79.
Alla fine anche quella giornata interminabile era passata, fra lezioni mal seguite e chiacchiere a vuoto senza un costrutto con Sandra e le altre. Soltanto andare in palestra ad allenarmi un po' aveva avuto la meglio sui pensieri ossessivi che continuavano a vorticare nella mia mente da quando mi era arrivato il messaggio di Matthew. Anche la faccenda degli schemi rubati, dall'istante in cui i miei occhi si erano posati su quelle parole, era stata relegata in qualche angolo recondito della mia mente, annebbiata dall'ombra di quella paura senza nome che più di una volta, nei giorni precedenti, mi aveva stretto il cuore in una morsa.
Un'auto passò per la strada che fiancheggiava la Residenza e la luce dei suoi fari corse sul muro della mia camera risvegliandomi dallo stato di trance in cui ero caduta. Da quanto ero stesa a letto a fissare il soffitto, in attesa del messaggio con cui Matthew mi avrebbe avvisata di essere arrivato? Guardai l'ora, le nove passate. Possibile che fosse ancora in viaggio? E se gli era successo qualcosa? Mi alzai, ritenendo che era tempo di smettere di aspettare e che avrei fatto meglio ad andare di persona a sentire quando sarebbe arrivato. Forse Jude era più informato di me. Questa possibilità mi disturbava, ma non era certo il momento di fare la schizzinosa o manifestare qualsivoglia disappunto, la cosa importante era ottenere qualche notizia.
Non sprecai tanto tempo a prepararmi, non ne avevo voglia. Indossai jeans e una maglia rossa di Valentino che mi donava in particolare modo, controllai allo specchio che la coda alta con cui avevo pettinato i capelli fosse ancora in ordine, misi il cellulare nella borsa e uscii.
In seguito ci ripensai tante volte, ma del tragitto dalla Cheers Hall a casa di Matthew non mi rimase impresso nulla. Mi trovai davanti all'uscio del suo appartamento senza sapere come ci ero arrivata.
Rimasi lì ben più di un minuto, incerta sul a farsi, poi mi resi conto di come dovevo apparire stupida, imbambolata davanti a una porta chiusa. Feci un profondo respiro e suonai il campanello. Quando udii il chiavistello ruotare, istintivamente trattenni il fiato e mi appoggiai con la mano al muro, come se potesse infondermi un po' di coraggio. Mi sentivo patetica, ridotta come una questuante a elemosinare un po' di attenzione.
Infine la porta si aprì e mi trovai di fronte Jude che, con aria piuttosto perplessa, mi stava scrutando mentre sgranocchiava un cracker. Lo vidi aggrottare la fronte, come se un pensiero molesto fosse passato per la sua testa riempiendogliela di punti di domanda al solo vedermi.
Non feci in tempo ad aprire bocca, che lui aprì del tutto la porta e, sempre senza dire una parola, si scansò per farmi passare. Io mi sentivo un po' frastornata, non stavo capendo nulla. Feci un passo all'interno dell'appartamento senza staccargli gli occhi di dosso, così colsi l'attimo in cui, con un movimento appena accennato, lui mosse la testa per indicare la direzione delle camere.
Il mio cuore perse un battito. Mi fermai di botto e aggrottai la fronte.
"È nella sua stanza", disse a bassa voce. Sembrava quasi che si vergognasse di ammettere che Matthew fosse già arrivato.
"Quando...?" chiesi in un soffio, senza riuscire a porre la domanda per esteso.
"Da un po'", rispose. "Vai", disse indicando di nuovo il corridoio.
A passi incerti mi incamminai, schiacciata dalla consapevolezza che Matthew non mi aveva avvisata quando era rientrato a casa.
"Io esco." Le parole di Jude mi colsero alla sprovvista, ma non feci neppure il gesto di girarmi o rispondere, troppo concentrata nella difficile impresa di mettere un piede davanti all'altro.
Dopo pochi secondi il rumore dell'uscio che si chiudeva mi raggiunse e un improvviso senso di solitudine e di abbandono mi colse. Mi fermai un attimo a riflettere. Ero arrivata lì per avere notizie, sempre comunque certa di essere gradita. Anzi, desiderata. Invece no, Matthew era tornato e non aveva sentito l'esigenza di farmelo sapere. E con questa consapevolezza avrei bussato alla sua porta. Come mi avrebbe accolta?
