SECONDA PROVA • Conigli radioattivi e cuori d'emergenza
Il campanello suonò. Mi precipitai giù per le scale della Casa dei Fantasmi, attento a non posare il piede su quello scalino. Charlie era dietro di me, sentivo il legno scricchiolare pericolosamente sotto i suoi passi.
Clang!
La trappola scattò e l'ologramma apparve davanti a noi. Diamine se sembrava vero! Avevo fatto un buon lavoro: pareva che quei capelli si agitassero davvero al minimo soffio. La finta strega non sarebbe dovuta comparire fino all'arrivo degli ospiti, ma Charlie – come al solito – non prestava mai abbastanza attenzione. Agitai un braccio attraverso la figura inconsistente ed essa si sciolse in uno sbuffo di luce. Mi voltai.
«Charlie!» urlai al mio assistente, che rischiava di ruzzolarmi addosso. «Non ricordi che non devi toccare il tredicesimo scalino?»
«Scusami Bruno...»
«Ora, stai dietro di me e zitto.»
Giunsi alla porta con i capelli scarmigliati. Con un gesto distratto riportai indietro la chioma, ma non appena posai la mano sul pomello della porta, il ciuffo mi ricadde sulla fronte. Inspirai e sbuffai verso l'alto. Niente da fare.
Sulla soglia trovai una donna. La osservai dal basso, dove i suoi tacchi affondavano nello zerbino. Aveva una gonna nera strettissima che le arrivava alle ginocchia, lasciando scoperte un paio di gambe lisce e curate. Una giacchetta altrettanto scura era chiusa con un unico bottone proprio sotto il suo seno, che gonfiava vistosamente una camicia bianca abbottonata fino al colletto. In testa indossava un cappellino di feltro verde, che si abbinava perfettamente al colore dei suoi occhi. Forse stava sorridendo, ma non ne ero tanto sicuro. Ero concentrato a guardare più in basso, dove la sua mano stringeva una ventiquattrore.
«Si trovano là dentro i dieci milioni di euro?» domandai senza sollevare lo sguardo.
La donna non rispose, ma si limitò a picchiettarmi la testa. Io esaminavo la valigetta, che non sembrava essere tanto pesante. Ma non avevo mai tenuto in mano così tante banconote, perciò non ne ero tanto sicuro.
«Lei è il signor...?» Delle dita sottili, le unghie smaltate di nero, mi sollevarono il mento. Finalmente potei osservare la mia ospite – anche se quella in realtà non era casa mia – in tutta la sua particolare beltà. Del rossetto verde abete sporgeva sopra e sotto le sue labbra e rendeva la sua bocca stretta e circolare, mentre le sue sopracciglia nere erano curvate in un'espressione interrogativa.
«Ah sì, mi scusi, signora...»
«Signorina Camille Chevalier. Lei è lo scienziato?»
«Sì...» Mi sistemai la camicia, accorgendomi troppo tardi che usciva dai pantaloni. «Sì, esatto. Io sono Bruno Brunet.» Pescai da una tasca posteriore dei miei jeans un bigliettino da visita sgualcito e lo porsi alla donna.
Lei mi mostrò il palmo della mano sinistra e scosse la testa. «La conosco bene, non ce n'è bisogno.» Dopodiché – sempre col braccio teso in avanti – fece irruzione nella Casa dei Fantasmi, spingendomi addosso a Charlie.
«Charlie, vai su» gli bisbigliai. «E attento a non far saltare nulla in aria.»
I tacchi della donna schioccavano sul parquet liso e scheggiato mentre incedeva a grandi passi per il modesto atrio della villa. Si fermò di colpo e lanciò sguardi al soffitto e alle pareti.
«Anche se in realtà,» mi permisi di rompere il silenzio alzando un dito «scienziato non è l'appellativo più adatto per...»
«Dove possiamo sederci per contrattare?»
Oh, i soldi.
«Ma sì, certo. Di là nella cucina c'è un tavolo.»
