Bloccato, Sigarette, Natale
Credo di non aver ancora trovato
La stazione giusta
Per prendere il treno
Che mi conduca verso una meta
Che ancora non riesco a decifrare.
ETHAN SMITH'S POV
Ancora una volta bloccato.
Quando andavo alle medie, il mio professore d'inglese mi aveva detto di possedere un dono sprecato.
Ero in grado di scrivere le mie emozioni su carta, colorare d'inchiostro pagine bianche fino a che non mi facevano male le mani.
Mettevo dentro passione, incomprensione, davo colori al nero.
La mia pecca era quella di non aver immaginazione; il signor Davis aveva avuto l'occhio critico di dirmi che mancava qualcosa. Mi mancava la capacità di immaginare, di sognare, di andare oltre la concreticità delle cose, come fossi oppresso, bloccato e imprigionato e non riuscissi a spiccare il volo.
Avevo provato con un paio di canzoni, con qualche libro all'aria aperta, ad isolarmi lontano dal centro della mia cittadina.
Eppure, non avevo ricordi felici.
Avevo spesso il blocco dello scrittore.
Stupido scherzo del destino, esser di nuovo bloccato.
Probabilmente, se mi avessero presentato un quaderno dove appuntare qualcosa, avrei descritto con tutto me stesso quello che avevo visto, ma mi sarei fermato già all'inizio.
Nemmeno un aereo crollato, nemmeno un qualche embolo inverso partito a tutti noi mi avrebbero aiutato.
Ero bloccato, come quando guardavo la lavagna piena di scarabocchi che avevano a che fare con matematica, fisica o chimica.
Ancora lo ricordavo, quel gesso che mi dava fastidio alla pelle da quanto tempo lo tenevo tra le dita. Ricordavo gli occhi puntati su di me, le risate sparse per l'aula e la mia mente che mandava segnali, di fumo come il ricordarmi di non essere al centro del mondo. Ricordavo quell'amaro in bocca di chi non sapeva come risolvere problemi e disequazioni, quel terrore di aver sbagliato tutto.
Avevo l'impressione che fosse tutta una perdita di tempo, poiché ai miei genitori non importava nulla della mia cultura.
Perchè "per abbassare un grilletto non hai bisogno di sapere poi tanto."
Invece io ci pensavo, all'University of Cambridge a Londra.
Ero bloccato anche quando sapevo di non dover fumare, mi soffermavo a leggere smoking kills e poi fumavo lo stesso.
Ero bloccato come quando la bambina che avevo visto una sola volta mi aveva offerto un palloncino rosso e non sapevo se accettare o no perchè: "fidati solo se non è armato/a".
Eppure, a sette anni, mi sembrava pacifico anche chi non lo era.
Un po' come quando nei pochi cartoni che i miei mi concedevano di guardare avevano i poliziotti che portavano l'ordine e non il disordine, diseguaglianze, pregiudizi.
Un po' come quando mi chiedevano chi volessi essere da grande e io rispondevo: "di certo non la mia famiglia".
«A che pensi?», mi affiancò con qualche smorfia di dolore Seth, il quale mi fece cenno di passarge una cicca, corrucciando il labbro inferiore.
«Pensi che tornerà quel coso?», gli allungai il pacchetto che si affrettò ad aprire.
A momenti parve pure interdetto nell'afferrarlo, evidentemente tremavo ancora senza rendermene conto.
«Non lo so, non so cosa ci sia successo. Devono esser state le radiazioni», rivolse poi lo sguardo ad Arya che ogni tanto ci visitava per poterci sfruttare come cavie.
Era impegnata in una conversazione con Thomas, ma pareva aver un terzo occhio dietro la nuca.
«Radiazioni? Dove siamo, su What would you do? Su qualche film o serie TV fantasy? Mi fanno pure cagare», me ne lamentai, graffiandomi pure per aver passato la mano sul mio volto.
Ricordai solo allora di avere all'anulare - non si sa come - il mio anello preferito, classico, d'acciaio opaco.
«A me basterebbe avere un idea di quanti giorni dovremmo stare qui. Posso aspettare, ma devo avere un qualche modo per distrarmi e contare quando torneremo alla nostra vita normale di sempre.»
Annuii solo, alzando la luminosità al massimo del mio cellulare. Segnava una percentuale molto bassa, non c'era campo, tanto valeva usarlo in maniera produttiva.
Lasciai partire la mia riproduzione casuale che sapevo non sarebbe durata molto visto il 3%.
Riconobbi subito dalla melodia di quale canzone si trattasse, la prima che avevo scaricato, da ascoltare in viaggio in modalità aereo.
