I: Presentazioni
Fermo in piedi sul marciapiede, Keiji Akaashi aspettava pazientemente che l'autobus passasse a prenderlo. La fredda e fioca luce che spuntava dalla nebbia in quel curioso giorno di metà Aprile accompagnava la leggera brezza che sfiorava piacevolmente i capelli neri inchiostro del ragazzo.
Quest'ultimo fissava a terra, guardava il cielo, si osservava intorno, ma dovunque posasse gli occhi, la sua mente rimaneva salda lì dov'era, infestata dai fantasmi di un prossimo futuro.
Era tipico suo avere ansie e paranoie, anche per le cose più insignificanti, e spesso questo lo portava a rovinarsi da solo momenti di gioia e spensieratezza; quella mattina era esattamente in questa situazione. Era infatti il suo primo giorno alle scuole superiori e, oltre alle solite paure che ogni studente avrebbe al suo posto, si sentiva una sensazione strana nel petto, come il presentimento che qualcosa di importante sarebbe successo da lì a breve; il problema era capire se questo qualcosa fosse positivo o negativo, e, conoscendo Keiji, anche se poco, possiamo dedurre che avesse sicuramente pensato al peggio.
Quando finalmente l'autobus arrivò, il ragazzo non esitò un attimo a salirvi sopra. Si sedette in uno dei posti tra il centro e la testa del trasporto, a sinistra, vicino al finestrino. Si infilò gli auricolari nelle orecchie e si mise a guardare la città che scorreva al di là del vetro, ossessivamente, senza che lui potesse in qualche modo fermarla. Cercava risposte nelle nuvole, negli alberi, negli sguardi dei passanti, risposte a domande che non riusciva neanche a formulare.
Fece partire una canzone dal suo mp3 e alzò il volume al massimo, così che la musica potesse sovrastare il rumore frastornante dei suoi pensieri, ma i due suoni finirono per omologarsi in uno solo man mano che andavano diffondendosi, e Keiji si ritrovò al punto di partenza. Se nemmeno "The one that got away" di Katy Perry aveva funzionato, cos'altro mai avrebbe potuto farlo? Dopotutto, era la sua canzone preferita.
L'arrivo dell'autobus a destinazione rappresentò al tempo stesso una benedizione e una condanna per il ragazzo; sì, avrebbe finalmente smesso di pensare così tanto, ma sarebbe andato incontro a ciò per cui aveva talmente tanta ansia che non era neanche riuscito a dormire.
Scese dal mezzo aggiustandosi lo zaino sulle spalle e strinse la presa sugli spallacci cercando di raccogliere tutta la disinvoltura e sicurezza che non aveva mai avuto.
L'immenso edificio dell'accademia Fukurodani si ergeva di fronte a lui, imponente, ma in qualche modo familiare, come se volesse accoglierlo a braccia aperte.
Tuttavia, che fosse nell'ingresso, nei corridoi che conducevano alla sua classe o seduto al primo banco che aveva trovato disponibile, Keiji si sentiva milioni di occhi addosso, il mondo intero sulla schiena, così pressato che avrebbe potuto sfondare il pavimento da un momento all'altro, anche se avesse tentato con tutto sé stesso di evitarlo; ora capiva fin troppo bene come si sentiva Atlante, e pensò che avrebbe preferito rimanere nell'ignoranza.
Per sua grande fortuna le lezioni scorsero piuttosto velocemente, e l'unica esperienza negativa di quella mattinata fu il doversi presentare di fronte alla classe, dire le solite tre o quattro informazioni su di sé che nessuno si sarebbe mai ricordato. Perfino i suoi compagni e professori gli risultarono piacevoli, e si stava già iniziando ad abituare alle fattezze dell'edificio.
Eppure quella sensazione d'inquietudine che lo tormentava insistente continuava a persistere; ogni volta che il ragazzo si illudeva di riuscire a godersi la giornata in tranquillità, ombre del passato e fantasmi del futuro arrivavano puntualmente a rovinare tutto, opprimendolo e impedendogli di ragionare lucidamente.