La donna seguì le mie indicazioni e io le stetti dietro. Prima che potesse fare un altro passo, armeggiai con il telecomando che avevo in tasca. Doveva essere tutto una sorpresa, per i futuri visitatori e soprattutto per l'imprenditore. Inoltre mi sarebbe sembrato scortese spaventare la signorina per nulla: un manichino urlante che cade da una botola nel soffitto non è di certo normale.
Arrivati nella cucina, feci accomodare la donna sulla sedia che ancora non avevo attrezzato, poi presi posto su quella a capotavola. Quella che schizzava in alto e si schiantava sul soffitto. Appoggiai il mio sedere in modo da non attivare il meccanismo.
La signorina Chevalier dispose la sua valigetta sul tavolo, proprio sotto ai miei occhi. L'aprì con uno scatto e... niente soldi. Qualche foglio, una penna e una calcolatrice.
«Signor Brunet,» disse lei «la casa è pronta per entrare in servizio?»
«Oh, ma certo...» Tenni lo sguardo sul contenuto della ventiquattrore. Nulla. Nemmeno un falso fondo. Nemmeno una banconota, né un assegno.
«Funziona davvero tutto? La famiglia Lefevre non dovrà uscire da questa casa.»
«Sì, mi manca solo qualche dettaglio.» Cercai di non lanciare sguardi alla sedia della donna. «Ma... non dovrà uscire da questa casa? Non ho creato nulla che possa uccidere. Spaventare a morte: sono queste le istruzioni che ho ricevuto.»
«Ma certo, spaventare a morte.» La boccuccia della donna si distese in un minuscolo sorriso.
«Oh, comprendo...»
«È sicuro di poter soddisfare appieno le richieste del signor Dupont?»
«Il signor... Dupont?»
«Esattamente. Dupont.» Gonfiò di poco il petto, mettendo in risalto una "D" dorata cucita sulla sua giacchetta nera. «L'imprenditore che ha finanziato questo progetto.»
Forse rimasi a bocca aperta, non ne fui tanto sicuro. La signorina distese ancora di più le labbra e piegò il collo. «Qualcosa che non va? Vuole firmare?» Estrasse dalla valigetta un singolo foglio di carta e mi sventolò una penna davanti al naso.
«Ma... il signor Dupont non era detenuto nell'Isola del Diavolo?»
«Certo, lo era. Ha molti amici, però...»
Scappato. Quel criminale era scappato dal carcere di sicurezza più famoso di tutta la Francia. Lo avevano riaperto dopo quasi settanta anni solo per lui. E ora, io, stavo facendo affari con quell'uomo. Sentii l'intestino contorcersi e annodarsi stretto.
«Allora, firma?»
Mi ridestai e finalmente lessi ciò che c'era scritto sul foglio. Un due, seguito da... quanti zeri? Non riuscivo a contarli. Riflettei sul guaio in cui mi stavo cacciando e, in quell'istante, vidi solamente gli annunci del telegiornale anni prima. Poi del sangue, un coltello e una pistola. Sentii uno sparo. Il mio intestino si avviluppò ancora di più, un tremito mi scosse la spina dorsale. Sette, otto... nove zeri? Non capii nulla. Mi ritrovai la penna in mano e lasciai la firma più orrenda della mia vita.
La donna mi strappò la biro dalle dita – non che avessi una presa strettissima in quel momento – e afferrò il foglio da sotto i miei occhi. Cacciò tutto nella ventiquattrore e la chiuse. Scattò in piedi in un trambusto di tacchi e si aggiustò la gonna.
Un cassetto si aprì all'improvviso e sputò coltelli e forchette verso il soffitto. La signorina strillò e si mise le mani in testa, poi fuggì dalla cucina. La inseguii, attento a non far scattare altre di quelle trappole, e la trovai immobile nell'atrio della Casa dei Fantasmi. Fece cadere ciò che aveva in mano e tese le braccia lungo i fianchi. Il cappello le scivolò per terra. Questa volta non ebbe la prontezza di urlare.
