Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Atto II - Lasciami le ombre, il dolore, la notte

C'è una crepa in ogni cosa.
È da lì che viene la luce.
(Leonard Cohen - Anthem)





Bretagna, penisola di Crozon, 2 febbraio 1913





"Non è la morte, non è ancora il momento,
ma quel momento comunque è dentro."


È l'alba.

Una sottile scaglia di sole si fa largo a fatica attraverso le imposte leggermente socchiuse.

Ti pizzichi le palpebre, solleticandole piano con un polpastrello; apri gli occhi tuo malgrado e ti guardi attorno in preda a un vago senso di straniamento. Non ti trovi a Nurmengard, ne sei sicuro: quella in cui hai dormito non è una camera del vecchio maniero. Ancora stordito dai fumi di un sonno greve e irrequieto, inizi confusamente a chiederti se non sia il caso di preoccuparsi.

Poi i pensieri, all'improvviso, si snebbiano.

Londra, il Ministero, una sala da ballo addobbata a festa.

Maschere in pizzo, costumi variopinti.

Non sei in Austria.

Le note malinconiche di un pianoforte, una danza al chiaro di luna, un bacio agognato e struggente.

Sei miglia e miglia distante dall'Austria.

Il fruscio morbido della seta, brividi che s'annodano al ventre e alla schiena.

La verità è che non lo sai dove sei, di preciso.

La sua bocca sulla tua, le sue mani che scivolano fra le pieghe di una veste sontuosa, color della notte.

Sai solo che ci sei arrivato insieme a lui.

Lui sopra di te, dentro di te - ascolta.

Le strida di un gabbiano a rompere la quiete irreale che ti circonda.

In lontananza, il gorgoglio sommesso della risacca.

Ad Albus è sempre piaciuto il mare.


"Non è l'amore a farci a pezzi,
non è il dolore a scrivere i versi,
non è la voglia di farmi male,
non è la voglia di farmi male."



Osservi distratto il comodino accanto al letto; v'è posata l'elegante caraffa di vetro che Albus ha fatto apparire dal nulla, dopo. È vuota, e i due calici che ne replicano il disegno squisito sono macchiati di rosso sullo stelo e sui bordi.

Il tuo corpo, rifletti, non dev'essere in condizioni migliori - non li vedi, i morsi, i graffi, i lividi impietosi che sfregiano il candore immacolato della tua pelle, non li vedi ma li senti, li senti per Dio, li senti tutti.

E uno, dannazione, brucia più del fuoco.

Brucerà per sempre.

Rimani disteso nel confortante tepore delle coperte, cercando di rilassare i muscoli intorpiditi; ti volti e fra i cuscini trovi un'eco del suo profumo - c'è, è ostinato e non va via, non ti abbandona (non glielo permetti), insiste e ti investe con la potenza travolgente di un fiume in piena.

Tè, sole e rose bianche.

Ti sollevi di colpo, scostando in fretta le lenzuola, scendi dal letto e corri ad aprire i pesanti tendaggi che ancora ammantano d'oscurità buona parte della stanza. Spalanchi i battenti della grande finestra che si affaccia sull'esterno e raggiungi a passi decisi il balcone; con un braccio ti copri gli occhi, tenti di proteggerti dal riverbero del sole sull'acqua - il cielo è azzurro, è troppo azzurro -, resisti un poco ma alla fine sei costretto a rassegnarti: fissi un punto indefinito all'orizzonte e ti lasci incantare dalla bellezza immensa, sorprendente, dell'oceano accarezzato dalle prime luci del mattino. Inspiri a fondo, e un fiotto di aria salmastra ti riempie i polmoni, donandoti un inaspettato sollievo.

Un uomo risale lentamente il pendio che dalla spiaggia conduce alla casa. Si avvicina alla solida staccionata in legno che costeggia l'ampio giardino e la scavalca con un balzo rapido, energico.

«Mettiti qualcosa addosso, o ti verrà un accidente!».

Non accenni a muoverti.

Dove siamo?

Albus si smaterializza e con uno schiocco ricompare al tuo fianco, angosciato, le mani scosse da un tremito e un'ombra di cupo tormento a offuscare la trasparenza vivida e cristallina del suo sguardo.

Non riesci a parlare? Perdonami perdonami perdonami.

Ti stringe a sé e nasconde il volto nei tuoi capelli.

Avverti una lacrima (una soltanto?) bagnarti l'arco indolenzito del collo.

«Stai tranquillo, sto bene, non è successo niente».

C'è un solco più profondo degli altri, intorno alla tua gola.

Là dove le sue dita hanno stretto più forte.



"Lasciati abbracciare, forte,
lasciami le ombre, il dolore, la notte,
lascia che ti dorma accanto quando viene buio,
mentre parli nel sonno e io urlo da solo.
Non ero io dentro al tuo corpo,
non eri tu a tenermi dentro,
non ero io, non eri tu,
non ero io, non eri tu."