Il corridoio semi-buio era l'ultimo tratto di strada che mi separava da lui e dal sapere il perché di tante cose. Mi fermai davanti alla porta della sua camera con il cuore che batteva all'impazzata. Quando, esattamente, avevo perso il controllo di me stessa ed ero diventata una stupida ragazzetta in balìa dei propri sentimenti?
Dall'interno giungevano rumori di passi, cassetti e ante che si aprivano e chiudevano. Bussai lievemente ma non ottenni risposta. Reputando di avere annunciato la mia presenza, aprii la porta ed entrai.
Sul letto vidi una valigia quasi piena e, di fianco a essa, un paio di pile ordinate di vestiario. Di fronte alla finestra, di spalle, c'era Matthew che stava guardando fuori il buio della notte. La schiena irrigidita e le mani strette a pugno mi diedero la conferma che c'era qualcosa che non era andata per il verso giusto, durante la visita alla sua famiglia. Una sensazione di panico fuori controllo che non avevo mai provato prima mi attanagliò le viscere. Dovevo fare qualcosa o sarei impazzita.
Mi avvicinai e gli sfiorai la schiena con una lieve carezza. "Bentornato", sussurrai. Lo vidi trasalire e irrigidirsi, se possibile, ancora di più. Mi ricordò la notte a casa di Mrs Gray, quando per la prima volta avevo visto le sue cicatrici e le avevo incautamente sfiorate. Come quella notte non reagì subito, lo vidi inspirare profondamente e abbassare la testa. Le mani sbiancarono, da quanto le stava stringendo.
Nel vedere quella reazione mi sentii ferita al cuore. Non mi voleva lì. Non mi aveva avvisata di essere di nuovo a casa, né in quel momento stava manifestando desiderio di rivedermi. Feci un passo indietro, dovevo avere un po' di distanza per recuperare almeno una parvenza di serenità.
Alla fine si voltò e mi fissò, facendo sprofondare le mani nelle tasche.
"Perché sei qui?" chiese, freddo e distante. Non sembrava lo stesso Matthew che era partito quella mattina.
"Ero venuta a chiedere a Jude se sapeva a che ora saresti arrivato", spiegai sottovoce. "Non era mia intenzione disturbarti o essere invadente... se vuoi stare solo io vado, magari ci vediamo domani... o quando vuoi." Mi sentivo così patetica a usare quel tono che mi sarei presa a calci, ma non potevo farci niente. Stavo quasi male fisicamente, da quanto mi sentivo fuori posto e in ansia per ciò che avrebbe potuto dire.
"Domani sarà troppo tardi", disse lui a voce bassissima, tanto che quelle parole dovetti quasi indovinarle. "Sto partendo".
Deglutii a vuoto. La sensazione di panico ormai si stava allargando e aveva quasi raggiunto ogni fibra del mio essere. Mi appoggiai a una poltroncina per non cadere a terra.
"Posso chiederti dove...?"
"No" replicò secco. "Non puoi".
Alzai gli occhi per guardarlo, per la prima volta da quando ero entrata in camera.
Il lampadario era spento, e la luce che illuminava fiocamente la scena arrivava appena a farmi distinguere i lineamenti di Matthew, ma non abbastanza da nasconderli. Il viso era immobile, inespressivo. Lasciai scorrere il mio sguardo su ogni particolare, dalla mandibola decisa alla bocca sensuale, dagli zigomi alla fronte. Stavo cercando di imprimermi nella memoria ogni particolare di quel volto, perché dalle sue parole avevo capito che non ci sarebbe stata un'altra occasione. Con un sforzo estremo trattenni le lacrime e lo guardai negli occhi.
Rimasi sorpresa. Quelli no, non erano indifferenti. Leggevo dentro una disperazione almeno uguale alla mia. Le lacrime lottarono per trovare una strada per uscire, ma nuovamente le ricacciai indietro e gli chiesi, senza distogliere lo sguardo: "È per qualcosa che ho detto o fatto?" riuscii a dire.
Sbatté le palpebre e serrò le labbra, come se non si aspettasse quella domanda, poi si voltò di scatto e andò a sedersi sul letto, il capo fra le mani. La freddezza che aveva manifestato fino a pochi istanti prima si era sgretolata come un castello di sabbia assalito dalle onde del mare. Avrei voluto sedermi di fianco a lui e abbracciarlo per alleviargli la pena che stava così palesemente provando, ma non ero in grado di muovermi, io stessa ancora schiacciata dalle parole che aveva pronunciato.
