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Seth - Capitolo 14

  Milena è scomparsa. L'abbiamo cercata per tutta la città e io stesso mi sono trattenuto fuori fino allo scattare del coprifuoco. Un attimo prima giocava seduta davanti casa e quello dopo non c'era più. Abbiamo chiesto ai vicini, a scuola, per le strade. Nessuno si spiega per quale ragione si sia allontanata senza avvisare la madre, non l'aveva mai fatto prima.

L'ultima volta che l'ho vista le ho parlato dell'altra sezione,  le ho raccontato di un posto enorme e deserto, pieno di favole e cibo. E adesso ho un grillo dentro l'orecchio che non mi dà tregua, mi sussurra parole malefiche, mi dice che è colpa mia. Le ho riempito la testa di sciocchezze, ho allestito una scenografia fiabesca intorno a una sezione di morte, ho acconciato i capelli agli scheletri, li ho vestiti di tende, ho trasformato la polverosa romita tomba in una sala da ballo.

Spero solo che non sia partita alla ricerca di quel posto e che sia finita chissà dove.

«Dal bunker non si può uscire, verrà fuori, vedrai che verrà fuori» ha detto mia madre alla sua, quando l'ha convinta a darsi un attimo di tregua, questo pomeriggio. Le ha offerto un decotto di carote preparato con le bucce di quelle ricevute per l'ultimo prelievo e l'ha pregata di sedersi cinque minuti. Lavinia è rimasta in piedi. Ha portato la tazza d'acqua calda alla bocca con mani tremanti e poi ha scosso la testa: «Forse a scuola l'hanno presa di nuovo in giro per i capelli, forse è scappata per questo. Non lo so, non me ne ha parlato. È colpa mia, l'ho rimproverata l'ultima volta che se n'è lamentata e magari non si è sentita capita da me. Io volevo solo che si accettasse.»

«Quindici anni fa sparì una bambina, prima della seconda epidemia. Lo ricordo perché faceva parte di quel gruppo di bambinetti con cui giocava anche Seth. La cercammo per tutto il pomeriggio. Alla fine venne fuori, la trovammo a curiosare nella stanza dove si era nascosta per gioco. Milena è sveglia, vedrai che tornerà presto a casa» dice mia madre.

A cena l'atmosfera è tesa, almeno tra i grandi. Mio padre ha fatto un discorso su quanto sia scorretto allontanarsi da casa senza avvisare i genitori e poi ha fissato a lungo i miei fratelli. Prima di tornare a guardare il suo piatto ha lanciato un'occhiata anche a me, come per farmi capire che nonostante sia ormai adulto il discorso vale anche per me. Ho fatto una smorfia risentita, perché non mi aspettavo di essere incluso nella predica, però non riesco a essere arrabbiato con lui. Se uno di noi tre sparisse ne morirebbe, e io stesso non potrei sopportarlo, se dovesse succedere qualcosa a Elise e Alexandre. I miei fratelli hanno subito ripreso a elencare ipotesi strampalate su dove Milena potrebbe essere, come se la ramanzina non li riguardasse.

«Forse è tornata sulla Terra» ha supposto la più grande.

«Ma noi siamo già sulla Terra, tecnicamente» ha aggiunto con tono saccente il genio di casa.

«Vabbè, non era quello che intendevo. Oppure è andata a farsi una nuotata.»

«Dove potrebbe essere una prigione in città?» chiedo invece io, interrompendo le chiacchiere insensate di quei due. Se da un lato la scomparsa di Milena ha occupato tutto il mio tempo degli ultimi due giorni, dall'altro non riesco a dimenticare quanto visto l'altro pomeriggio.

«Le prigioni sono state abolite prima di fondare questa società» risponde confuso mio padre, lascia ricadere il cucchiaio nella zuppa e mi osserva. La mia è una domanda insolita che potrebbe compromettere la segretezza della mia scoperta. Anche mia madre ha un'espressione strana. Preoccupata.

«Cosa è una prigione?» domanda mio fratello, mandando giù una cucchiaiata di brodo. Evidentemente a scuola non l'ha ancora studiato. Non me ne stupisco, tutto ciò che riguarda la violenza viene insegnato con riluttanza. C'è chi sostiene che i pensieri negativi possano influenzare la psiche e renderla più soggetta alle malattie.

«Non sai proprio niente» lo rimbecca Elise, «sono delle gabbie per i criminali, nelle quali venivano rinchiusi senza cibo, letto o bagno. C'era solo il pavimento. E le frustate, sì, dalla mattina alla sera e...»

«Lo so... se esistessero ancora, intendo» sbotto, interrompendo Elise che sta esagerando per impressionare Alexandre, che ci osserva uno a uno con gli occhi sgranati. Mio padre alza un sopracciglio scettico prima di rispondere.

«Ad Antevorta non potrebbero mai esistere» ne è convinto, peccato che non sappia quello che so io. Mio fratello manda giù una cucchiaiata di zuppa con un risucchio, il piatto che ha davanti è tornato a essere la cosa più interessante della tavola.

