Capitolo 5 - Innato
Lo fissai da sotto le ciglia lunghe, rimanendo immobile. Si era accasciato sul bancone e aveva abbassato la testa, quasi per nascondere quelle lacrime che, in realtà, non avevo neppure bisogno di vedere.
Lo sentivo sin dentro me stessa quanto fosse lacerante per lui vedermi lì, in piedi, in un'improvvisa collisione di due mondi che lui aveva sempre saputo esistessero.
Per me era diverso, io non ne avevo mai avuto consapevolezza, non avevo vissuto davanti a una finestra, osservando il susseguirsi di quasi venti primavere, chiedendomi costantemente come avrei fatto a ricongiungermi con le parti più importanti di me. Io avevo vissuto il passare delle stagioni facendo sì che il tempo mi scivolasse addosso, per lui invece non era stato così, ogni rintocco di vita non aveva fatto altro che allontanarlo sempre di più dal nostro ricordo.
Rimasi impalata con la testa piena di pensieri e il cuore frammentato.
Durò poco, però, perché le mie gambe mi spinsero verso mio fratello.
Allargai le braccia e, senza sapere come oltrepassare la barriera che ci separava, lasciai che essa rimanesse a fare da argine nel nostro abbraccio.
Lui singhiozzò sul mio corpo e io percepii ogni sua perla salata grondarmi sullo sterno.
Alzò piano lo sguardo in mia direzione. I suoi occhi più scuri dei miei erano completamente arrossati. Provò a parlare, ma non ci riuscì subito. Ci volle ancora qualche minuto prima che si riprendesse.
«Non posso crederci» fu l'unica cosa che riuscì a dire.
«Io non lo sapevo Mike, non sapevo di essere stata adottata... scusami se non ti ho creduto» sentii che avrei dovuto dirgli questo prima di qualsiasi altra cosa. Non ero stata cieca volontariamente, erano stati i miei genitori a non darmi la possibilità di afferrare l'opportunità di conoscere mio fratello sin dal primo istante in cui le nostre strade si erano riunite.
«Cosa?» si allontanò leggermente dal mio petto, guardandomi in maniera interrogativa.
«L'ho scoperto solo dopo il nostro incontro e sono partita subito a cercarti» gli sorrisi, mentre una lacrima sfuggì al mio controllo.
Prima di essere in grado di ricominciare a parlare, repressi ogni emozione. Non potevo assolutamente permettermi di sciogliermi così come era accaduto a lui.
«Chris mi ha anticipato qualcosa... ma ho bisogno di sapere... la nostra storia, i nomi dei nostri fratelli, dei nostri genitori. Io ho la necessità impellente di capire chi sono davvero, e solo tu puoi aiutarmi in questo. Voglio scoprire me attraverso te» quasi lo implorai. Avevo urgente bisogno che si riprendesse perché avvertivo dentro di me un'ombra sempre più grande che aveva la necessità di essere nutrita.
Lui mosse il capo, si schiarì la voce e fu immediatamente di nuovo il ragazzo che avevo visto l'istante prima che mi riconoscesse. Anni di sofferenza si erano abbattuti su di lui come macigni, ora, però, dopo qualche minuto di riflessione, sembrava di nuovo in grado di gestirne il carico, come se esso si fosse tramutato in piume.
Ci staccammo a malincuore e, entrambi, come fossimo stati programmati allo stesso modo, ci volgemmo con naturalezza in direzione del signor Eliot.
Ridemmo all'unisono quando ci rendemmo conto che lui ci stesse guardando con il viso pieno di lacrime e il naso che colava. Si era praticamente attaccato alla parete pur di lasciarci spazio e aveva morso così forte una mano per placare i singhiozzi da averla resa violacea.
«Papà, come avrai capito, lei è Elle... mia sorella» mi introdusse orgogliosamente.
Lui cercò invano di salutarmi, di presentarsi o di dire una parola qualsiasi, ma era così emozionato da avere difficoltà anche soltanto a pronunciare un ciao.
In quel preciso istante il campanello della porta introdusse un altro membro della famiglia Eliot.