Il coniglio bianco fosforescente scendeva le scale a piccoli balzi, le orecchie drizzate, fermandosi ogni tanto ad annusare il legno. Emanava un tenue bagliore, come quello di una piccola lampadina al neon. Charlie si trovava qualche scalino più in alto, le gambe piegate e le braccia protese in avanti.
«Vieni piccolo...» Fece uno stupido verso con la bocca. «Lum, su dai.»
Gli lanciai un'occhiata e lui si zittì.
«Signorina Chevialer, è finto» dissi avvicinandomi a lei. «Fa parte della Casa, il progetto...»
Lei si voltò di scatto, pallida in viso. «Scienziato, il signor Dupont domani verrà per osservare la casa di persona. Arrivederci.» Poi prese il cappello da terra, si sistemò ancora la giacchetta e la gonna e lasciò me e Charlie soli, dopo aver sbattuto la porta con un tonfo.
Silenzio.
Lum, il coniglio luminoso, zampettò verso di me. Lo raccolsi tra le braccia. «Sei scarico, piccolino...»
«Allora?» domandò Charlie affacciandosi dal corrimano della scala. «I soldi? Ce li abbiamo?»
«Ancora no. E mai li avremo.»
«Perché, scusa?»
«Perché moriremo, prima.»
«Ma, cosa...»
«Charlie,» dissi incamminandomi verso il laboratorio, il coniglio accucciato al mio petto. «Vai a controllare quel lampadario e sistema il raggio traente che fa volare il tavolo della cucina. A breve dovremo entrare in azione.»
Chiusi la porta del laboratorio a chiave e mi accomodai sulla sedia girevole. Appoggiai Lum sulla scrivania affollata di coltellini, cacciavite, batterie e boccettine di vetro. Allungai un braccio verso l'alto e frugai in una mensola, fino a quando le mie dita non sfiorarono una piccola scatola di latta. La presi – altre cianfrusaglie crollarono dal ripiano – e lessi l'etichetta: Pillole radioattive per Lum. Ne presi un paio e le gettai di fronte al coniglio, che le annusò e le ingurgitò.
Appoggiai i piedi al muro di fronte a me e mi spinsi al centro della stanzetta, ruotando sopra la sedia girevole. Quanti erano? Venti milioni di euro? O duecento? Molti di più dei dieci promessi. Finalmente, finalmente avrei potuto sbarazzarmi di Charlie, acquistare una villa e un laboratorio degno di essere chiamato tale. Con tutto quel denaro avrei potuto spingermi in operazioni più complesse, più pericolose, senza rischiare di essere fatto fuori dal mio stesso committente. E forse, qualche donna mi avrebbe degnato di uno sguardo in più.
Era così vicina la ricompensa, così vicina, ma allo stesso tempo così lontana. Perché mi sono cacciato in questo problema? Perché? Perché mi hanno telefonato? Perché ho scritto quell'annuncio? Bruno Brunet, invenzioni e illusioni meravigliose. A pensarci ora era così stupido. Ma a quanto sembrava, era stato apprezzato dal criminale più ricco e ricercato della Francia. Diamine! È riuscito a scappare da quella prigione che si trova a centinaia di chilometri da qua.
Potevo semplicemente lasciarlo fuori di casa, l'indomani. Ma no, no, ci avrebbe lanciato una bomba sopra. E i soldi? Non li avrei mai ricevuti. Dovevo essere più astuto. Ma non avevo nulla, solo questo stupido cervello. Mi strappai i capelli e repressi un urlo, non volevo che Charlie venisse qui a disturbarmi. Ma era vero: avevo solo questo stupido e contorto cervello. Che ci facevo? Nulla. Le donne le facevo scappare, pure i professori all'università, ricordai. Sorrisi tra me e me. Ero solo in grado di inventare inutili congegni, far risplendere conigli e donare ai gatti altre sei vite. Solo questo. E solo questo potevo utilizzare per farmi valere. Dovevo essere più veloce del signor Dupont. Dovevo farlo cadere nella trappola della Casa dei Fantasmi prima che potesse attentare alla mia vita e così tenersi stretto tutta quella fortuna.