Dopo cena per una volta non ho voglia di  aprire il portellone, concentrato invece a ragionare su dove possa essere la prigione. Grazie al lavoro che faccio non ci sono molti posti che mi sono sconosciuti in città, eppure non mi viene in mente un solo luogo dove possa essere.

Sono disteso sul mio materassino, al buio. Mio padre e miei fratelli dormono da un pezzo. Mia madre invece è sgattaiolata in cucina circa venti minuti fa. Riesco a sentire da qui il tintinnio delle monetine. Mi dispiace ma stasera la mia concentrazione è tutta rivolta a quella povera prigioniera e a Milena. La sezione B, i libri che potrei trovarci, le monetine si pongono in secondo piano.

Mi appisolo per un paio d'ore, prima di essere svegliato dalla solita insonnia. Mi siedo sul letto e mi reggo la testa tra le mani. Forse guardare la mappa con tutti gli edifici della città potrebbe essermi d'aiuto, penso d'improvviso. Le cartine della sezione si trovano nell'ufficio della nostra squadra. Come capogruppo è mio padre a tenerne le chiavi. Afferro il mazzo dal gancio vicino la porta d'ingresso, per la seconda volta in due giorni, attento a non far tintinnare le chiavi fra loro. Prima di uscire decido di togliere la tenuta da notte e indossare i vestiti, non so quanto tempo perderò e potrei tornare dopo l'alba.

Passeggiare di sera mi piace. Si sta tranquilli, a parte il fatto che bisogna stare attenti a non farsi notare dai pochi funzionari che controllano il coprifuoco. L'ufficio si trova a una discreta distanza da casa mia, tre quarti d'ora per chi è abituato a muoversi a piedi come noi non sono poi tanti. E pensare che un tempo ci servivamo di macchinari per spostarci da un punto a un altro, lasciando che il grasso in eccesso nel nostro corpo facesse proliferare le malattie.

La certezza della mancanza di allarmi alla porta non basta a tranquillizzarmi, mentre giro la chiave nella toppa. Decido di non accendere la luce e di farmi bastare il leggero raggio bianco del lampione più vicino. Mi muovo svelto verso la cassettiera in acciaio, deciso a non perdere tempo. Mi avvicino alla finestra con un malloppo di fogli in mano, affinché la luce possa aiutarmi a identificare le cartine. Escludo abitazioni private, la scuola, la fabbrica e le botteghe: la cisterna cattura la mia attenzione. L'acqua non potabile arriva nelle case direttamente dal mare e viene desalinizzata dai filtri nei rubinetti. Quella potabile invece giunge nella cucina della città e viene appositamente purificata da una piastra speciale. Ma l'acqua pubblica, per esempio quella utilizzata per abbeverare gli animali, arriva alla cisterna. 

Sono già stato in quel luogo un paio di anni fa e ricordo quella giornata come una delle più belle mai vissute. Io e mio padre eravamo liberi dal lavoro perché si celebrava un matrimonio.

Mia madre stava pettinando i capelli chiari di mia sorella quando mio padre disse:

«Non andremo a seguire le nozze, oggi faremo una gita.» Ci portò alla discarica, un luogo non frequentato per via dell'odore sgradevole, in cui raccogliamo i pochi rifiuti non riciclabiliprodotti ad Antevorta, che gli addetti una volta a settimana smaltiscono utilizzando la sonda.

Facemmo un picnic, mio padre tagliò una mela in quattro e tenne per sé la buccia e i semi. Pranzammo con quella e con del latte diluito con un po' d'acqua e dolcificante, poi ci distendemmo a osservare l'azzurro brillante del cielo di metallo. Un paio d'ore dopo raggiungemmo la cisterna che c'è lì vicino. Dentro ricordo che c'era una vasca piena d'acqua che mio padre chiamò piscina, e poi ci convinse a tuffarci nell'acqua fresca. Ci vollero le braccia di tutti quanti per trascinare dentro la vasca anche mia madre, ma poi appena fu dentro iniziò a ridere come non l'avevo sentita ridere mai. Sembrava che l'acqua l'avesse liberata oltre di una parte del suo peso anchedalle preoccupazioni. Ridemmo tutti insieme a lei, anche se non c'era un vero e proprio motivo per farlo. Erano semplici risate di felicità.

Prima di andare via mio padre ci chiese se sentissimo ciò che sentiva lui.

«Cosa?» chiese Alexandre che allora non aveva nemmeno compiuto otto anni.

«Il potere di trascorrere la giornata come ci va, il mondo lontano, i Funzionari distanti: la libertà.»

Fu una giornata indimenticabile e confesso di chiudere gli occhi, a volte, e di cercare di simulare quella sensazione.

