Buono O Cattivo?
Giustizia
Ingiustizia
Dove?
ETHAN SMITH'S POV
Avrei voluto riprendermi con semplicità, con quel mio solito fare scherzoso, dall'ultimo attacco di panico avuto qualche giorno prima.
Ma, di divertente, c'era ben poco.
Non perché mi riguardasse da vicino, era proprio l'atmosfera cupa che mi abbatteva.
Avevo atteso, accasciato al suolo bollente sotto il sole che, quella sensazione così vicina d'orrido, terminasse.
Ero rimasto lucido, per tutto il tempo.
Sapevo chi fossi, dove mi trovassi, perché fossi solo, cosa avrei dovuto fare dopo.
Se avevo provato a ripetermi che sarebbe andato tutto bene, persino il mio inconscio era cosciente che lentamente mi sarei sgretolato poco a poco.
Stavo morendo, ma ero costantemente in allerta, spaventato, dal mio cuore che non voleva saperne di fermarsi.
Eppure - quella sensazione di morire - potevo toccarla.
Nella mente che mi scoppiava balenava un nome: Kalim.
Avrei dovuto trovare un modo efficace e indolore per riprendermi sul serio, alzarmi con fare meno cadaverico possibile e assicurarmi che la sua sanità mentale fosse migliore della mia.
Deglutii il nodo alla gola, rinfrescandomi nel piccolo pozzo d'acqua nei paraggi.
Il mio riflesso mi fece paura: It di Stephen King avrebbe risparmiato Georgie se avesse avuto le mie sembianze.
Con occhiaie profonde e violacee, gli occhi arrossati dal pianto, le labbra appena inumidite, il corpo che a mala pena si ancorava al suolo, mi preparavo a sfoggiare la mia stronzaggine.
Classico luogo comune del ragazzo che si crede chissà chi ma che in realtà è un cucciolo sbranato e di taglia piccola.
A dire il vero, no.
Non avevo bisogno di nascondere chi ero, semplicemente passava in secondo piano.
Non sentivo il bisogno di sventolare la bandiera della mia provenienza, dei miei traumi, ma un accenno potevo farlo se mi andava.
Non era una maschera.
L'ironia, la diffendenza, lo scherzo, ero esattamente io.
Con difetti, come chiunque.
Se si scavava dentro avevo fragilità, come qualunque umano non ero io eccezione.
Me ne vergognavo, ma sapevo che era solo il risultato del mio posto familiare.
Avevo il cielo, le stelle, le tempeste, la nebbia, i lampi, il sole, le nuvole all'interno.
E non le mostravo.
«Ehi, hai visto Destiny?»
«Ehi, hai visto una ragazza incinta per caso?», continuava, tirandosi leggermente i capelli biondi.
Quest'immagine di Kalim che domandava della donna della sua vita continuava ad essersi riprodotta, lo faceva malamente, ogni tanto.
Compariva, se ne andava, poi tornava.
Come quei miei patetici attacchi di panico.
Il mio momento poco etero sessuale - quale ero - si era preso del tempo per osservarlo.
Un po' sgangherato, con la barba che pareva crescere a tutti tranne che a me, gli occhi azzurri tendenti al grigio, la postura dritta e l'altezza nella norma - modestamente ero più alto io - avevo metabolizzato che non fosse un brutt'uomo.
Il suo pargolo sarebbe stato senza ombra di dubbio venuto con la pelle chiara, biondo e con gli occhi chiari, ereditando le caratteristiche simile di entrambi i genitori.
Anche Destiny era una bella ragazza, dal caratterino pungevole, ma se lui la amava - come era chiaro fosse - avrà avuto dei pregi che non aveva avuto modo di realizzare.
E mi dispiacque.
Pareva fossi l'unico, e avevano il coraggio di definirmi senza emozioni.
Se solo mi avessero visto solo...
«Hey, scusa, hai visto mia moglie Destiny?», aveva ripreso la cantilena, dopo essersi passato le mani sul volto preoccupato.
Dai lunghi jeans cadde un ciuccio già pronto, che si accorse aver perso e che si chinò per raccogliere.
Era euforico per la nascita di un lui, o di una lei, sebbene fosse nervoso.
«No, Thomas. Non capisci. So che era in escursione e che di certo non era sola. Può essere irritante alle volte, lo so bene, ma non è una stupida. Ormai la gravidanza è al termine, non avrebbe mai compromesso la sua salute per qualche mania di protagonismo o sfuriata. Per noi è già stato tanto il fatto che fossimo vivi tutti e tre dopo il disastro. Non ha voluto nemmeno sapere il sesso, quindi spero non si tratti di due gemelli o chissà chi la regge», ridacchiò, «Ma resta che non è da lei, non è affatto da lei allontanarsi per un lasso di tempo così lungo senza dare notizie quando gli altri hanno fatto ritorno», sospirò.
Alzò lo sguardo verso di me, sentendosi osservato, che stavo facendo ritorno.
«Ethan! Dimmi che sai qualcosa!», si morse il labbro inferiore, per tentare di non esaurire. Il suo piede sinistro non se ne stava fermo un attimo, in preda a mille film mentali - che dico, direttamente stagioni - che quasi mi deconcentrò.
Scossi la testa, per porre fine alla sua agonia di pendere dalle mie, di labbra.