«Vita normale di sempre...», ripetei le sue ultime parole, «Ovvero?»
«Beh...», i suoi occhi scattarono all'udire il testo di This is the sea dei The Waterboys.
«Rilassati, è solo musica.»
Pareva un controsenso quasi, per non parlare del passato, che in realtà non era esattamente parte di "ieri".
Non era poi tanto giusto parlare del passato, infatti si trattava di poco più di una settimana fa.
«Sono di Toronto, come avevo accennato. Una vita in media apposto tra musica ed un lavoretto modesto e impegnativo che non mi lascia spazio a molte altre attività. Suono la batteria, ho pochi amici ma buoni e la mia casa non è niente male. Mia madre è una persona molto ordinata. Detesta il caos, detesta non avere tutto sotto controllo. Devi pensare che la sera prima si crea una lista per ciò che deve fare il giorno dopo e, per evitare di cadere sulla noia e sulla routine monotona, la varia ogni due giorni. È incredibile come riesca ad equilibrare perfezione e svago senza sbagliare. Quando mio padre era ancora vivo, invece, era l'opposto. Non so se sia un bene o un male, ma è cambiata. Mi vuole bene eh, però, sai... credo senta molto il peso dell'unico genitore sul figlio unico. È comprensiva, è gentile, ma non sarebbe il tipo di persona con cui mi confiderei ora ora come, ecco.»
Inclinai la testa, attivando la modalità di ascoltatore. Non avevo di meglio da fare, dopotutto. Non mi ero ancora ripreso.
«Cazzo, stai messo proprio male, per parlarne con me e non con la tua mammina.»
Accennò un sorriso, si bagnò le labbra, per poi riprendere il discorso.
«Vedi... ho gli occhi verdi, i capelli scuri, la carnagione chiara e supero il metro e settanta. Amo un genere di musica che mamma definisce troppo stimpanante e stravagante, non ne ha mai capito un granché, che vuoi farci. Il punto è che... da quando suo marito non c'è più, abbiamo raffreddato i rapporti. Credevo fosse normale, che sarebbe durato giusto il tempo di abituarci ad un evento improvviso che aveva stravolto la nostra quotidianità, ma si è proteso per anni e anni e anni. Credevo fosse nella mia mente, finchè non è diventato reale.»
Guardò le stampelle con fare pensieroso, concentrato, senza guardarmi.
«Era Natale, il giorno in cui la parola "papà" si è estinta dal mio vocabolario per l'eternità. Un venticinque dicembre tranquillo, avevo messo la sveglia e preparato la colazione perché volevo fosse tutto pronto per i festeggiamenti. Ero anche caduto perché ero salito su una sedia con l'intento di appendere un vischio, non avevo nemmeno detto nulla perchè volevo fare la parte del bambino coraggioso. Me ne infischiavo delle tradizioni, a quasi nove anni come puoi non schifarti di un bacio, per giunta dei tuoi genitori. Ma, quel giorno, avevo deciso che avrei dato uno strappo alla regola. Ero entusiasta, perché sapevo che sarebbe tornato a momenti dall'ospedale per un solo giorno di pace. Peccato, che non abbia mai trovato niente di quello che avevo organizzato. Nemmeno il vischio. Inutile dire che non oltrepassò mai la soglia di casa. Non gli corsi incontro abbracciandolo e con il cuore scoppiante di gioia nel sentire quanto fosse fiero di me.»
Mi passai le mani sui capelli, scompigliandoli leggermente.
Si era aperto con me, in fase confidenziale.
O, forse, per cercare di porre fine al suo tormento interiore.
Quello che tutti, più o meno, hanno.
E cosa avrei dovuto dire in quella circostanza?
Cosa si aspettava gli dicessi?
«Tralascio la parte di come ne sono venuto a conoscenza, onestamente preferisco viva nei miei ricordi che in delle parole dette ad uno conosciuto da poco. Qualcosa sì, ma nei limiti. Senza offesa.»
Alzai le mani a simboleggiare che non avessi niente in contrario, per poi studiarlo meglio.
Sapevo che aveva ancora da dire.
«La notte stessa l'avevo sentita piangere, non riuscivo a dormire. Ero nel letto accanto a lei, volevo essere grande, ma in quel momento preferivo essere più piccolo di quel che ero. La stringevo forte, anche se sapevo che non avrei potuto aiutarla a stare meglio. Ero il suo amore, ma non quel tipo di amore che necessitava in quell'istante. Aveva bisogno di sicurezza, e io così gracile come potevo? Come potevo avvolgerla se l'unico che riuscivo a circondare con il mio corpicino era il mio peluche? Non so come, ma sono riuscito ad addormentarmi trattenendo le lacrime. Quando mi sono svegliato, lei stava accarezzando una foto di papà. Le sue parole? "È così identico a te che non so come possa fare ad andare avanti. Come posso guardarlo negli occhi senza scoprire il tuo riflesso? Come posso non scoppiare a piangere?"»