Keiji salutò con la mano dei suoi compagni che uscivano in gruppo dalla classe e finì di preparare lo zaino per tornare a casa. Non vedeva l'ora di rintanarsi in camera sua tra le coperte calde a leggere, sognare, magari anche con del tè; ma si ricordò dei club pomeridiani, e del fatto che sarebbe dovuto andare a quello di pallavolo. Onestamente, l'ultima cosa di cui aveva voglia in quel momento era fare attività fisica, ma si era preso un impegno, e aveva scelto quella scuola essenzialmente per la sua squadra di pallavolo, perciò, rassegnato, si incamminò verso la palestra.
Non sapeva minimamente dove dovesse andare e chiese indicazioni ad una professoressa, che aveva confuso la destra con la sinistra e per poco l'avrebbe fatto finire in vicepresidenza.
Arrivato a destinazione con qualche minuto di ritardo, si fiondò nello spogliatoio dei ragazzi, ormai vuoto, e uscì più velocemente che poté.
Trovò i suoi compagni di squadra raggruppati al centro della stanza a parlare, uno di loro li stava abbracciando tutti, uno per uno, come fossero la cosa più importante al mondo. Aveva un aspetto strano, che non passava certo inosservato: aveva i capelli bianchi sparati all'insù con qualche piccola ciocca nera qua e là, una corporatura piuttosto atletica e dei grandi ed entusiasti occhi dorati. Keiji lo conosceva: era quel numero 12 della partita dell'anno prima. Per lui non era cambiato neanche di una virgola: il buon umore e la speranza che ispirava erano come aria fresca primaverile. E come se quella stessa brezza avesse spazzato via tutti i suoi pensieri come fossero foglie, il ragazzo si sentì più leggero, libero, così tanto da poter quasi volare. La sua attenzione era di nuovo interamente rivolta a lui, come fosse l'unico ad esistere nell'intera stanza, ed era così incantato che rischiò di non sentire la voce del loro allenatore, che lo svegliò dal suo stato di trance e segnò l'inizio della lezione.
Si girarono tutti verso l'adulto, che ringraziò di essere tornati i ragazzi che c'erano gia l'anno precedente, e diede il benvenuto ai nuovi arrivati, che fossero o meno primini. L'allenatore chiese a tutti di presentarsi uno ad uno, così che la squadra potesse iniziare a conoscersi meglio. A Keiji l'idea non piaceva affatto, ma si rassegnò e fu tra i primi a presentarsi, per togliersi di mezzo anche quel peso: l'ennesima presentazione che non sarebbe stata utile a nessuno.
Arrivato il suo turno parlò così: «Sono Akaashi Keiji, dalla scuola media Mori. Giocavo come alzatore. Lieto di fare la vostra conoscenza.» All'ultima frase si esibì in un piccolo inchino di cortesia.
Alla parola "alzatore", Kōtarō, il ragazzo col numero 12 dell'anno precedente, ebbe un sussulto e si sporse in avanti come volesse assicurarsi di aver sentito bene. Lui giocava come schiacciatore, e avere un nuovo alzatore in squadra significava potersi allenare di più e giocare meglio.
Alla fine dell'allenamento, costituito più che altro da riscaldamenti ed esercizi propedeutici a quello che avrebbero fatto nelle volte successive, i ragazzi si misero a pulire la palestra e Kōtarō si diresse immediatamente da Keiji, intento a passare la scopa sul pavimento. «Hey, um... Akashi.» lo chiamò.
«Mi chiamo Akaashi» lo corresse lui. Dentro di lui stava processando ciò che stava accadendo: quello davanti a lui era proprio Bokuto Kōtarō, uno tra i cinque schiacciatori liceali più forti del Giappone, nonché sostanzialmente il motivo per cui aveva scelto di frequentare quella scuola; era stata la prima scelta che aveva fatto seguendo solo ed esclusivamente il suo istinto, invece che la sua ragione.
«Ecco... Potresti aiutarmi con le schiacciate, solo per un po'?» gli chiese poi, impacciato, quasi nervoso, ma eccitato come non mai; Keiji non pensava che quel ragazzo avrebbe potuto in qualche modo mostrare insicurezza.
Alla sua domanda, il più giovane rispose senza esitare un istante, seconda decisione presa solo con il suo istinto: «Certo.»
Allora forse le presentazioni a qualcosa servivano.
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