Improvvisamente ringalluzzito mi rimisi in piedi e decisi di sistemare le ultime cose prima della notte. Controllai il fornellino che riscaldava la soluzione giallastra, dei vapori densi si raccoglievano in una boccettina di vetro un metro più in altro. Indossai la maschera e aumentai la fiamma. Quel gas era così potente da far impazzire le persone: non ci sarebbe stato da meravigliarsi se uno della famiglia Lefevre – gli ospiti attesi nella Casa – si convincesse di assistere a fenomeni paranormali. O di possedere d'un tratto quel coniglio. Mi voltai e constatai che finalmente Lum rincominciava a risplendere adeguatamente.
Dopodiché, passai in rassegna i sei cuori di emergenza per il gatto nero, appesi uno ad uno all'interno di cilindri di vetro. Ce n'erano altri due accanto ad essi, vuoti però. Infine, dopo aver preso in mano cacciavite e pinza, riparai l'aggeggio che proiettava l'ologramma di uno dei fantasmi. Sfinito mi abbandonai sulla sedia e, mentre cercavo un modo per far fuori il signor Dupont, caddi nel sonno.
Mi svegliai bruscamente perché sentii bussare alla porta del laboratorio.
«Bruno, sono quasi le undici!» Continuava a tirare pugni, rischiando di sfondare il pannello di legno.
«Charlie, basta!»
Smise di bussare. Ma aveva ragione, era tardissimo. Quel giorno sarebbero arrivati Dupont, i suoi soldi e – sperai – la sua morte. Le forze dell'ordine mi avrebbero ringraziato, se fossi riuscito nel mio intento.
Afferrai il carrellino e ci lanciai sopra le boccette con il gas, i cuori del gatto, e tutto ciò che doveva ancora essere montato. Elaborai velocemente un piano per intrappolare Dupont – almeno l'inizio – e uscii dal laboratorio.
Charlie stava ancora lì fuori. Aveva i capelli bruciacchiati.
«Che diamine hai combinato?»
«Bruno, tu dormivi e lo sai che io non...»
DLIN-DLON!
Oh, cielo. È già qui.
«Charlie, zitto una volta per tutte.» Gli afferrai le mani e gliele posai sopra le maniglie del carrellino. «Vedi tutto questo? Ora vai su e metti ogni cosa al suo posto. Mi raccomando.» Lo spinsi e lui sgattaiolò via, i miei preziosi congegni che rischiavano di cadere a terra e rompersi in mille pezzi. Pregai che non combinasse nulla di sbagliato.
Giunsi alla porta e presi un respiro. Infilai la camicia dentro ai pantaloni e sistemai il ciuffo di capelli all'indietro, che rimase magicamente al suo posto. Forse non si prospettava una giornata tanto malvagia. Il mio stomacò brontolò e mi ricordai di aver saltato la cena e la colazione. Ma pensai a quanto avrei potuto mangiare con tutti quei soldi, cosa avrei potuto mangiare. E pagare finalmente le tasse, diventare un cittadino francese in regola, o quasi. Ce la potevo fare.
L'imprenditore Dupont faceva paura. In realtà mi sarei aspettato un omaccione con le spalle larghe e il ventre a botte, che a stento si teneva in piedi su gambe tozze e corte. Sì certo, faceva paura. Ma a dare quell'effetto erano la sua carnagione pallida e smunta, gli zigomi alti e appuntiti, la barba ispida e malconcia. Una camicia azzurra di una taglia esageratamente sproporzionata era infilata dentro ad un paio di pantaloni scuri, così larghi che per stare in piedi erano fermati da un giro e mezzo di cintura. In un attimo parve scomparire tutta la mia preoccupazione per quell'uomo e per poco pensai di saltargli addosso e spezzargli la spina dorsale. Non sarebbe certo stato difficile. Poi vidi la pistola nella sua tasca. Meglio essere cauti...