«Vedrai, sarà di ritorno.»
Il trentaquattrenne si sedette su un masso, giocando con la sua fede nuziale.
«Avevamo dei piani, sapete?», sorrise, per smorzare l'attesa e perdersi in qualche ricordo piacevole. Probabilmente si sentiva che qualcosa stava andando storto.
«Ci siamo sposati cinque anni fa, abbiamo sempre avuto la passione di viaggiare dove capitava, risparmiando il giusto e l'onesto. Abbiamo visto l'Africa, la Francia, la Spagna, l'Italia per lungo e largo, dal primo anno di fidanzamento a seguire. Bambino o bambina che sia, sarebbe dovuto o dovuta nascere a Londra, una volta arrivati a destinazione. E invece guardateci come ci siamo ridotti.»
Le parole dell'over trentenne mi fecero scuotere, andarono piano piano ad assopirsi, fino a riportarmi al presente.
Mi aiutava, concentrarmi sul dolore degli altri, per non essere sepolto dal mio.
Avevo salvato Seth, ma non mi sentivo - come dire - un eroe.
Non lo ero e non mi faceva sentire meglio dirlo, sapere che anche dicendolo nessuno avrebbe potuto ribadire quel concetto.
Ero il bad guy a metà.
Uno di quello che non si portava a letto qualunque essere umano di sesso femminile per soddisfazione e per concedersi un po' di piacere per passatempo o noia.
Uno di quello che però aveva le mani sporche di crimini senza essere pazzo.
Avevo le mie motivazioni per comportarmi in un determinato modo, ma a nessuno era importato.
Nè ai miei genitori, nè ai pochi amici - che tanto amici non erano - nè a una categoria che non sapevo definire perchè non avevo avuto a che fare con persone per bene.
Era tornato il mio fottuto ciclo vizioso composto dal concentrarsi su qualcuno addolorato per distrarsi, per poi spostarsi su me stesso e catastrofizzare la mia condizione.
«Sto morendo», mi ripetei in un filo di voce, mentre tentavo così intensamente di ricambiare l'abbraccio di Arya.
Volevo davvero sdrammatizzare ancora, ma ero cieco.
Non vedevo niente oltre il palmo del mio naso.
Morte.
Se solo mi avessero dovuto chiedere, a che diavolo di intensità corrispondesse il dolore che all'improvviso mi ritrovai ad affrontare, credo lo avrei descritto esattamente così.
Perché era letteralmente morte. Morte cerebrale, probabilmente.
Il fatto che fossi stato trafitto da questa orrenda sensazione di contrizione, mi fece accasciare contro un albero. La vista si chiudeva, quasi come se stessi per svenire.
Nemmeno Arya riuscì a prendermi in tempo.
Ero già caduto.
Metà della testa, dolore costrittivo e pulsante. Mi divorava, mi mangiava. Ogni singolo secondo corrispondeva ad una nuova pulsazione che provocava ancora più dolore.
Non volevo vedere la luce, il sole mi dava fastidio. I rumori pure. Dovevano smetterla di far rumore.
I rumori.
La luce.
Di nuovo, i rumori.
Mi infastidiva qualunque cosa.
Se prima volevo vedere perchè provavo frustrazione dalla cecità, dal nero, ora quel che volevo era smettere di sentire.
«Va' via», sussurrai di nuovo, con fare affannato.
Temevo che il mio egoismo si sarebbe rifatto vivo.
«Ethan...»
Avrei voluto dirle di rimanere.
Una singola parola, che però avrebbe avuto il dovuto effetto.
Avrei voluto che non mi avesse ascoltato.
Avrei voluto passare per quel ragazzino che metteva gli altri al primo posto, a cui veniva respinta richiesta, colui che sarebbe divenuto il protagonista a cui parare il culo.
Invece ero solo Ethan.
Avrei voluto prenderle la mano per bloccarla, ma i miei sensi visivi erano azzerati, i miei occhi non funzionavano.
Avrei voluto studiarla, cogliere se avesse esitato, se potessi esser stato l'eccezione per cui avrebbe messo in pericolo la sua vita, per me.
Sarebbe dovuta correre da Seth, lui non poteva muoversi un granchè.
Ma ero un pezzo di merda e non glielo feci presente.
Il danno era comunque fatto; non solo non ero stato il buono, ma ero pure rimasto solo.
Era il mio modo per darle via libera senza sentire il peso di dover scegliere.
Era il mio modo per lasciare che diventassero immuni alla follia, al tetro spettacolo che - da spettatore - mi ero trovato a salire sul palco come attore.
O forse mi ero solo illuso che lei fosse quella che avrebbe potuto capire i miei silenzi e che avrebbe potuto estrapolare un dipinto rispecchiante il mio genio incompreso.
Per quanto fossi egoista, ero consapevole che il mio scopo era quello di vivere e di aiutare loro solo per non aver l'ansia di morire con degli scheletri.
Li avrei rallentati.
Sapevo anche questo.
Tuttavia, dopo l'ennesima fitta, non pensai nemmeno più.
Non volevo morire solo.
Ciò nonostante, la dottoressa si era ritirata senza strumento sonoro che potesse segnalarmelo come un corno, se non le sue scarpe che avevano calpestato foglie secche lungo il suo cammino.
Ero nato solo.
Ero cresciuto solo.
E ci sarei morto, solo.
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