«Hai visto che bel regalo di compleanno, in ritardo, ti ho fatto? Tu ti lamenti sempre che non ti compro mai nulla» mi oltrepassò, cingendomi rapidamente con una mano, per poi concentrarsi su Mike. Gli diede un pugno sulla spalla e lui fece lo stesso.
Un po' in quel frangente fui gelosa del loro rapporto e del fatto che a Chris fosse stata data la possibilità di vivere ciò che io avrei dovuto vivere al fianco di mio fratello.
In fondo però nessuno aveva colpa di ciò che era accaduto, o almeno era così che credevo.
«Dimmi cosa è accaduto Elle, sono ancora confuso. Come sei arrivata qui?» fu lui a venirmi incontro, oltrepassando finalmente il bancone. Mi toccò come se stesse ancora verificando che io fossi viva. Poi, si guardò intorno e, non trovando un posto adatto in cui parlare, mi invitò con lo sguardo a seguirlo sul retro.
Ci sedemmo attorno a un tavolo, quasi del tutto coperto da registri di vendita. Io e lui di fronte, mentre Chris e il signor Eliot, pur rimanendo in piedi, si sistemarono l'uno alla destra e l'uno alla sinistra dell'uscio della porta. Cercai gli occhi di Chris e, non appena li trovai, fui immediatamente rassicurata dal suo sguardo. Mike era sangue del mio sangue, ma suo fratello era già diventato per me un punto di riferimento nel caos che era diventata la mia vita.
«Sono venuta a cercarti alla Penn» decisi di spezzare il silenzio per prima «siccome eri già andato via, tuo fratello si è offerto di portarmi qui. Gli ho chiesto esplicitamente di non dirti nulla per sorprenderti, tanto è vero che all'inizio non avevo voluto coinvolgere neanche lui, la foto che ti ha inviato ieri... ero io» mi balenò nella mente ciò che era accaduto pochi secondi dopo aver scoperto della chat tra loro due, ma cercai di reprimere immediatamente quei ricordi, non era il momento di pensare a ciò che stava per succedere tra noi.
«Sei andata a una festa della confraternita?» sgranò gli occhi preoccupato «Chris, ma che cazzo» lo guardò di tralice. L'altro gli rispose ridendo come era solito fare, aggiungendo poi, rivolgendosi solo a me «te l'avevo detto che era pesante».
«Non è importante adesso» ammonii Mike «dimmi piuttosto, raccontami tu tutto... sono curiosa. Ero così piccola, non so niente di Elle... di me... ti prego».
«Proverò a raccontarti quello che ricordo, molte cose sono confuse... avevo solo sette anni» deglutì, cercando la forza di tornare indietro nel tempo, laddove custodiva memorie dolorose.
«I nostri genitori si chiamano Grace e Samuel, e noi due siamo rispettivamente Michael e Elle Robertson. In realtà, non so cosa Chris ti abbia già anticipato, non siamo gli unici... Anthony, Mary-Elizabeth e Elèna sono i nostri tre fratelli. Mi fa strano chiamarli per interno in realtà» rise, prendendo una piccola pausa «per me è stato difficile ricordare quali fossero i loro veri nomi, perché da sempre mi sono rivolto a loro con dei nomignoli: Tony, Lisa e Lena».
Sussultai nell'udire quei nomi. Non li conoscevo e non avrei mai potuto ricordarli, eppure mi sembrarono tutti così familiari. Immaginai i loro volti da bambini e poi quelli da adulti. Provai a unire le mie caratteristiche a quelle di Mike cercando di mixarle, ma non riuscì comunque a visualizzarli per davvero.