Dietro di lui c'era la signorina Camille Chevalier. Cappellino di feltro nero, rossetto rosso e unghie smaltate di viola. Le sue dita erano serrate attorno alla maniglia di un trolley.
«Oh, buongiorno Bruno Brunet.» La voce di Dupont era grave, le parole cadenzate con cura. «Sono ansioso di visitare questa Casa dei Fantasmi, come la chiami tu. Voglio assistere a ciò che farà impazzire la famiglia Lefevre. Possiamo?»
«Oh sì, entrate pure.» Mi feci da parte e l'imprenditore e la sua segretaria varcarono la soglia.
«Sai scienziato,» disse lui, le braccia piegate dietro la schiena «già avevo tentato qualcosa del genere. Ebbi abbastanza tempo, prima che potessero riaprire la prigione su quella dannata isola, per mettere in atto la mia rivincita sull'avvocato Gauthier Lefevre. Lo conosci?» Si voltò verso di me. La signorina fece qualche altro passo, poi si fermò e si guardò attorno, circospetta.
Lefevre. Lo conoscevo. Da quello che ricordavo era l'avvocato che a suo tempo vinse la causa contro Dupont. Annuii, cercando di sviare il suo sguardo.
«Bene. Dicevo, ebbi tempo per organizzare qualcosa di speciale. Mi piacciono le sfide, ma dopo anni a fare fuori i miei nemici, e basta, iniziavo ad annoiarmi. A me piacciono le battaglie, le guerre. È troppo facile uccidere, troppo banale. E poi è così... istantaneo.» Schioccò quei grissini che si trovava al posto delle dita. «Ma far impazzire, non è forse più stimolante? Ci riuscii, più o meno. Vanille, sì Vanille, la figlia dell'avvocato, a quanto pare, è caduta nel mio tranello. Si convinse che a far volare quei piatti fossero stati dei fantasmi, ma gli altri due, il padre e Didier, non ci cascarono. Be', chi aveva ideato quei finti piatti volanti, non meritava di certo i miei soldi. E non meritava di continuare il suo lavoro. Così presi un'ultima volta la mia pistola e bang!, gli sparai. Un'eccezione a ciò che mi ero prefissato, in attesa di riuscirci in futuro.
«Ma basta parlare.» Si voltò verso la signorina. «Vedo che Camille è alquanto apprensiva in questo momento e tu» ritornò a guardarmi «non la smetti di lanciare sguardi a quel trolley. I soldi arriveranno, signor Brunet. Se solo te lo meriterai, e se avrai fatto un lavoro migliore di quell'altro. Piatti volanti...» Sbuffò.
Ok. Un pazzo. Doveva essere fatto fuori. Sperai vivamente che le mie trappole gli piacessero. Ma, ad ogni modo, non avrei dovuto più contare su quello. Ciò che dovevo fare era ucciderlo, con quelle stesse trappole. E prendermi i soldi.
«Oh, vedo che non smetti di fissare quella valigia» continuò. «Per carità, Camille, aprila e facciamola finita.»
La donna si ridestò dalla sua trance e infilò la mano in una tasca della sua gonna. Tirò fuori una chiave e aprì un lucchetto sulla cerniera del trolley. Fece scivolare la zip e mazzette di banconote iniziarono a sbucare e a strabordare dall'interno. Qualcuna cadde per terra. Centinaia, migliaia di euro. Forse li stavo osservando troppo avidamente, ma il signor Dupont sembrò non accorgersene. Anche lui rimase incantato da quella vista. Quegli anni in prigione, lo avevano privato a tal punto del suo tesoro? La signorina Camille continuava ad aprire la valigia, altro denaro scivolava per terra...
«Basta.» La voce dell'imprenditore pose fine a quella magia. «Ora sei sicuro che abbiamo portato i soldi, Bruno Brunet. Adesso, fammi vedere questa casa. Prima che me ne penta.»
