Perché lo fai?
Storia breve per il contest di @Theored_, dedicato alla tematica del bullismo.
Come spunto, sono partita dalla mia storia personale, e ho deciso di scrivere pensieri che mi sono tenuta dentro per molti anni.
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Per la prima volta dopo due anni da quando tutto era cominciato, da quando quel ragazzino aveva deciso che ero il suo puntaspilli preferito, ebbi il coraggio di alzare lo sguardo e guardare negli occhi il mio aguzzino. Erano di un azzurro intenso, ipnotico, come un cielo sereno in piena estate. Anche i suoi lineamenti erano piacevoli, l'avrei potuto definire un bel ragazzo, se non mi avesse picchiato o insultato ogni volta che i professori non erano nei paraggi. Come potevano degli occhi così belli, e un viso così dolce, celare un'anima tanto malevola?
<<Perché lo fai?>> chiesi.
Quella domanda fu per lui forse più inaspettata dello sgambetto che mi aveva riservato pochi minuti prima. Quell'attimo di perplessità rivelò più di quanto Max volesse davvero dirmi. Poi si ricompose, riassumendo il cipiglio aggressivo che riservava solo a me, e rispose: <<Lo faccio perché ti odio>>.
Mi odia. Quelle parole mi spezzarono più dei suoi pugni.
Mi odia. Mi odia? Perché? Cosa posso avergli mai fatto? Non abbiamo mai parlato, non mi conosce davvero, né abbiamo avuto modo di studiare o fare lavori di gruppo insieme. Non usciamo nella stessa compagnia, né gli ho mai arrecato danno in alcun modo. Siamo semplici compagni di classe, come tanti.
Eppure mi odia.
Il senso di inadeguatezza e delusione che ne seguirono furono la cosa più stupida a cui diedi potere. Cosa me ne importava se un bullo di 16 anni mi odiava? D'altronde, non volevo di certo essere sua amica, né davvero volevo averci a che fare in alcun modo. Perché, quindi, l'idea che qualcuno provasse un sentimento così forte nei miei confronti, senza apparente motivo, mi turbava così intimamente?
Saranno stati i miei capelli? Ma erano dei semplici capelli castani, di media lunghezza, lisci, un po' crespi per via degli ormoni adolescenziali... come li hanno circa l'80% delle ragazze italiane.
Sarà stato il mio naso? Un po' troppo grosso per i suoi gusti? O i miei occhi? Ma ho gli occhi marroni, come il 90% delle persone. Odierà, forse, il 90% delle persone? No, non credo.
Allora sarà il mio sorriso, perché ho l'apparecchio! Ma no, che idea stupida... anche lui lo portava.
Il mio mento? I miei zigomi? L'altezza superiore alla media, la postura goffa, l'andamento incerto mentre cammino? Che possono avere di così particolare da poter suscitare odio?
Forse la mia voce? Sì, ho la voce piuttosto fastidiosa, un po' troppo profonda per una ragazza, e resta impressa. Forse è proprio la voce.
Ma sono questi motivi validi per odiare una persona?
Mi scervellai tutta la sera chiusa in camera mia, mentre saltavo l'ennesimo pasto. Quel senso di inadeguatezza mi perseguitava da anni, ed ero arrivata a convincermi che se fossi stata più magra, più attraente, forse non avrei ricevuto quelle attenzioni negative. Perché non piacevo?
L'unica cosa che sapevo, è che quel ragazzo era riuscito a mettermi contro quasi tutta la classe. D'altronde, era un tipo popolare, lui. Figlio di dottori, di signori. Certo, lui non si poteva definire un "signore". Mi chiedevo se i suoi perfetti genitori sapessero che il loro adorato figliolo era bel lontano dall'essere altrettanto perfetto. O magari erano proprio loro a incitarlo a essere "forte", a dimostrare il suo "valore", senza paura di calpestare gli altri. Mi sarebbe piaciuto incontrarli e raccontare loro di quando mi aveva messo all'angolo e sputato in faccia, dicendomi che ero grassa e cessa. O di quella volta che mi aveva rubato lo zaino e aveva gettato via tutti i miei libri nuovi, appena comprati con tanti sacrifici dai miei genitori, e gli appunti delle lezioni, inclusi i miei racconti, le mie storie, la mia passione.
