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Caspita, Che Mira!

Lei aveva un sogno,

ma smorzato dal destino,

era stato solo incenerito.

SETH HAWLEY'S POV

Forse quando papà mi parlava di vita e morte, aveva ragione: era un qualcosa che sopraggiungeva all’improvviso, toglieva tutto e rimarcava il quanto tutto fosse semplicemente scuro. Come essere in un film muto, nessuno poteva parlare ed esprimersi a riguardo – non che ci fosse la possibilità di farlo – e non che la vita, in contrapposizione con la morta stessa, lo potesse fare.

Lo sapevo bene, e lo sapeva bene anche Arya. Non si poteva aggiustare la morte, e nemmeno il dolore che ne provocava. Perché il mietitore, bastardo, fa riflettere su tutte le cose che hai compiuto. Poi ti porta via e basta. Deve andare così, è il ciclo della vita.

E sapete qual era il colmo? Che Arya era in conflitto con sé stessa, e si vedeva. Perché essere un dottore non significava non avere emozioni o personalità, e n’era purtroppo, l’esempio lampante. Come la vita del bambino che stava cercando con tutta sé stessa di recuperare, ma senza i minimi mezzi. Come la delusione nel vedersi nuovamente fallire davanti ad una morte, ed il come non si potesse semplicemente andare indietro.

Perché di nuovo, essere un dottore non significa non avere emozioni o personalità, ma sentire la necessità di salvare a tutti i costi qualcuno o qualcosa. Aggrapparsi alla speranza di poterlo vedere riprendere la vita in mano.

Ma Arya sì, era in conflitto con sé stessa. E due cadaveri giacevano in una pozza di sangue, i brividi che scatenavano, il come ci fosse semplicemente uno spettro delle aspettative che una persona poteva avere. E le colpe, forse. Quelle anche più evidenti delle aspettative che ne deturpavano le emozioni.

Due cadaveri, due cadaveri. Un corpicino più piccolo che chiedeva sepoltura, una mamma che per quanto stronza potesse essere, voleva dare alla luce un bambino. Quanti sogni, quante cose potevano essere distrutte con un singolo evento. Un futuro ucciso. 

Cosa potevo fare? Solo consolare l’afflizione che avrebbe superato subito di lì a poco per prendere coraggio e scavare.

Scavare, forse con le dita ed il cuore che doleva. Doleva come un respiro che cessava ed una candela appena spenta; la cera ancora lì. Appesa per segnarne le tracce.
Arya respirò, forse l’oceano o il putrido odore di ruggine e qualcosa di non identificabile. «Dobbiamo seppellirli, o quantomeno nasconderli.»

«Seppellirli?», citai rabbrividendo. Come se non lo sapessi, come se avessi la necessità di rispondermi da solo.

Arya fece un cenno con il capo. Feci per deglutire, ma la bocca mi pareva piena di mastice. Sapevamo di aver bisogno di qualcuno, che il coraggio ci mancava.

Non che Arya non vedesse cadaveri, ma sembrava destabilizzata. E a me faceva schifo. 

Entrambi ci guardammo, poi con consapevolezza prendemmo aria. «Ethan!»

Ethan, esatto. Proprio lui. Serviva, non aveva paura. Non sembrava quasi destabilizzato. E santo cazzo, non poteva andare peggio di così. 

Sorreggendomi con la parete della grotta, mi avvicinai all’uscita, prima di prendere abbastanza fiato e chiamarlo, urlando con tutto me stesso. La figura non tardò a spuntare da uno dei cespugli antistanti, il volto ancora leggermente accigliato. 

«Devi aiutarci. Non possiamo nasconderli da soli, ti prego

«Va bene, vi aiuterò.», disse soltanto. Niente battute, nulla di simile. Solo quella che sembrava lontana apprensione. Quasi. «Se vogliamo seppellirli, ci serve spazio. Dobbiamo trovarne uno un po’ lontano.»

«Arya verrà con noi? Giusto?»

«No, sai? La lasciamo lì con un cadavere? Che cazzo di domande.»

Eccolo di nuovo.

Feci segno ad Arya di raggiungerci, e lui annuì con apprensione. Ethan, rapido come una volpe, iniziò a spiegare i perfetti modi per seppellire un cadavere. Come se fosse roba di tutti i giorni. La dottoressa iniziò a riprendersi, tornando quasi ad essere sarcastica come sempre.

In tre, eravamo ad avventurarci in quella che pareva essere la vegetazione più fitta che avevo mai vista. Sempre con il tempo tetro e nuvoloso, che rendeva l’ambiente ancor più inquietante. Sospirai, mentre Ethan continuava a stare avanti a noi. Completamente cazzuto, dicevano.

«Quindi?», chiese. «Com’era?»

«Morta, come hai visto.», rispose sarcasticamente Arya.

«Intendevo, l’avete vista morire?»

«Sì,» dissi, quasi in un sussurro «urlava anche.»