«Nel gennaio del 2006 non so spiegarti cosa accadde di preciso, ma nostra madre sembrò impazzire. Parlò a lungo con Tony, che all'epoca aveva già compiuto undici anni, mi consegnò una fotografia di noi cinque, che adesso non ho con me ma che ti mostrerò quando torneremo a casa, e poi ci portò con sé da un'amica di famiglia. Ci salutò come se da un momento all'altro sarebbe tornata a riprenderci, ma le valigie che lasciò con noi non sembrarono presagire nulla di buono. Non riesco ancora oggi a ricordare con certezza quanto tempo passò prima che Carol ci accompagnasse fino a Fargo, perché noi non vivevamo lì, ma a Jamestown. Fu costretta a lasciarci davanti a un orfanotrofio. Ci affidò a uno a uno una busta con il nostro nome e ci disse di consegnarla all'ingresso. Quando entrammo, facemmo esattamente ciò che ci aveva detto e le suore a quel punto» si interruppe improvvisamente, faceva fatica a respirare. Gli strinsi d'istinto la mano destra. Ero lì, ora ero con lui, una grande parte di noi era chissà dove, il passato faceva male, ma il solo fatto che noi fossimo insieme avrebbe dovuto dargli la forza per andare avanti.
«Scusami... dicevo...» tirò su con il naso per poi proseguire «le suore ci separarono, io e Tony fummo portati nell'ala maschile e tu e le gemelle in quella femminile. Inoltre ci fu un ulteriore separazione tra me e nostro fratello. Lui era troppo grande, perciò a quanto sono riuscito a capire negli anni, venne direttamente assegnato a una casa-famiglia; quindi, immagino partì per la sua nuova destinazione immediatamente dopo essere arrivati».
Il tonfo della porta del negozio ci fece voltare all'unisono. La madre entrò correndo, era completamente sudata ma felice. Balzò su Mike stringendolo al seno, come fosse stato ancora il bambino spaventato che aveva adottato.
«Non potevo mancare» gli accarezzò le guance e poi lo ripulì di ciò che restava delle sue lacrime. In fine, tutta la sua attenzione passò a me «ciao tesoro, è un piacere conoscerti. Io sono Sally, la madre adottiva di Michael. Giuro che vi lascio parlare immediatamente, ma ci tengo a dirti da parte mia e di mio marito, Carl, che da oggi sarai parte integrante della nostra famiglia e potrai rimanere con noi per tutto il tempo che vorrai, perché io mi sono sempre sentita madre di quelle altre quattro creature che non ho potuto portare a casa con me. In realtà per anni il dolore di Michael ha annientato anche me; quindi, non voglio che nient'altro vi separi... mai più» mi accarezzò una spalla, cingendola poi piano con la mano a coppa.
I suoi occhi di un comunissimo marrone si illuminarono di un amore che mai avevo visto nello sguardo di nessuno. Invidiai ancora una volta mio fratello. Io avevo avuto New York e la ricchezza, ma lui aveva avuto qualcosa di ben più prezioso, il vero affetto di una madre e di un padre.
La ringraziai timidamente, prima che Mike potesse continuare con il suo racconto «sono stato adottato per ultimo e mamma potrà confermartelo, non so esattamente quando voi siate partite, né chi vi abbia scelte, l'unica cosa che so è che sono arrivato tra il venti e il ventuno gennaio e che i miei genitori mi hanno portato per la prima volta fuori dall'orfanotrofio l'otto febbraio».
«Quando siamo stati allertati per l'adozione eravamo lontani dall'Ohio, eravamo a Orlando con Chris, a Disney World. Ci hanno avvisati della presenza di altre famiglie in lista; perciò, abbiamo cercato di essere a Fargo il prima possibile. Non mi hanno detto che Mike avesse altri fratelli, fino a quando non abbiamo perfezionato la sua adozione. Ci ha messo settimane prima di parlare di nuovo, quindi neanche lui aveva potuto informarci prima. Credo, sebbene non ne abbia la certezza, anche se negli anni ne sono stata sempre più sicura, che Lisa e Lena siano state adottate insieme da una famiglia che è arrivata il nostro stesso giorno, mentre tu, essendo così piccola, immagino sia stata portata via da qualcuno che era riuscito a muoversi prima... vivi vicino al North Dakota?» mi domandò curiosa.
Immaginai che fossero anni che volesse capire di più della dinamica della nostra adozione. Sally sapeva senz'altro qualcosa che avrebbe potuto aiutarci nel ritrovare i nostri fratelli, dovevamo soltanto essere abili nell'interpretare i suoi ricordi.