Va bene, signore. Venga, che l'accompagno verso l'inferno. Pensai che la strega delle scale potesse rappresentare un buon inizio per la sua dipartita. Doveva abbandonare questo mondo spaventato, a morte.
«Certo, iniziamo dal piano di sopra» dissi indicando le scale.
«Oh, no. Direi che possiamo iniziare da qua sotto invece.»
«Come vuole.» Dannazione. «Partiamo dalla cucina allora.» Indicai il corridoio di fronte a noi. Lì sopra, nel soffitto, era nascosta una botola. Quella con il manichino urlante al suo interno. Bastava attivare il meccanismo dal telecomando che avevo in tasca e...
Dov'è il mio telecomando?
Frugai in entrambe le mie tasche, pure quelle posteriori. Ma ciò che percepivo erano solo monete, pezzi di carta e fazzoletti. Nessun telecomando. Il signor Dupont e la sua assistente superarono la botola. Illesi. Io mi incamminai dietro di loro, prima che potessero sfuggire ancora alle mie trappole.
Una volta arrivati in cucina l'imprenditore prese posto su una sedia. Ovviamente quella non ancora attrezzata, dove si era seduta Camille Chevalier il giorno prima.
«Allora? Ancora non ho visto nulla e... quanto tempo è passato Camille?»
«Due minuti e quarantotto secondi.»
«Be' non è proprio tutto pronto.» Nascosi le mie mani dietro la schiena e incominciai a torcerle.
«Nemmeno dei piatti volanti... nulla?»
«Oh, quelli sì. Non solo quelli, però... vuole un caffè?» tentai disperato. Lui non sapeva che l'acqua che scorreva nelle tubature di quella casa era in soluzione con sostanze stupefacenti. E non sapeva che il gas dei fornelli era soporifero e... be', come quello che avevo preparato nel laboratorio.
«No grazie, non prendo nulla. Visitiamo un'altra stanza?» Come non detto.
«Sì, possiamo andare nel soggiorno.»
Il signore si alzò e uscì dalla cucina. Quando fu a portata del tavolo volante, cliccai col piede una mattonella del pavimento. E quello funzionò.
Osservai la lampada sul soffitto brillare di rosso, il raggio traente al suo interno che entrava in funzione. Il tavolo si sollevò da terra e rimase sospeso in aria per quasi un secondo. Poi, all'improvviso, schizzò verso la parete e si schiantò in una nuvola di schegge contro il muro, dove si trovava il signor Dupont. Dove si trovava.
Era chino per terra, un paio di metri più indietro del mucchio di segatura che aveva costituito il tavolo. Teneva qualcosa tra le dita. Sembrava una perla.
«Cos'è, una cacca di coniglio?» si domandò grattandosi il mento.
La signorina dietro di lui strillò e balzò.
Oh, Gesù. Non ci credo.
«Non mi dire che hai intenzione di spaventare la famiglia Lefevre con questo?»
Non pronunciai parola e mi limitai a scuotere le spalle. Cosa diamine c'era che non andava quel giorno? Perché ero così sfortunato?
«Continuiamo.» Il signor Dupont superò le macerie di fronte a sé. La donna preferì fare il giro più largo dietro al tavolo. Io la seguii.
Indicai ai due la strada per il soggiorno e scorsi Charlie sbucare da un'altra stanza. Rallentai, attento a non farmi scoprire, e afferrai il mio assistente per il colletto.
«Charlie!»
«Bruno!» Era madido di sudore in fronte. «Scusami, sto avendo problemi con il gatto nero. Non so dove si è nascosto, come farò a impiantargli gli ultimi due cuori di emergenza?»
«Poco importa ora» sussurrai. «Va benissimo così.»
«Davvero, Bruno?»
«Sì, ora zitto e stammi a sentire. Hai presente le botole sopra il soggiorno? Quelle con gli altri manichini?»
Lui annuì.