Avete fatto l'amore per un giorno e una notte interi, corrosi da un bisogno straziante, necessario, che a ogni orgasmo vi lasciava affannati ed esausti fra le coltri del letto (e sul pavimento freddo, e contro il muro vicino all'ingresso, e sopra la scrivania del piccolo studio, e...), frementi e appagati eppure inevitabilmente, dolorosamente ansiosi di continuare, di possedere ed essere posseduti, di prendervi e divorarvi e consumarvi l'un l'altro, ancora, ancora e ancora. Conoscevi l'effetto che quell'abito e il corsetto - e i gioielli e il trucco e tutto - avrebbero avuto su di lui, sapevi che sarebbe impazzito. Ti ha fatto urlare e godere e implorare come non ricordi di aver mai urlato e goduto e implorato, e hai perso il conto delle volte in cui sei stato a un soffio dal dissolverti, spaccarti - e morire, morire, morire nelle sue braccia, tra i suoi sospiri. Sulle sue labbra ardenti. Non hai staccato gli occhi dai suoi nemmeno per un attimo. Hai raccolto e bevuto il suo piacere, te ne sei inebriato fino a uscire di senno, hai preteso - supplicato, ottenuto - da lui gli stessi gesti, lo stesso trasporto. La stessa adorazione.

Non hai avuto pietà. Non ne hai ricevuta.

È stato il cuore, infine, a tradirti (quel maledetto, fottuto bastardo), a imporsi, a gridare, a inchiodarti alla croce come un condannato al quale non può - non deve - essere concessa alcuna grazia. Con Albus è così, da sempre. Ti strappa dal petto parole che non t'appartengono (forse), ma che con lui, per lui, assumono nuova definizione, diventano reali, concrete. Possibili, persino.

(Anche se solo per un momento, il tempo sufficiente a pronunciarle, a consentire loro di colpire nel segno e fare male, male - fare male ovunque.)

(A lui? A te? C'è differenza?)

«Restiamo qui. Io e te, insieme. Lontani da tutto e da tutti. Solamente noi due».

Albus ti ha guardato, a lungo, e non ha aperto bocca. I suoi occhi - gocce limpide d'un oceano furibondo e tempestoso - ti trafiggevano, ti ustionavano la carne e l'anima, febbrili e grondanti un desiderio primordiale, assoluto, terrificante. La stessa fame che, ne eri certo, lui era in grado di scorgere oltre l'abisso oscuro del tuo sguardo - un anelito talmente intenso e selvaggio da poter essere imbrigliato (non estinto, mai estinto) soltanto se aveste entrambi accettato di smarrirvi l'uno dentro le ferite sanguinanti dell'altro.

Solo noi due? Per sempre?

Per sempre.

La sua mano, caldissima, dal viso è scesa a lambire l'incavo del collo - uno scampolo di pelle fragile e vulnerabile, indifeso e irrimediabilmente - consapevolmente - esposto, offerto. Le dita si sono contratte sulle vene palpitanti della gola e feroci, implacabili, hanno cominciato a stringere, stringere. Stringere.

«Perché? Perché sei così crudele? Perché?»

Vuoi uccidermi?

A volte lo sogno.

E sogni di riuscirci?

Non succede mai.

No?

No. Mi paralizzo e mi sveglio urlando.

Ha mollato la presa e si è allontanato di scatto, il volto bianco e dilaniato da una smorfia d'indicibile orrore. Tu hai atteso che un rivolo salato e bollente ti si incrostasse sulle guance prima di allungare un braccio verso di lui e tirartelo addosso, di nuovo - per accoglierlo (assolverlo), per dargli modo di seppellire sé stesso e il suo dolore su di te, in te. Perdonami perdonami perdonami. Gli hai baciato la fronte, le tempie pulsanti, gli zigomi pallidi e affilati. La punta del naso, gli angoli umidi della bocca. Calmati, va tutto bene, non è successo niente. Lo hai cullato e avvolto e abbracciato, forte, fortissimo, e Albus si è aggrappato alle tue spalle, disperatamente, quasi fossi per lui - e lui per te - l'unico appiglio saldo rimasto al mondo. Lo hai spinto a sdraiarsi e ti sei insinuato fra le sue gambe, lento, inesorabile, mentre con una mano ti tenevi sollevato sopra di lui e con l'altra tornavi a masturbargli l'erezione rovente, dura, gonfia e già tesa al limite contro il tuo stomaco.

Voglio che mi entri dentro, adesso. Non avere riguardi, non aspettare, fammi male. Fammi male e basta.

Così, mio blu?

Gli hai afferrato le cosce e te le sei portate sui fianchi, lo hai contemplato - venerato - per minuti infiniti (era arreso e osceno e magnifico sotto di te), hai cercato le sue mani e le hai catturate, le hai incatenate con furia alle tue, hai trattenuto appena il respiro e finalmente (finalmente!) sei penetrato in lui con una serie di affondi scomposti e violenti.