«No, ma i miei genitori avevano un aereo privato e pochi scrupoli a differenza vostra... e non fatico neanche a immaginare il fatto che mia madre fosse consapevole della presenza degli altri quattro e che se ne sia allegramente infischiata. In fondo, come ho capito solo qualche giorno fa, per lei sono stata soltanto un pezzo di ricambio... una figlia che aveva perso in fasce sostituita con una acquistata al mercato dei bambini sfortunati» marcai ogni parola con astio, d'altronde l'avevo saputo da sempre che in Patricia mancasse qualcosa che potesse renderla una vera madre. Solo ora però riuscivo a capire meglio tutto ciò che era avvenuto, a partire dalla mia falsa nascita come Harbour-Fitzgerald, alla nostra ultima conversazione.
«Cosa intendi dire?» Mike mi accarezzò il dorso della mano, giocando poi con i miei anelli.
«Prima di venire alla Penn, ho scoperto che prima di me i miei genitori avevano perso una figlia biologica... ancora adesso non ho razionalizzato bene la cosa... ma, credo che, agli occhi di tutti, persino ai miei, abbiano finto che io fossi quella loro figlia. È dura accettare di aver indossato sempre i panni di un'altra persona, soprattutto considerando che questi mi sono stati sempre immensamente stretti» sospirai, cercando di controllare il groviglio di emozioni che sentivo nello stomaco.
«Di cosa si occupano?» la voce del signor Eliot sembrò spezzare come una lama quel momento.
Era più che logico che, a sentirmene parlare in questo modo, fosse venuta loro la curiosità di saperne di più. In fondo sia Dominic che Patricia visti dall'esterno potevano apparire due personaggi molto interessanti, era a vederli da vicino che, a volte, perdevano ogni spessore.
«Mio padre è un pianista di fama mondiale, nonché direttore d'orchestra. Non è stato praticamente mai in casa da quando sono nat- sono stata adottata... mentre mia madre attualmente è CEO della Harbour, l'azienda della sua famiglia che da generazioni progetta e costruisce ogni sorta di componentistica per veicoli, persino per quelli da guerra».
«E sono d'accordo all'idea che tu sia qui con noi adesso?» Sally aggrottò le sopracciglia, sapevo che dentro di sé conoscesse già la risposta.
Guardai Chris negli occhi, avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse se fosse giusto o meno dire la verità. Lui capì al volo, e scosse leggermente il capo; perciò, risposi nel miglior modo possibile «è stata una partenza improvvisa la mia, ho scoperto tutto ciò solo pochi giorni fa, e loro in realtà non sono a New York attualmente, quindi hanno potuto soltanto accettare passivamente la mia decisione. Non c'era alcuna possibilità di opporsi...»
«Mamma, papà... se non vi dispiace io ed Elle facciamo una passeggiata... magari torniamo a casa a piedi, così abbiamo modo di conoscerci un po'» li informò con dolcezza, ma era chiaro che stesse diventando insofferente alle loro domande. Sentivo che c'era tanto che lui volesse chiedermi e, al tempo stesso, erano milioni le domande che io avrei voluto porgli. Così, decisi di annuire felice della sua proposta. Lo assecondai, quando strinse le sue dita alle mie, portandomi all'esterno il più veloce possibile. Quando fummo finalmente soli, illuminati dai flebili raggi del sole pomeridiano dell'Ohio, ricominciò a parlare.
«Mi tormenta l'idea di aver perso praticamente diciassette anni della tua vita» sentii le sue mani farsi sempre più madide. Era agitato, ma non ce n'era ragione... nessun'altro sarebbe stato in grado di separarci in futuro.
«Mi distrugge il pensiero che tu possa ricordare qualcosa di loro e che io invece sarò condannata sempre a immaginare la nostra famiglia attraverso le tue parole... eppure Mike, tutto il dolore che provo nel pensare a loro, viene lenito quando ti guardo. Ora siamo io e te, un puzzle a sette pezzi con soltanto due che combaciano, ma almeno non siamo più soli» gli sorrisi, cercando di trasmettergli tutto l'amore che sentivo scorrere rapidamente nelle mie vene.
