Martedì 23 luglio 2000
Dopo la vacanza finita malissimo, avevo capito che dovevo decisamente cambiare giro, pena la mia totale macerazione. Durante il precedente maggio avevamo giocato qualche volta a beach volley con Debby Tosato, ma Valeria si era stufata presto perché la Tosato era tutto tranne che accomodante.
Quando mi aveva mandato un messaggio per giocare contro dei suoi amici maschi mi ero chiesta chi glielo facesse fare. Ma in fondo era un modo per svagarsi e ci ero andata. Tuttavia con Debby Tosato le parole "svagarsi" e "sport" nella stessa frase non potevano starci.
Avevamo giocato assieme un paio di anni ai tempi della squadra di pallavolo, ed era impossibile dimenticarsela, perché quando scendeva in campo pareva essere stata morsa da uno scorpione. Io me la ricordavo correre come una pallina da flipper, sbattere contro i muri, persino montare sulle compagne in panchina pur di salvare un pallone, per poi smoccolare come un camionista moldavo.
Non era cambiata: per lei vincere era sempre questione di vita o di morte. Ma con la Torricelli in squadra era una passeggiata di salute, quasi non doveva arrabbiarsi. La Torricelli era pallavolista genetica, giocava con una fluidità disarmante e, soprattutto, si lasciava scivolare addosso le sue sfuriate. Quando finivamo di giocare, rotolavamo in spiaggia a fare il bagno, infine Debby ci portava in uno stabilimento minuscolo a ridosso del canale, gestito da una famiglia che lasciava il figlio minore, Filippo, a fare il bagnino.
Filippo. Era talmente buono, talmente zerbino, che era completamente succube della Tosato. Lei lo trattava di conseguenza, rimediando bevande e ghiaccioli gratis. Dal primo momento in cui ci vedemmo, aveva fatto piccoli accenni di battute per attirare la mia attenzione. Il suo destino era assai crudele: lo stabilimento dei suoi genitori era zeppo di vecchi, e lui lo sorvegliava da mattina a sera dedicandoci ogni stilla di energia. In un giorno qualsiasi dell'estate, nel mentre in cui gustavamo un ghiacciolo, lui veniva richiamato almeno un paio di volte dal padre che lo mandava a buttare l'immondizia del bar e a cambiare i sacchi del pattume della spiaggia.
Mi aveva fatto pena, ed avevo risposto ai suoi timidi segnali. Il fatto che anche lui fosse così male in arnese con i genitori e la vita, mi aveva fatta sentire pronta di dargli una possibilità.
Ci eravamo messi insieme a ferragosto, e da quel momento per lui, me ne rendo conto, era stata una agonia, lenta.
Convinta di fare il suo bene, avevo cercato in tutti i modi di metterlo contro i suoi, di staccarlo dal grembo genitoriale. Insistendo al punto di imporgli delle scelte a volte persino eccessive, comandandolo a bacchetta, trattandolo male quando mostrava segni di debolezza.
«Passi tutta l'estate a sgobbare come uno schiavo e poi non puoi nemmeno andare a un concerto una volta all'anno? Ribellati Filo! Ma non sei Kunta Kinte!» gli avevo abbaiato contro una volta, per un concerto a cui volevo mi accompagnasse.
«Stare fuori una notte non è semplice su, beata te se non ti dicono niente»
«Senti, se non mi ci porti tu, mi ci porta qualcun altro, ok?»
Lo terrorizzavo con situazioni del genere, e lui a casa faceva le cose di semi-nascosto. So che i suoi mi odiavano, ma non me ne fregava nulla, volevo che non fosse succube.
O meglio, volevo che non fosse succube dei suoi. Se finiva per essere mio succube, ai miei occhi non era così grave.
Per il suo compleanno, il sei maggio, delusa dal fatto che non potesse passare una mezza giornata con me perchè cadeva di domenica, sbottai:
«Cazzo Filo, hai battuto Michelangelo! Lui ha fatto la Pietà a ventiquattro anni, tu la fai già tutti i giorni a diciannove!»
Inutile dire che stavo sfogando in parte anche i miei problemi familiari e personali, e tutto quello che volete. Non gli presi nemmeno un regalo, litigammo. O meglio, io urlai e lui disse che ero ingiusta.
Poco dopo, esasperato, mi lasciò per messaggio.
SCUSA STEFANIA NON CE LA FACCIO TI LASCIO
Cercai di tampinarlo, di fargli cambiare idea. Lui fuggiva e io mi mettevo davanti a lui, lui guardava altrove. Ero patetica. Ma quando suo padre si presentò alla porta di mia madre, passammo dal patetico allo spiacevole.
«Sarò breve, signora. Filippo e Stefania si sono lasciati, questo spero che sua figlia gliel'abbia detto.»
«Oh, si. Si si» aveva abbozzato mia mamma.
«Bene, penso che Stefania debba metterci una pietra sopra. Di conseguenza le chiedo di far desistere sua figlia nel seguire e chiamare mio figlio» passò lo sguardo prima su di me, che guardavo da dietro, colpevole, poi su mia madre, «o vado dai vigili.»
Lei mi aveva fulminato con gli occhi, e poi era esplosa in un fiume di improperi sulla mia incapacità di crescere e sulla mia stupidità a cercare di tenere stretto un uomo che non mi desiderava perché questo porta solo guai.
«Lo so benissimo, sulla mia pelle, mamma» le avevo risposto.
Costretta a mettere una pietra sopra, successivamente avevo lungamente pensato a quella storia. Non ritenevo la mia una dipendenza sentimentale, anche se ne aveva le sembianze. Povero Filippo, avevo cercato di manipolarlo, di cambiarlo, di non trovarmi di nuovo davanti qualcuno che scegliesse gli obblighi familiari alla libertà sentimentale. E avevo miseramente fallito.
Ci ero rimasta veramente male, ma più passavano i giorni, più mi rendevo conto che non stavo così per la separazione, quanto per me che non avevo capito come mi dovevo comportare. Non potevo pensare sempre e solo a me, perchè quell'atteggiamento creava solo guai.
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