Il mio telefono si era appena spento, scaricato, totalmente.
Con lui, anche il sottofondo che aveva un po' animato la storia.
Il silenzio pareva aver prosciugato la sua voce, ma non la sua espressione triste.
Finalmente mi guardò, imbarazzato.
«No», lo precedetti, «Sono uno stronzo, anche se vado un po' a momenti. Ma non devi scusarti per un bel nulla. Non sei un idiota, deve essere devastante quel che hai passato e stai passando. Suppongo tu sia in pensiero per lei, per come possa stare, senza avere tue novità. Avrete anche smesso di guardarvi in faccia e di dirvi se la mattina fate colazione o meno, ma quello che traspare è chiaro anche ad un mezzo estraneo come me. Vi volete bene.»
«Glielo dovevo», sussurrò.
«Le dovevi... cosa?», lo squadrai, serio.
«Dovevo sopravvivere allo schianto aereo o altrimenti sarebbe morta del tutto. In parte lo è già, non voglio essere la causa finale.»
Ecco svelato il mistero.
Aveva resistito al dolore, alla gamba, alle radiazioni, per la madre.
Le nostre sigarette si erano consumate, lui tossii leggermente portando una mano davanti.
Doveva aver fatto un movimento sbagliato mentre aspirava altra nicotina, probabilmente per sviare e concentrarsi su altro.
«Spero che arriverà il giorno in cui ti aprirai anche tu con me», accennò un piccolo sorriso, «Non è facile, non ti credere. Mi ci è voluto tanto per poterne parlare e la tecnica è ancora da migliorare. Però ce l'ho fatta, per giunta con Ethan Smith. Mi devi un giro di confessione, stile Chiesa.»
«Sono ateo», dissi ovvio.
«Avevo fatto centro anche in questo», mi soffiò il fumo in faccia e cercai allora di scacciarlo altrove sbracciandomi.
Giusto il minimo indispensabile per ricambiare quel piccolo sorriso mascherato di rimando, il quale non capii se lo avesse notato o no.
Così, mentre la gente si piazzò attorno a noi, pensai.
Pensavo, perché non potevo scrivere.
Mostrarsi fragile davanti a qualcuno è come sanguinare vicino ad uno squalo in mare aperto.
E pensai al mio, di padre, a quando nelle giornate buie entrava nella mia camera per studiare cosa stessi facendo.
Non era la frustrazione dovuta alla mancanza di privacy, era proprio lui.
Con quel suo fare apparentemente sciolto, camminava su un pavimento dalle mattonelle che erano quelle che qualunque nonna aveva, senza sapere che ogni giorno calpestava la mia salute mentale e mi appassiva come un giardino per metà fiorito, lentamente, senza nemmeno rendersene conto.
Probabile che quella frase l'avesse trovata su Internet, probabile che il suo obbiettivo era schiacciarmi, o almeno era questo il messaggio che giungeva a me quando mi squadrava con un ghigno tra il soddisfatto e l'attore che diveniva in compagnia di estranei da bravo genitore.
Avevo preso da lui, la capacità di mentire.
Odiavo i suoi capelli, quelli che portava sempre perfetti.
Quei suoi occhi neri che mi facevano chinare il capo per alcuna ragione apparente.
Così troppo impeccabile, non permetteva nemmeno al me bambino di vederlo una volta stanco, lunatico, contento davvero.
Un ragazzo non deve piangere, soprattutto se si tratta di mio figlio.
Che futuro pensi di avere?
Perchè non ne fai mai una giusta?
Smetti di piagnucolare, non pagherò una strizza-cervelli per buttare soldi nel cesso!
Sei sanissimo, non hai nessun problema, se non quello di frignare in continuazione la notte!
Madison parlava interrottamente della sua famiglia, dei suoi genitori felicemente sposati da trent'anni e passa, di quanto le mancassero, di quanto il suo giardino profumasse di primavera insieme ai buoni piatti che sua mamma preparava con amore, di quanto stridula fosse la sua voce quando gridava "Pronto!" ma in realtà era ancora tutto da fare.
E io giocavo con i lacci della mia felpa, mentre ogni tanto sbuffavo, alzando gli occhi verso il cielo.
Ero invidioso.
Ero in difficoltà perchè non sapevo di cosa stesse parlando.
Mia madre, dal canto suo, era soppressa dall'imponente figura di mio padre.