Sarebbe impossibile spiegare a chi non ha fratelli, cosa voglia dire averne...
Io non ne avevo mai avuti, eppure, avevo scoperto che, dentro di me, io avessi sempre saputo cosa significasse esserlo.
«Lo sentivo in cuor mio che saresti diventata una grande donna» mi rivolse uno sguardo pregno d'amore. Mi sembrò quasi che stessi fluttuando.
«Dimmi qualcosa di te... ho visto le tue foto nella squadra della Penn» glielo chiesi mentre mi guardavo intorno rapita dalla tranquillità di quella cittadina. Non ero mai stata in un luogo così silenzioso prima d'ora.
«Sì, faccio quello che posso per mantenere il mio posto... non sono tra i migliori dei Quakers, spesso mi lasciano in panchina... ma cazzo, essere partito da qui» indicò un piccolo campetto di basket in lontananza «ed essere arrivato a quello, per me è tantissimo» estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca, ne prese una per sé e ripose nuovamente le altre. Mi squadrò titubante e alla fine le riprese, per poi porgermele. Accettai un po' preoccupata, da come Chris me l'aveva descritto me lo sarei immaginato molto protettivo anche in questo campo, ma, quando l'accesi, non sembrò sorpreso.
«E cosa studi? La Penn fa parte dell'Ivy League, non credevo di avere un fratello secchione» risi e lui con me.
«Sto facendo un percorso in studi sociologici, non manca molto alla laurea, e poi ho intenzione di fare un master per social worker... ho sempre desiderato essere un assistente sociale» aggiunse quasi imbarazzato, fissando nervosamente le sue scarpe.
«Credo sia meraviglioso Mike... certo che fa strano vederti così e poi conoscerti... il tuo aspetto mi confondeva, avevo paura di come tu-».
«Beh, in realtà sono esattamente ciò che tu credi io sia... solo che mi sto contenendo dall'essere il solito cazzone, soprattutto perché anche se non mi importa nulla di ciò che gli altri pensano di me, non posso dire che sia lo stesso quando si tratta di te» gettò il mozzicone per terra con noncuranza. Io lo raccolsi e insieme al mio, tornai indietro per buttarlo in un apposito contenitore.
«Ecco, appunto, cominciamo già bene» aggiustò i capelli ricadutigli sulla fronte, cercando di dissimulare la presenza di quel sorrisetto che aveva iniziato a illuminargli il viso.
«Tu invece? Ti sei appena diplomata, quindi immagino tu sia alle prese con una scelta» svoltammo a destra, mentre il centro del paesino si faceva sempre più lontano. Iniziammo a vedere le distese di campi coltivati che ci avrebbero portati a casa.
«Prossimo argomento?» scherzai, sebbene fossi consapevole che questa sarebbe stata sempre una delle prime domande che mi sarebbero state poste.
«Non lo so ancora... sono entrata alla Juilliard e io sinceramente vorrei andare lì-»
«Oddio! Suoni, canti, balli... cosa fai?» mi interruppe incuriosito.
«Canto» diventai rossa, all'improvviso l'idea che lui potesse ascoltarmi mi privò della voce «beh, in ogni caso, alla fine, molto probabilmente mi toccherà una qualsiasi delle università dalla Ivy League... magari la Penn stessa... mia madre vuole a tutti i costi che io studi economia. Lei è figlia unica e io come lei... quindi le sorti della compagnia sono tutte nelle mie mani» gliele mostrai letteralmente, mettendo in mostra come fossero morbide, prive di calli e soprattutto ornate da unghie fin troppo lunghe e smaltate di rosso con applicazioni dorate, sicuramente poco atte al lavoro.
«Era una bugia prima quella sui tuoi genitori vero?».
«Ehm, sì» risposi di getto, mangiucchiandomi le pellicine.
Temevo si arrabbiasse o che peggio mi chiedesse di chiamarli immediatamente. Non ero pronta ad affrontare quella conversazione con loro e non sapevo se quel momento sarebbe mai arrivato. Anche perché nella mia mente stavano già iniziando a prefigurarsi scenari infiniti di me che vivevo di nascosto questa seconda vita a loro insaputa.