Nella stanza calò un silenzio pesante, interrotto solo dai nostri respiri. Ascoltai il suo e mi venne il dubbio che stesse piangendo. Sentii un male fisico all'altezza del petto, per essere lì e non poter fare niente.
Lo vidi affondare le mani fra i capelli e respirare a fondo, come se volesse ricomporsi.
"Mio nonno ha accettato di ritirare la candidatura al senato", sussurrò "e l'ho convinto a lasciare in pace tuo padre".
Sussultai. Questa era una bella notizia, perché dunque si stava comportando così? Presi il coraggio a quattro mani e mi avvicinai a lui in silenzio, per potergli accarezzare una spalla. Al mio tocco sussultò e si alzò di scatto in piedi, allontanandosi. La mia mano ricadde inerte lungo il mio fianco e, a quel rifiuto, non fui in grado di trattenere una lacrima.
"Perché fai così?" mi lasciai sfuggire. "Per favore, dimmi se ti ho fatto qualcosa. Non capisco..." iniziai a torcermi le mani, come ogni volta in cui una cosa troppo grande di me minacciava di stritolarmi. Di Anna Walker, in quel momento, non c'era che una pallida ombra.
Gli sfuggì una risata amara. Si passò le mani sul viso, come per liberare la mente da chissà che pensieri. Poi si voltò di nuovo verso la finestra, dandomi le spalle.
"Non sei tu. Sono io quello sbagliato, quello che non avrebbe dovuto incrociare la sua strada con la tua..." disse infine con un filo di voce. "Ho incontrato i genitori di Philip. Mi hanno parlato della sua sorella minore, di come da quando lui non c'è più si sta lasciando andare. Mi hanno dato una lettera". Lo vidi mettere una mano in tasca e tirare fuori un foglio tutto sgualcito. Lo strinse nella mano fino quasi a piantarsi le unghie nei palmi. Si voltò verso di me e cercò i miei occhi. Trasalii. I suoi erano colmi di lacrime non versate. Con voce spezzata continuò nella sua spiegazione. "Philip mi aveva scritto, capisci? Prima dell'incidente. Aveva deciso di andarsene per inseguire i suoi sogni e perché non riusciva ad accettare che noi gli avessimo voltato le spalle... qui mi chiede di badare a sua sorella quando lui sarà lontano, perché lei si appoggia in tutto e per tutto a lui... solo che poi ci fu l'incidente, lui morì a causa mia e questa lettera non saltò fuori... non fino a pochi giorni fa. E loro, ora, mi chiedono di onorare la richiesta di Philip... e io..." si interruppe, deglutì e si passò una mano sugli occhi per togliere le lacrime "...io come posso rifiutarmi, se sono stato la causa indiretta di quel maledetto incidente? Come posso farlo?" terminò in un soffio, lasciando cadere le mani lungo i fianchi. Frugò nei miei occhi per cercare, forse, qualche conferma. Io respiravo appena, sentivo la sua disperazione e la sua sensazione di sconfitta come se fossero mie.
"Non ti potrei mai chiedere una cosa del genere", mi sentii rispondere. Da dove mi fossero arrivate quelle parole non sarei stata in grado di saperlo perché non le avevo pensate, ma nel momento in cui le udii, capii che erano le uniche giuste. Chi ero io per distoglierlo da questo impegno?
"Devo tornare ad Harvard. Solo così potrò fare ciò che voleva Philip". Scosse la testa "Ma non era così che dovevano andare le cose..." si mosse lentamente e mi arrivò di fronte. Alzò un dito e seguì il contorno del mio viso come se volesse imprimerselo nella memoria. "Perdonami, se puoi", sussurrò e sfiorò le mie labbra con le sue. Io ero impietrita, il cuore a pezzi e una voce dentro di me che gridava tutta la mia disperazione.
Al rallentatore lo vidi staccarsi da me, andare a mettere due cose nella valigia, chiuderla e uscire dalla camera. Ero rimasta sola. Come un automa, svuotato da ogni sentimento, mi diressi verso il letto e mi sedetti sul bordo. Rimasi lì, immobile, con le braccia avvolte intorno al mio busto, mentre tutte le lacrime che non avevo versato prima iniziavano a cadere come una cascata senza fine.
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