<<Dai su Max, lasciala stare!>> provava a dirgli di tanto in tanto uno dei ragazzi della sua combriccola, un po' più maturo e decisamente meno squilibrato di lui; ma erano tentativi fiacchi, per lo più dettati dal bisogno di sentirsi in pace con sé stessi, più che dalla vera volontà di aiutarmi. E gli altri, invece, ridacchiavano appena, o fingevano di non vedere proprio. La loro indifferenza è la cosa che più fa male anche a distanza di anni. E la cosa buffa di quei giovani virgulti della media borghesia, era che durante le ore di storia, in cui si facevano anche riflessioni di natura etica, chiedendosi, ad esempio, come fosse stato possibile che il nazismo avesse preso piede, o come possano capitare purghe razziali e segregazioni, tutti loro si dimostravano profondamente turbati e increduli, schifati, addirittura.
Cari miei, non dovevate stupirvi poi tanto. È nella natura umana ignorare i segnali dall'allarme per quieto vivere e per mantenere amicizie ritenute più vantaggiose. Dovevate solo alzare il naso dai libri e guardarvi intorno, per vedere l'esempio quotidiano a cui partecipavate voi stessi!
Ma io non ero tipo da farmi mettere i piedi in testa così, nossignore! Mi ero fatta piccola e camminavo a testa china per colpa sua e di tutti gli altri compagni omertosi, ma ero stufa!
Cosa fare? Parlare coi miei? Nah, per loro il bullismo era cosa di poco conto. Esiste, certo, ma cosa vuoi che sia? Basta ignorarli, i tipi così, e poi la smettono! Magari fosse così semplice... ma se uno dice di odiarti, troverà sempre un motivo valido per torchiarti. E poi, dal loro punto di vista, se anche saltavo un pasto o due non era poi una grande tragedia, perché, in fin dei conti, quei chili di troppo che avevo era meglio perderli!
Niente genitori, troppo miopi, troppo ottusi.
I professori, allora? Loro sono colti, e dovrebbero essere sensibili a certi argomenti. Ci ho provato, con uno. Non è andata tanto bene...
<<Forse, se tu fossi più accomodante, più solare e amichevole in classe, non saresti presa così di mira!>>
Ah. Quindi è colpa mia? Certo, un po' come dire che se una gira in minigonna un po' se la cerca! Forse non era ben chiaro, a quell'acuto professore, che il mio umore e il mio atteggiamento erano proprio un sintomo, una conseguenza di ciò che stavo subendo e sopportando da anni?
Per fortuna di professori ce n'erano tanti, e io non sono il tipo che si arrende, giammai!
E la volta seguente, quest'altro professore mi credette, e per i primi due giorni osservò l'atteggiamento del bullo nei miei confronti quando credeva di non essere visto. Compresa la dinamica e verificata la verità, lo prese da parte insieme ai suoi facoltosi genitori.
<<Ah, che merda, fai pure la spia! Questa me la paghi, contaci! Tanto i miei genitori non ci credono!>> mi dicesti. Però cambiasti. Forse la paura di un brutto voto in condotta servì da deterrente, dopotutto. O forse i tuoi genitori, in fin dei conti, un po' ci credettero a quelle storie.
Ciò di cui sono certa, era che non provasti mai rimorso, mai ti sentisti in colpa, per ciò che mi avevi fatto, e che ancora a distanza di anni a volte mi turba e mi fa chiedere a che età un individuo debba assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
"Sono ragazzate!" o "Ma sì da giovani si fanno cazzate! Robe di poco conto!" sono frasi che una vittima di bullismo odia sentirsi dire, perché in quel momento, mentre le vive sulla propria pelle, quelle ragazzate di poco conto ti rovinano la vita. E a volte ti fanno decidere di porci fine, anche.
Mi sono chiesta per molti anni che tipo di uomo tu sia diventato, come ti comporti ora. Mi chiedo se tu abbia trovato l'amore e un po' di pace in quei turbamenti che devono averti spinto a comportarti in quel modo. Ma forse non avevi motivi validi, forse era solo un sadico passatempo, per te. A volte è pericoloso cercare una motivazione logica dietro certi comportamenti, è masochismo. A volte, la cosa migliore è passare oltre, dimenticare.
Perciò a inizio anno scolastico sono rimasta piuttosto stupita nello scorrere l'elenco dei nomi dei miei nuovi allievi di prima superiore al liceo, e leggere il tuo cognome. Un tuffo al cuore che ha risvegliato sensazioni negative che non provavo da anni. Ho alzato lo sguardo e ho visto un ragazzino biondo, con quegli occhi azzurro cielo che tanto orribilmente ricordavo, alzare la mano timidamente in segno di presenza. Saresti potuto essere tu, non fosse stato per l'espressione impaurita e preoccupata, al contrario di quella che avevi sul tuo volto alla sua stessa età.