«So che dovrei dirti che tutto ciò è sbagliato... ma cazzo, da come li descrivi io non sarei sopravvissuto con loro nemmeno per un anno, figuriamoci fino a diciotto» scoppiò a ridere proprio mentre apriva il cancelletto che ci avrebbe condotti di nuovo in casa sua.
«Oh, hai detto di avere una fotografia di noi cinque insieme... posso vederla?» percepii crescere un'ansia pazzesca di dare dei volti ai miei fratelli. Magari avrei trovato nelle gemelle una maggiore somiglianza rispetto a quella che c'era tra me e Mike, o magari, sarei rimasta sorpresa da quanto Tony potesse essere simile a me. Al tempo stesso, però, avrei potuto rimanere delusa dall'accorgermi, ancora una volta, di non avere nessuna caratteristica in comune con nessuno di loro.
«Certo» mi condusse rapidamente in camera sua, o meglio, nella camera che divideva con Chris. Notai quell'immagine senza che lui me la indicasse, mi colpì dritta in faccia come un'onda forte. Era semplicemente infilzata con uno spillo su una superficie di sughero, intorno a essa il nulla, se non i nostri nomi e le nostre date di nascita segnate a matita.
Staccai prima la fotografia. Dovetti fare uno sforzo immane per non iniziare a singhiozzare. La prima persona che riconobbi fui io e ciò fu particolarmente strano, perché non mi ero mai vista così piccola prima di quel momento. Mi ero sempre chiesta come mai i miei genitori avessero album zeppi dai miei due anni in poi e nessun'immagine di me da neonata. Ogni minuto che passava, la maggior parte dei miei interrogativi sulla mia infanzia venivano risolti.
Mi teneva in braccio il bambino più grande degli altri. Aveva dei riccioli castani che gli coprivano quasi tutta la parte superiore del viso, lasciando scoperti almeno gli occhi. Questi ultimi erano magnetici e scuri. Lui sorrideva, nascondendo i denti. Anche Tony sembrò avere qualcosa nell'espressione che ricordasse la mia, il resto era piuttosto diverso, eppure avrei giurato che chiunque mi avesse conosciuta bene avrebbe potuto capire immediatamente che tra noi vi fosse un legame di sangue.
I miei occhi saettarono in seguito su Mike. Lui e Tony, malgrado la differenza d'età, sembravano quasi l'uno la versione più alta e leggermente più grande dell'altro. L'unico fratello che io avessi visto anche nel suo aspetto da adulto, si era fatto ritrarre mentre teneva le due mani incrociate davanti all'inguine, quasi come se stesse da un momento all'altro per farsi la pipì addosso. Mi fece strano poter ancora vedere la sua pelle intonsa, senza che nessuna macchia d'inchiostro l'avesse già sporcata.
In fine vidi le gemelle e lì sì che ebbi difficoltà a non credere che almeno una di quelle due bambine identiche non fossi io. Capelli chiarissimi color grano, iridi oceano esattamente come quelle che io nascondevo dietro le lenti scure, bocca e naso che ricordavano perfettamente quelle che io pochi mesi prima avevo sottoposto a qualche seduta di filler, ma, ciò che più di tutte mi lasciò sgomenta, fu notare la presenza sui loro faccini angelici di un neo, posizionato al lato dell'occhio sinistro, esattamente nel punto in cui lo avevo io.
Guardai la stanza in cui i nostri genitori ci avevano immortalato. Cercai di studiarne ogni dettaglio, come se potesse essere possibile farmi ritornare alla mente un'esistenza che era stata mia per poco più di un anno di vita. Osservai il tavolo di legno scuro, sul quale era poggiato un libro, il divano chiaro sullo sfondo ricoperto interamente di giocattoli, un modello di televisore datato, un calendario della concessionaria Robertson che segnava gennaio 2006, immagino fosse della società di proprietà del mio padre biologico e poi, in lontananza, un orologio a pendolo. Sulla vetrinetta dell'oggetto il riflesso confuso di due figure.