«Ecco» continuai. «Svuotale. Prendi più coltelli possibili, anche le spade appese nel corridoio di sopra.»
«Le spade?»
«Sì, sì, le spade. Quelle che dovrebbero volare. E metti tutto dentro alle botole. Sopra al soggiorno.»
«Ma... perché?»
«Li vuoi i soldi?» Lasciai la presa e raggiunsi la signorina, sperando che Charlie avesse capito.
Il signor Dupont si trovava al centro della sala con le mani ai fianchi. «Allora? Qui hai qualcosa di interessante da mostrarmi?»
«Certamente, molto interessante. La stupirò.»
«Cos'è questo trambusto?» chiese la donna, guardando in alto.
«Oh, credo che si tratti del mio assistente che sistema le trappole. Giusto un attimo e vedrà. Sarà contento di condividere il suo denaro con me.»
Il signor Dupont estrasse dalla sua tasca la pistola e sparò verso l'alto. Un tramestio confuso anticipò lo spalancarsi delle botole. Il gatto nero crollò accanto alla signorina.
Ecco dove si era nascosto...
Una pozza di sangue si allargò attorno alla povera creatura. La donna riuscì stranamente a mantenersi ferma, senza cacciare alcun urlo. Certo, fino a quando il gatto non miagolò e si rialzò sulle zampe. Se ne andò agitando la coda, come se nulla fosse accaduto. Almeno quei cuori di emergenza li ho fatti bene, pensai.
Camille Chevalier si nascose dietro ad un divano, teneva una delle sue scarpe col tacco in mano, come se si trattasse di un arma. Sfiorò la stoffa del mobile e questo si staccò dal pavimento. Cominciò a levitare e continuò ad alzarsi, vibrando un poco, fino a quando non raggiunse i due metri di altezza. Poi rovinò per terra. La signorina fuggì dal soggiorno in preda al panico, il tacco si spezzò e lei cadde in ginocchia. Senza rialzarsi, né voltarsi all'indietro, gattonò via.
Rimanemmo solo io e il signor Dupont. Lui aveva ancora la pistola puntata in alto, verso la botola. Poi piombò un singolo coltello che si conficcò nel legno del parquet.
«No...» Un gemito provenne dall'alto, era la voce di Charlie.
Dupont sparò un altro colpo. Charlie crollò come una bambola di pezza - portandosi addosso un paio di spade e altre lame - e rimbalzò con la testa e con i gomiti. Il suo sangue si mescolò a quello del gatto nero.
«Charlie!»
Feci per avvicinarmi al mio povero assistente, ma Dupont mi minacciò con la sua pistola.
«Cosa volevi fare, eh?» Deglutì. «Volevi farmi fuori? Tenerti il denaro tutto per te? Bel tentativo, comunque.» Guardò verso l'alto. Fece dei passi, il suo dito tremava sul grilletto.
Le mie gambe erano paralizzate, l'unica cosa che riuscii a fare fu sollevare le braccia. Poi parlai. «Aveva promesso che non avrebbe più usato la pistola.»
«Oh, sì. Per quelli che non cercano di essere più furbi di me. Volevi usare le trappole per farmi fuori? Non mi copiare, scienziato. Queste servivano per la famiglia Lefevre, per farla impazzire. Non per uccidermi. Quindi sono libero di poterti sparare. E di tenermi quei due miliardi di euro.»
Dupont premette il grilletto. Il proiettile mi trapassò il cuore e io stramazzai a terra. Altro sangue si mescolò a quello del mio assistente e del felino. L'imprenditore pazzo sorpassò il mio corpo e chiamò la sua assistente. «Camille, le tue soffiate sulle trappole mi hanno ancora salvato la vita.»
Come faccio a sapere tutte queste cose? Semplice. Perché il secondo dei miei tre cuori incominciò all'istante a pompare altro sangue fresco.
La battaglia, la guerra, così come la chiamava lui, non poteva di certo finire così. Quei due miliardi di euro, alla fine, sarebbero stati miei.
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