Ho proseguito con l'appello senza darci peso, curiosa, però, di vedere come quel frutto del tuo seme si sarebbe dimostrato. Davvero strano che tanto l'aspetto sia simile, quanto la personalità differente. Non hai nulla in comune con tuo figlio, se non quei bellissimi occhi azzurri e i dolci lineamenti del viso, che su di lui sembrano cento volte più belli.
E capirai che sono rimasta ancora più sorpresa quando, stamattina, tuo figlio è venuto da me in lacrime, scosso e turbato, per confidarmi di essere vittima di bullismo da parte di un suo compagno. Per quanto volessi farti comprendere ciò che mi avevi fatto, per quanto volessi farti conoscere il mio dolore, mai avrei desiderato che un innocente, un ragazzo dolce e puro come è tuo figlio, subisse ciò che ho subito io da qualcuno di simile a te.
<<Ne hai già parlato con i tuoi genitori?>> gli ho chiesto.
Lui ha annuito, e mestamente ha aggiunto <<Mio padre dice che non devo farci caso, che sono sciocchezze e che passerà. Ma io ho paura, non sto bene.>>
E ci credo. La conosco bene, quella sensazione di stretta allo stomaco, di paralisi e apnea. Ti perseguita per anni, non finisce mai davvero. Anche da professoressa, tornata al nostro liceo per insegnare, ci ho messo mesi prima di riuscire a camminare a testa alta e riuscire a respirare a pieni polmoni.
Ecco, quindi, perché sei qui, ora, di fronte a me per un incontro privato che io ti ho chiesto per parlarti della situazione di terrore in cui vive tuo figlio, e tu mi guardi e nemmeno mi riconosci.
Sei diventato qualcuno, sembrerebbe. Sei anche tu un signore, un dottore in giaccia e cravatta, o che so io. Ma l'umanità non si acquista, e tu ne sei l'esempio. Mi guardi dall'alto al basso, un po' preoccupato per tuo figlio, un po' imbarazzato che si sia arrivati addirittura ad un colloquio privato per quella che tu definisci "una sciocchezza".
Mi guardi e ancora non mi vedi davvero, e non capisci che io, qui, ora, sono la persona che tuo figlio ha ritenuto la più affidabile per confidare il suo fardello; sono la persona che lo può aiutare; sono la persona che lo salverà dal suo personale inferno quotidiano e, forse, gli darà di nuovo speranza nel futuro, nella vita.
Miope e ottuso quanto sei, ora, mentre tuo figlio ti racconta tutto ciò che sta subendo dal suo bullo, tutte le cose che non è riuscito a dirti a casa, ti scomponi sulla sedia, incredulo, e ti lisci la cravatta dal nervoso; e finalmente orripilato e allarmato per la situazione di tuo figlio, vieni sfiorato da un barlume di lucidità, guadi me e mi chiedi <<Perché quel ragazzo lo fa?>>
Non avrei voluto farmi sfuggire un amaro sorriso, ma non ho potuto evitarlo.
<<Mi odia.>> ti risponde subito tuo figlio in pena. E tu lo rimproveri <<Non essere sciocco! Perché mai un ragazzino dovrebbe odiarti?! Cosa puoi avergli fatto!? È lui il problema!>>
Hai ragione. È lui il problema. Sei tu il problema. Sono dovuti passare vent'anni perché te ne rendessi conto, ma meglio tardi che mai, si dice, no?
<<Signore, suo figlio sta vivendo un periodo molto difficile e delicato. Ora più che mai ha bisogno del suo sostegno come padre. Per quanto riguarda il bullo, ci penserò io. Del resto, sa, ho una certa esperienza nel gestire bulli... E ho deciso di diventare professoressa proprio per migliorare le cose, ed evitare che altri ragazzini, come me o suo figlio, subiscano certi soprusi. E suo figlio è stato molto coraggioso a riferirmi tutto.>>
Ti guardo dritto negli occhi mentre ti parlo, e finalmente mi vedi. Ma non reggi più il mio sguardo ora, e abbassi la testa. Fai un cenno di assenso col capo senza sapere cos'altro dirmi, ma ora sei tu a camminare piccolo e gobbo mentre ti allontani da me.
Ora capisci?
Perché lo fai?
Perché lo hai fatto?
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