che ti chiedevano di dare un occhiata al menù, come se avessi potuto avere miliardi di soldi da spendere in cibo dai prezzi indecenti in quanto cari, nemmeno da potersi permettere lo stipendio di qualche altro riccone.
Mi ero pentito di aver finto di dormire quando uno di loro aveva sfilato davanti a me, con quell'odore di buono che aveva incitato il mio stomaco a brontolare.
Era tardi, ormai, per i rimpianti.
Così, con un pizzico di fortuna, ero finito nei posti in mezzo al veicolo.
Con nessuna vecchietta dormiente pronta a sbavarmi addosso sulla mia t-shirt nuova, con il cellulare come a mio solito scarico, con solo accanto un trentacinquenne e la figlia sui sei anni che non faceva altro che chiedere al suo generatore: "Quando arriviamo, papà?"
Solo, senza nessuno da cercare tra il panico collettivo, mi limitai a prepararmi al peggio.
Ma chi volevo prendere in giro?
Ero terrorizzato, mentre mi guardavo dalla mia perfetta vista dal finestrino, precipitare.
Sarebbe stato un suono sordo, un qualcosa di cui non mi sarei accorto.
Non mi aspettavo di certo di risvegliarmi, tanto che non avevo a pieno realizzato che sarei stato - alla meglio - ingoiato da un vasto orizzonte d'acqua marina.
Il momento prima ero tranquillo, in un cielo sereno, con la sicurezza garantita - in quanto l'aereo sia staticamente riconosciuto tale rispetto ad un'auto - soggetta ogni giorno ad incidenti.
«Papà, ho paura», la bimba aveva sussurrato sull'incavo del collo dell'adulto, mentre lui era intento a porre sul suo volto la maschera d'ossigeno.
Mi chiesi se li avrei rivisti.
Se, un giorno, avremmo potuto riderci su davanti ad un'amara birra.
Ce l'avevamo quasi fatta, ad un soffio dalla meta.
Non avevo specificato ad Arya il motivo per la quale ero su quel trabiccolo malfunzionante, perchè sotto un certo punto di vista ero molto riservato.
Ero uno di quei quattrocento passeggeri perchè volevo cambiare vita, lontano dalla mia Chicago.
Da una Chicago che, di mio, aveva poco e niente.
Per la prima volta avevo messo un punto, portando quasi a termine la promessa di quando ero bambino.
Appena compiuti i tanto attesi diciotto anni, con la visuale ampia di un mondo che ti si apre totalmente con i suoi lati di merda e con i suoi benevoli, con pieno accesso ad ogni attività, sarei scappato.
Scappato in maniera diverso.
Certo, non vestito da Babbo Natale con le bermuda in piena estate o con un cartello con su scritto: "Vengo dal South Side ma, giuro, non sono un criminale!"
Beh, non esserlo, avrebbe fatto la sua figura...
Sarei scappato, ma scappato da coraggioso.
O almeno volevo pensarla così.
Lontano da mia madre, lontano da mio padre.
Lontano da un mondo che non rispecchiava i miei ideali, il mio futuro.
Ero così vicino, ma allo stesso tempo lontano.
Ad un soffio dalla bramata libertà, quella che mi faceva sudare sette camicie e quattro docce al secondo.
A che scopo?
Ovvio, a dover trasportare come fosse una piuma un ragazzo paralizzato!
Le urla erano ancora strazianti.
La notte era già svanita, come svanite erano le speranze e i tentativi di accettare quello che era capitato.
I miei "perchè" popolavano costantemente i dubbi mentali, purtroppo nemmeno il mattino aveva spazzato via i pianti.
Molte persone, quella notte, avevano esalato l'ultimo respiro.
Erano passate a miglior vita, estenuate da ciò che avevano trovato quaggiù.
Era come impazzire.
Sangue ovunque, a terra, sui vestiti, sull'anima.
Era palpabile il terrore, di macerie che non sarebbero tornate case.
L'aria era divenuta irrespirabile, contornate da mani strette di chi non voleva far morire di solitudine qualcuno.
Arya ce la stava mettendo tutta, ma non era Dio.
Mi chiesi dove fosse finito il mio credo.
Aveva cessato di esistenza quando a dieci anni gli chiesi di far sì che mio fratello potesse star bene.
Un po' da ripicca;
"Se domani non mi interroga in matematica, ti giuro, farò il bravo".
"Se mi risparmi da questa piccola bugia senza castigarmi, ti giuro, che aiuterò di più in famiglia".
"Se lo salvi, ti giuro, che pregherò e non diventerò come mio padre vuole che io diventi. Se lo salvi, andrò di nascosto da mia madre alla Messa".
Ci credevo davvero, da povero illuso.
Il karma, ragazzi.
Sai che prima o poi ti raggiungerà ma, quando arriva, chiedi più tempo.
È umano, come quando arriva la morte.
E, per mio, fratello, era arrivata.
Una pallottola lo aveva colpito in pieno, ma non abbastanza da farlo scampare all'agonia.
Ero furioso, perchè quel Dio non aveva rispettato i patti.
Mi aveva ascoltato, ma aveva lasciato il visualizzato.
«Sistemalo lì», mi gridò Madison per attirare di nuovo la mia attenzione su Seth.
Il ventenne chiuse gli occhi ed io, preso dall'impulso di vederlo abbandonarsi, gli versai parte della borraccia d'acqua nel viso.
«Che cazzo fai, Ethan! Ne è rimasta poca!», mi sgridò la ragazza.
Hawley mi diede cenno di vita e non mi brolontò come credevo avrebbe fatto.
Mentre Destiny aveva iniziato a gridare per le doglie - e concentrava il vittimismo su sè stessa più che su suo figlio - lui mi sorrise flebilmente.
«Grazie», sussurrò.
Io annuii, per renderlo sapiente del fatto che lo avevo udito.
Mi restava solo da avvisare la nostra sapientona in medicina che una donna stava per aprire le gambe ed espellere un poppante.
Dopo sarei dovuto tornare da Mr. Leg e tenergli compagnia, sperando di non vederlo perdere i sensi, ancora una volta.
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