La bile mi salì in gola rapidamente, perché solo in quell'istante mi resi conto che l'unica immagine, salvo miracoli, che avrei mai visto dei miei genitori, sarebbe stata per tutta la mia esistenza quella. Mike avrebbe potuto sforzarsi il più possibile per descrivermeli, ma anche grazie a lui, non avrei mai potuto averne una ricostruzione nitida.
Risi, osservando quanto quel ritratto mi ricordasse un dipinto di Velasquez. In effetti in cuor mio speravo che uno dei miei genitori fosse stato così sveglio da voler volontariamente riprodurre la propria immagine riflessa come era accaduto nell'opera realizzata dal pittore spagnolo con le fattezze del re e della regina di Spagna.
Distolsi lo sguardo dalla fotografia, concentrandomi sul foglietto.
Lessi ad alta voce ciò che Mike aveva appuntato.
«Anthony Robertson, 24 dicembre 1994; Michael Robertson, 5 maggio 1999; Mary-Elizabeth e Elèna Robertson 19 agosto 2002; Elle Robertson, 28 luglio 2004. Fargo, North Dakota - Jamestown ND.
La concessionaria è abbandonata, la casa è affittata. La prima a essere stata adottata è Elle. Poi Lisa e Lena, sono andate via insieme. Tony è stato mandato in casa-famiglia vicino il ND ma non a Fargo. Grace Smith, 6 marzo, aveva circa trent'anni; Samuel Robertson, 21 aprile, stessa età. Abbandono non dichiarato. Non sono stati più trovati. Omicidio? Suicidio? Droga? Concessionaria, scuola di danza per bambine. Violet Muller responsabile orfanotrofio Fargo, 701-436-893-0».
«Sono stato in North-Dakota un po' di tempo fa, e questo è tutto ciò che siamo riusciti a raccogliere io e i miei genitori... praticamente il nulla più assoluto. Purtroppo i nostri genitori non hanno lasciato nessuna traccia e tutte le adozioni, tranne la mia, sono secretate. Ciò mi fa temere che sia accaduto qualcosa a Tony, non posso pensare che lui non si sia recato lì a cercarci, avrebbe potuto ottenere almeno il numero di telefono dei miei genitori se avesse voluto. Loro ci hanno tenuto a fare in modo che un giorno chiunque, persino mamma e papà, potessero trovarmi» sospirò, sedendosi sul materasso di quello che immaginai essere il letto in cui dormiva dall'infanzia.
Rimasi in silenzio a osservare il quadro completo della mia vita. Dentro di me sapevo che c'era qualcos'altro che avremmo potuto fare. Non mi sarei arresa fino a quando non avrei ritrovato ogni membro della mia famiglia. Non avevo più le disponibilità economiche di una Harbour-Fitzgerald, ma ciò che non mi mancava era la tempra. Ero stata educata nel modo migliore possibile, a volte forse la vita era stata spietata con me rendendomi donna nelle mie decisioni quando ancora ero bambina, ma tutto ciò sarebbe servito a qualcosa, ne ero certa.
Avrei saputo trasformare il dolore in gioia, e su questo non ebbi mai dubbi.
Staccai la fotografia e la ruotai su se stessa.
Una calligrafia corsiva e piuttosto piccola mi saltò immediatamente all'occhio.
Non credevo che avrei trovato qualcosa sul retro, eppure qualcosa dentro di me mi aveva portata a girarla.
«San Benito, D773.M62» lessi ad alta voce, interrogando Mike «sai cosa vuol dire?».
CONTINUA...
Spazio autrice:
Mi sono impegnata tanto per farvi avere questo capitolo malgrado la febbre.
Se qualcuno c'è, mi farebbe piacere leggere un commento.
I feedback sono quasi inesistenti, sebbene questa sia, al pari di TAOBA, una storia a cui tengo molto.
Vi lascio il link per le domande in anonimo su Instagram (maty_riisager).
A mercoledì prossimo,
Non mi abbandonate 🥀,
Matilde.
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