O così l'avevo dipinta io, dal momento che non mi parlava, che non mi rivolgeva una sola parola amorevole, dal momento che aspettavo invano il suo bacio della buonanotte.
Non avevo mai preteso che rimanesse sveglia per me a raccontarmi delle favole, avevo imparato a leggere prima dell'età prestabilita, per farlo da solo.
Non m'importava se la mattina non mi poteva accompagnare a scuola, anche se mi faceva male uscire e non trovare una faccia conosciuta che si sbracciava per dirmi "Hey, sono qui per te".
Per un periodo della mia vita, ho creduto che l'amore fosse una debolezza.
Finchè non è arrivata l'adolescenza, le prime esperienze.
A luci spente Michael, mio fratello, m'imtimava a parlare a bassa voce dei miei sogni.
Mamma e papà mi avevano regalato una pistola, per il mio compleanno.
Lui, di nascosto, mi aveva portato uno strano aggeggio che rifiutai, indietreggiando ancor più impaurito di un arma da fuoco che ormai avevo imparato a distinguerne il calibro e quant'altro.
Era uno scaccia-pensieri da appendere sul muro.
Sapevo che, se i due ci avessero beccati, lo avrebbero frantumato.
Eppure lui, così genuino, ci teneva davvero a me.
S'infilava sotto le mie coperte per scaldarmi quando avevo freddo, raccontandomi la sua giornata, anche se non avevo voglia di dirgli nulla della mia.
Aveva la carnagione chiara, gli occhi su un grigiognolo ereditato dalla nostra bisnonna e delle labbra sottili che si schiudevano solo per me.
Ormai il mio unico bel pensiero era quello che arrivasse la notte.
Avevo paura di quel che non potevo vedere ma, sapere che Michael si trovasse accanto a me, mi rassicurava.
Aveva molti sogni, uno di quelli era scappare con me verso Londra.
Mi raccontava tramite foto di Google il Tamigi, il London Eye, l'Harry Potter Museum, del pessimo tempo che avremmo trovato e dei musoni dei passanti sempre indaffarati del lavoro che correvano come fossero rincorsi da chissà quale mostro mitologico uscito da qualche fantasy.
Quando mi diceva di chiudere gli occhi, di sognare il mio posto nel mondo, pensavo a quanto fosse idiota e di quanto avesse la testa sulle nuvole.
Eppure, la mia mente riproduceva il suo volto sorridente e le nostre mani congiunte quando dovevamo attraversare la strada.
Gli parlavo delle mie insicurezze, di quanto piccole erano le mie mani rispetto alle sue, di quanto sarei stato ritenuto un gigante quando l'avrei superato di centimetri.
La mia scappatoia era proprio mio fratello.
Con quel suo berretto, con i suoi fischi che cantavano canzoncine natalizie in pieno luglio, con quel suo petto rigorosamente alzato per rendersi più muscoloso in casa - di cui poi si sgonfiava una volta sorpassata la soglia - e delle tasche ripiene di caramelle rubate dopo qualche occhiolino in cambio di una mia risata vera.
E allora perchè non avevo ricordi felici?
Lui forse non lo era?
Come poteva essere?
Gli ero grato, cazzo, se lo ero.
Grazie a lui non avrei dovuto rispettare le ferree regole degli Smith perchè era lui il dipinto da modello sulle aspettative che loro avevano.
Purtroppo, però, ad ogni ricordo vicino alla felicità, si accostava quell' episodio.
Mi mancava.
Mi mancava ogni giorno.
Ogni notte di più.
«La smetti di strappare l'erba? Rovini l'ambiente!», mi sgridò Khai.
«Sai quanto m'interessa, è lui che sta rovinando noi con le sue radiazioni di merda!»
«Potresti almeno avere un linguaggio meno volgare», mi guardò irritato.
«E tu dovresti lasciar vivere le persone. Parlo come cazzo voglio, per tua informazione.»
«Khai, lascialo stare. Ethan, datti una calmata», s'intromise la dottoressa-dei-miei-coglioni, quasi si sentisse presa in causa, quasi le avessi chiesto io d'intervenire.
«Beh?», Seth attese con angoscia novità.
«Niente. Falso allarme».
E m'immaginai, negli occhi delusi dei miei compagni d'avventura, un vecchio pozzo dimenticato.
Ai suoi tempi d'oro, chiunque ci voleva investire per vincere una fortuna.
Finchè, quei soldi buttati per quella ricercata ricchezza, si rivelarono semplici soldi sprecati.
E la gente s'impoveriva.
Con gli anni, il pozzo rimase lì.
Pieno di monete ma vuoto fino al più insignificante spazio.
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