Ricordai mio padre sul letto d’ospedale. Non lo vidi mai morire, però. Non vidi mai morire nessuno. Mio padre era sempre stato troppo orgoglioso per farsi vedere in difficoltà, ed io ero troppo spaventato dalla morte, come sempre.

Finì con l’ospedale che ci chiamò una sera, casualmente. Mamma piangeva come se fosse una bambina.

È morto sorridendo, dicevano quelli del personale ospedaliero.

Mi chiedevo ancora, in quel preciso momento, perché avesse sorriso e non urlato impanicato. Ma sapevo rispondermi spesso con cose discordanti. Perché io non ero completamente lui, ed ero semplicemente uno che per quanto lo nascondesse, aveva paura. E tanta, ribadisco.

«Cambiamo discorsi, Doc,» fece Ethan. Aveva i ciuffi un po’ scompigliati, e gli occhi zonavano per evitare alcuni dei cespugli folti che ci toccava sorpassare. «come l’hai scoperto?»

Arya squadrò Ethan. «Cosa? Di essere gay? Casualmente. Al liceo mi piaceva particolarmente questa ragazza, faceva il terzo. Io il quarto. Era fantastica.»

«Bello.», disse. Un filo di voce pareva quasi affranto. «E tu, Seth? Qualche primo amore, o meglio, attuale?»

«Oh, nessuno per adesso. Troppo impegnato a suonare e superare la morte di papà.»

«Noia, sembrate quasi ostinatamente tristi.», fece ancora il moro. «Comunque, non che mi freghi.»

«Caratterino!», sbottò Arya.

Acconsento.

Superò un paio di frasche, prima di fermarsi improvvisamente. Arya ci andò quasi a sbattere contro. Lui era rigido, immobile. «Perchè ti sei fermato?»

«Fate silenzio.», sussurrò.

Qualcosa si mosse, velocemente. Gli occhi del moro seguirono qualsiasi cosa stesse vagando in segreto. Tutti eravamo in silenzio, e nessuno poteva difendersi.
Almeno, così credevo.

D’improvviso una figura spuntò alle mie spalle. Sentii il vento del rapido movimento, un verso forte. Uno che risonò pesante attraverso i fitti alberi. Fu lo sguardo di Arya che mi fece voltare, prima di vedere cosa si stesse stagliando davanti a me: un grosso, enorme bufalo.

E che cazzo ci faceva un bufalo nero su un’isola?

A primo istinto pensai di star per morire, morire in senso letterale, intendo. E chiusi gli occhi di scatto, rabbrividendo.

Arya, proprio accanto a me, sembrava avere la stessa identica supposizione.

Poi un movimento e un singolo colpo: preciso, netto. Da una distanza abbastanza impedita per giunta, e davanti c’ero anche io. Vidi l’animale carico, cascare proprio difronte i miei occhi. Inerme, sul colpo.

Il rumore risuonò in largo spazio, il bossolo cadde per terra. Era una pistola, e chi aveva sparato, pareva talmente tranquillo da far paura. Ethan era fermo, immobile, con l’arma ben salda nella mano ed il volto concentrato. 

Non me ne intendo, di armi, ma quella era proprio una delle inconfondibili beretta: quelle che usavano i poliziotti, tipo. E neanche bene in confronto a lui, che doveva aver avuto una mira incredibile per prenderlo così ad impatto, al primo colpo. Senza colpire né me, né Arya.

«Che cazzo è successo?», chiesi. Il timore nella voce, come se avessi visto un fantasma. Parevo un lenzuolo.

«Beh, non so perché ci sia un bufalo in una foresta. Ma problema risolto! Proseguiamo a trovare uno spazio per seppellire Destiny ed il figlio, ora.»

«No, intendeva – voglio dire – perché hai una pistola in tasca? E come hai fatto a colpirlo così, a primo impatto?», chiese Arya, visibilmente sconvolta.

«Poche chiacchiere, più parole.»

«Cazzarola.», feci io. 

Lui già si allontanò tra gli alberi, segno che disse a me ed Arya di muoverci.

Ed onestamente, non volevo proprio sapere perché avesse una pistola con sé.

Dopo quel preciso avvenimento, io e la dottoressa tremavano ad ogni verso o movimento che provenisse da cespugli o alberi, allontanandoci di quasi un miglio. Ethan rimaneva composto, a tratti scherzoso e fisso sull’ambiente circostante.

Poi, finalmente, qualcosa parve venire alla luce: un piccolo spiazzo, privo di vegetazione, era più che perfetto per seppellire un paio di cadaveri. Ethan vi si fermò proprio al centro, ed iniziò a scavare. A mani nude; come se fosse roba di tutti i giorni, scavare a mani nude.

Fece una fossa, presto Arya si chinò ad aiutarlo. Io rimasi semplicemente fermo accanto ad un albero. La consapevolezza del dolce far nulla faceva miracoli, a volte.

Dopo aver finito, la domanda mi sorse spontanea. «Ed ora chi va a pulire e recuperare i due corpi?»

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