L'edificio dentro al quale si trova la cisterna è privo di finestre, così non potrò approfittare nemmeno della luce dei lampioni, penso quando mi trovo lì davanti. Sollevo una spranga di ferro che funge da sicura e do uno spintone alla porta arancione arrugginita, aprendola per metà. Non va oltre. Mi ci spingo dentro con forza, graffiandomi il braccio. La stanza è umida e odora di sale. Mi guardo intorno confuso. A parte la cisterna calata nella vasca colma d'acqua non c'è altro. Nessuna prigioniera, nessuna prigione. Do un calcio al container di latta, frustrato. Ero così sicuro che fosse qui!

Esco fuori e mi avvicino a un lampione, per poter esaminare le carte che ho in tasca. Osservo i disegni in prospettiva. In un punto, a Ovest, ci sono segnati i sottopassaggi. Sono delle camere di contenimento nelle quali venivano chiusi in quarantena i malati di Mephista, vuote dall'ultima ondata del morbo, quindici anni fa. La paura folle di tutti noi, nei confronti di questa malattia, mi spinge a pensare che nessuno si avvicinerebbe mai a quelle stanze. Piego le carte e mi muovo, quasi di corsa, verso di esse. Se davvero i miei conti sono esatti, troverò la prigioniera.

Durante il tragitto mi chiedo per quale ragione possa essere stata rinchiusa. E se fosse infetta e liberandola portassi alla distruzione della nostra società? In fondo, poi, non avrei nemmeno nessun buon motivo per volerla salvare. Senza considerare il pazzesco rischio che sto correndo e il fatto che non ho idea di come tenerla al sicuro. E per di più l'idea di poter mettere nei guai anche la mia famiglia mi affligge. Però è come se sentissi di doverlo fare. È come se per una volta sentissi di stare facendo qualcosa perché è giusto per me e non perché lo sostiene la mia comunità.

Rallento il passo e mi guardo intorno, ormai sicuro di essere vicino. L'ospedale è poco più a nord, come nella mappa. C'è troppo buio per scorgere la botola nel terreno, così devo accontentarmi dell'udito. Tasto con il piede, cercando di non tralasciare spazi più ampi di dieci centimetri. Un rumore sordo mi indica di essere sopra la botola. Sollevo la lastra, anch'essa arrugginita, e mi calo nella fila stretta di gradini in ferro. Palpo alla cieca e trovo un interruttore. Due file di neon si accendono gradualmente, illuminando un quadrato dopo l'altro tutto il corridoio.

Arrivo davanti la prima porta. Ci vogliono parecchi calci e spintoni prima che la serratura vecchia si rompa. Caccio la testa dentro, vuota. Ripeto il procedimento per quella dopo e per quella dopo ancora, non tralasciandone nessuna. La quinta ha anche un catenaccio esterno. Non basterebbero tutti i calci del mondo neanche per allentare un solo anello della catena. Sono sudato e stanco e in più tra poco farà anche giorno. Entro in una delle stanza precedenti, sperando di trovare qualcosa con cui tagliare la catena o aprirne il lucchetto. Non ci sono interruttori per la luce all'interno e quindi devo accontentarmi di quella del corridoio. C'è un lettino singolo con un materasso sottile e una struttura in ferro, una sedia in legno e il bastone per le flebo. Sul fondo della stanza c'è invece una scatola in metallo con tutto il necessario per curare una ferita. Afferro le forbici chirurgiche e una pinza e torno a lavorare sul catenaccio. Quando sto per arrendermi, sento scattare la serratura. Estraggo le forbici dalla fessura e apro il lucchetto. Un paio di calci e spallate e anche la porta è aperta.

Identifico subito la donna anche se la stanza è quasi del tutto al buio. L'inconfondibile massa bionda fa capolino dal fondo di questa. Mi sembra abbia spostato lo sguardo nella mia direzione. Mi sembra. Non posso dirlo con certezza da qui. A ogni modo non dice niente. Dalla posizione deve essere ancora incatenata dalle braccia.

«Sei salva, ti porto via da qui» le dico appena le sono abbastanza vicino.

«E tu chi diavolo sei?» sputa fuori lei con tono altezzoso.

Nota dell'autrice: Perdona l'imperdonabile assenza. Ho il computer rotto e a casa non ho internet. -.-''

Già, che sfiga, lasciamo stare. Per pubblicare questo capitolo ho dovuto costringere il mio fidanzato a cedermi il suo portatile e rinunciare alle serietv.

Per farmi perdonare il capitolo è più lungo del solito, pù di 2000 caratteri. Ben oltre i miei standard. Contento?

Ma quindi, commentiamo questo capitolo? Io non sto più nella pelle!

Finalmente Seth ha trovato Astrea.  *_*

A proposito della nostra Astrea, sai che si è aperta un profilo Instagram? Se vuoi aggiungerla la trovi come Astrea_ad_astra, lì parla della sua prigionia.

Adesso scappo, ma prima ti ringrazio di cuore per essere giunto fin qui. Fammi sapere che sei passato con un commento. <3

P.S. stasera sono felice, la bravissama Arianna Colomba mi ha realizzato la copertina di Città Bunker.

A presto, con affetto,

Giuliana.

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