Sì, così, così. Spezzami le ossa, scorticami, rivoltami le viscere e per un istante dimentica - fammi dimenticare! - che un giorno la realtà si sostituirà al sogno, e allora non ci sarà scampo, per nessuno dei due, non ci sarà un'alba a scacciare le tenebre, né un risveglio insperato a illuderci di poterci ancora fermare.


"Il sangue che mi esce dal corpo
è il mio soltanto se lo riconosco,
sei una ferita aperta dentro cui viaggiare
tu non mi abbandonare."


Il sole è ormai alto nel cielo, le ore si susseguono e il Tempo scorre incessante, incurante.

Rivolgi un'ultima occhiata all'orizzonte nitido e splendente, poggi la fronte alla sua e resti immobile, in silenzio, ad ascoltare il battito del suo cuore che si confonde al tuo e si unisce, in un canto di sovrumana bellezza, al vento che gorgheggia tra i rami degli alberi, e alle onde che s'infrangono impetuose sugli scogli.

C'è tanta luce, tanta luce... sembra oro liquefatto, un mare fiammeggiante e sconfinato in cui cadere, sciogliersi, annegare.

«Rientriamo, bredhu?»

Una carezza fra i capelli, leggera e dolcissima.

Annuisci, intrecciando le dita alle sue - ancora una volta.

«Rientriamo».

La luce è accecante e gli occhi non distinguono più i contorni.



"Salvami dai mostri, dal mondo,
salvami da quello che voglio
il male profondo,
dalla morale, dall'obbedienza,
dalla normalità fatta sentenza,
dalla vergogna, dall'efficienza,
la sicurezza, la sufficienza.
Non ero io, non eri tu.
Non ero io, non eri tu."





{Words Count: 1512}



Nota:

E dunque, eccoci qui.

Ci sarebbero un sacco di cose da dire ma ammetto di essere piuttosto scossa al momento, ho la mente vuota (più del solito, almeno) e non so nemmeno da che parte potrei cominciare. Questa storia non era propriamente nei piani - non in questi termini, anche se il nucleo principale ce l'avevo in testa da tempo - ma, complice anche la colonna sonora che mi ha letteralmente spezzato l'anima, ha voluto uscire così e io non ho potuto fare altro che assecondarla.

In qualsiasi caso, mi preme sottolineare (come spero sia evidente), che quella descritta è una situazione estrema, vissuta da due personaggi estremi, entrambi parecchio sopra le righe e dalla morale indiscutibilmente ambigua (a voler essere clementi e usare un eufemismo). Va da sé che in condizioni normali, se qualcuno dovesse provare a mettervi le mani al collo, l'unica cosa da fare è chiamare la Polizia, subito, anche e soprattutto se dopo quel qualcuno vi chiede scusa. Detto questo, nelle note allo scorso capitolo avevo anticipato che avrei provato a descrivere anche le sfumature più oscure e insidiose di questo rapporto, fermo restando che, nella mia idea, Albus e Gellert possono arrivare a perdere il controllo in questo modo solo ed esclusivamente (e di certo non sempre, intendiamoci; anzi, questo è un episodio unico, che non verrà in alcun modo replicato) quando sono insieme, nel senso che è l'uno che tira fuori il meglio o il peggio dell'altro, nessuno oltre a loro due può. Il discorso è complesso e controverso, ne sono consapevole, e naturalmente, per qualsiasi critica o appunto, sapete che io sono qui, dispostissima a discuterne.

Fatemi sapere, se vi va, cosa ne pensate di questo racconto, diventato una storia sola divisa in due atti.

Soundtrack: Non, The Zen Circus. È sempre (sempre sempre sempre) colpa di Velia, anche se lei a riguardo preferisce usare la parola "merito". Ai posteri l'ardua sentenza.

Grazie come sempre a chi leggerà - anche silenziosamente -, e a chi commenterà o inserirà questa breve raccolta in uno dei suoi elenchi di lettura.

Grazie immensamente a chi lo ha già fatto ♥♥♥

Alla prossima!

Questa storia fa parte della serie "We were closer than brothers" insieme a: "Meet me after dark again", "Fear the fever", "Quando viene dicembre", "He's more myself than I am", e "As my memory rests...", tutte pubblicate sia su EFP che qui su Wattpad.

Vi aspetto su Instagram!

P.S: per quanto riguarda la location, qualcuno forse ricorderà che, a suo tempo, ho del tutto arbitrariamente attribuito ad Albus un quarto di sangue bretone. E niente, dato che sono nostalgica ho deciso che, siccome comunque nella storia il mare doveva comparire, tanto valeva fare una capatina in uno dei luoghi più belli della Bretagna. Non sono per niente convinta che, in particolare all'epoca, ci si potesse smaterializzare o passaportare (?) o quel che volete voi tanto facilmente da una nazione all'altra, ma d'altra parte #Silentepuò, a prescindere, per cui sì, alla fine fa ciò che vuole anche in questa specifica circostanza. Quando si stufa dell'Inghilterra semplicemente espatria.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro