REPORT 00200 - Encounter
Hey you!
Standing in the aisles
With itchy feet and fading smiles
can you feel me?
Nel tempo che impiegò per finire l'acqua calda, il cielo aveva concluso il suo umido assalto e timidi raggi di sole avevano iniziato a farsi largo attraverso le nubi. Ma il brutto tempo non sembrava volersi ancora ritirare del tutto.
Jane sospirò; aveva sistemato a fianco a sé la valigia pronta, riempita di cose che neanche sapeva se le sarebbero servite. Qualche cambio d'abiti, spazzolino e un paio di asciugamani. Non aveva altro da portarsi, e la realizzazione di non possedere niente di significativo o importante fu un'altra pietra di disagio che andò a pesarle sullo stomaco.
Sentì l'ansia agitarsi dentro di lei quando vide una grossa Range Rover accostarsi al marciapiede su cui stava attendendo. Adocchiò l'orologio che portava al polso; erano le tre in punto.
La macchina si fermò con un leggero stridio di freni e subito dopo il motore si quietò. Una delle portiere dai finestrini oscurati si aprì e ne uscì un ragazzo.
Fece scorrere gli occhi su di lui, soffermandosi sul suo fisico atletico, e poi più su, lì dove una chioma bionda e mossa si appoggiava in modo scompigliato su delle ampie spalle. Il suo sguardo di un celeste quasi abbagliante si spostò su di lei, e Jane fu costretta a distogliere l'attenzione prima che potesse rendersi conto che lo stavo fissando.
Jane pensò che forse era suo coetaneo, ma non aveva la più pallida idea di chi fosse. Un Operativo? Un semplice autista?
"Jane?" La sua voce la strappò dal treno di pensieri che si stava dirigendo nella vicina e familiare terra dello stress. Lei annuì appena, il nodo alla gola le avrebbe comunque impedito di tirare fuori qualcosa di comprensibile.
Voltandosi, lanciò un'ultima occhiata alla casa, dandosi della sciocca subito dopo: non doveva comportarsi come se non sarebbe più tornata, quel cambiamento era solo temporaneo. Doveva esserlo.
Poi salì in macchina, lasciando che lui si occupasse di caricare con un sorriso gentile la valigia nel bagagliaio. Jane non riuscì a darci peso, o vedere quel gesto come un qualcosa di positivo, quando era solo un altro passo che l'avrebbe allontanata dalla stabilità che aveva faticato tanto per ottenere.
Rimase in silenzio mentre lo sconosciuto al posto del guidatore faceva ripartire la macchina. Tenne gli occhi bassi, non volendo vedere la propria casa allontanarsi e diventare un puntino insignificante in lontananza.
Jane era grata del fatto che lui non le stesse prestando troppa attenzione, in quel caso preferiva la quiete alle vuote parole di un estraneo. Per di più aveva bisogno di raggruppare i pensieri, tra una cosa e l'altra non aveva avuto il tempo di avvisare sua madre di quell'improvviso trasferimento. Non che se ne sarebbe accorta, ma non era comunque giusto tenerla all'oscuro, anche se una notizia del genere avrebbe potuto farla preoccupare.
Fece scorrere le dita sul bordo liscio del cellulare, sentendo crescere dentro di lei il bisogno di essere in qualche modo rassicurata.
"Tutto bene?" Quasi a rispondere alla sua inespressa necessità, la sua voce la riportò alla realtà. Aprì gli occhi e si voltò verso di lui. La propria attenzione si fissò sulle sue mani e Jane si accorse in quell'istante di star grattando con forza il polso destro. La pelle si era arrossata intorno al sottile segno nero che la rendeva idonea a lavorare per l'AIS.
"Sì," borbottò a mezza voce, infilando le dita tra le cosce e il sedile per impedirsi di continuare a tormentarsi. Era stata un'azione istintiva, ma solo ora si rendeva conto del continuo formicolio che tormentava i suoi Marchi.
"Tieni," disse lui, porgendole quello che sembrava un cristallo opaco.
Lei lo fissò con scetticismo per un po' prima di chiedere: "Cos'è?"
"Abissalite. Dovrebbe toglierti il fastidio se te la sfreghi un po' sui Marchi," le rispose con un leggero sorriso.
"Ah, grazie." Dubbiosa, la prese, sentendone la texture insolita. Non l'avrebbe mai ammesso, ma spese diversi minuti girandosela tra le mani, cercando di capire da dove provenisse invece quella strana sensazione di avere del velluto che le scivolava tra le dita. Non poco intimorita da quel materiale di cui non conosceva nulla, la passò con esitazione sui polsi arrossati.
Trasse un mezzo sospiro di sollievo quando lo fece: era come gettare dell'acqua fresca sulla pelle scottata dal sole, e il prurito svanì quasi del tutto. "Grazie," ripeté con molta più convinzione; il suo umore era un poco migliorato, non si era accorta di quanto il disagio fisico l'avesse infastidita. Se non per il fatto che ora era in parte certa che la persona seduta accanto a lei fosse un Operativo.
Non saranno di certo gli individui più civili che tu possa incontrare, ma di certo non sono dei cavernicoli.
In un attimo di panico, Jane lanciò un'occhiata al polso del conducente sul volante nel momento in cui lo girò per imboccare una curva. La manica della camicia nera si spostò appena, permettendole di vedere con chiarezza la spessa porzione di pelle annerita che partiva dal polso. Era davvero un Operativo, quindi. Jane adocchiò la strana pietra che ancora stringeva; un Operativo piuttosto gentile, a quanto pareva.
Non sapeva a cosa pensare, ma non riuscì a fare a meno di sprofondare un po' di più nel sedile.
Lui rispose solo con un altro sorriso, prima di parlare di nuovo, con tono tranquillo e cordiale. "Quanto tempo fa?"
Jane sollevò di nuovo lo sguardo dalle proprie mani e incrociò quello del ragazzo, ringraziando il fatto che stesse ancora guidando perché lui fu costretto a riportare la propria attenzione sulla strada dopo mezzo secondo, risparmiando a Jane l'ulteriore imbarazzo di essere vista a disagio.
"Un paio di anni fa," rispose con vaghezza. Come si era aspettata, lo vide aggrottare le sopracciglia in confusione con la coda dell'occhio. Era più o meno la stessa reazione che avevano tutti. Chiunque lavorasse per l'AIS, operativo o meno, si sottoponeva all'Abbraccio molto prima di quanto avesse fatto lei. Ma il suo era un caso particolare e non aveva alcuna intenzione di parlarne in quel momento, per di più con uno sconosciuto.
"Il tuo nome?" chiese poi lei, prima che lui potesse porre una domanda a cui non avrebbe voluto rispondere.
"Ethan Reyes," si presentò, e di nuovo un sorriso genuino si allargò sulle sue labbra.
Inutile dire che Jane, nonostante la confusione e lo stress, si sentisse almeno più rassicurata.
All'orizzonte, il profilo affilato della Torre bianca dell'AIS si delineò contro le nubi temporalesche.
"Ti hanno già dato qualche informazione?" Il tono di Ethan non era più leggero e tranquillo come lo era stato per la breve conversazione che avevano avuto poco prima. Di certo adesso non poteva essere considerato ostile, ma nelle sue parole c'era ora una vena di freddezza. Discorsi importanti, si disse Jane, mentre entravano nelle vie trafficate della città.
"Quasi niente."
"Sai qualcosa della sistemazione?" Non era la prima volta che si sentiva colpita dalle sue parole, come per il fastidio ai polsi anche questa volta sembrava aver colto la cosa che la preoccupava di più. Ricordava che gli Operativi, oltre a sviluppare delle incredibili abilità fisiche, molto spesso allenavano quelle mentali, seppur a un livello inferiore. Pensare non fa per chi deve combattere, dicevano... ma non era più molto convinta di tutto quello che i suoi compagni d'ufficio le avevano riferito riguardo all'altra faccia dell'AIS.
Possibile che Ethan avesse una sensibilità emotiva particolarmente sviluppata? O si trattava solo di un intuito, in qualche modo simile a quello di Jane, ma più solido?
"Assolutamente nulla," ammise lei, mettendosi un po' sulla difensiva.
"Ok, allora ne parleremo con Rikhard, lui di sicuro saprà qualcosa. Immagino che per ora starai alla Torre. Da quanto ho capito non hai un'auto." All'ultima parte della frase Jane si ritrovò ad arrossire. Ventisei anni e niente auto. Non che odiasse l'idea di guidare, ma nella sua cittadina ristretta non ne aveva mai avuto davvero bisogno.
"Già," rispose, ancora senza alzare gli occhi.
"E sai perché sei stata trasferita?"
Jane ci pensò, ripescando dalla memoria le parole di colui che era stato il suo direttore. "Informazioni classificate," borbottò, prima di aggiungere esitante: "Credono che il mio precedente lavoro agli Affari dei Veterani possa tornarvi utile in diversi modi." La risposta le uscì quasi come una domanda, perché diavolo lo stava chiedendo a lei?
L'espressione chiusa di Ethan si alleggerì un poco, forse nello scoprire che lei non sapesse nulla di pericoloso? Jane fu sorpresa quando lo sentì ridacchiare. "Ah, una psicologa."
"Non sono una psicologa. Sono una consulente," lo corresse. "Ero," concluse poi, dubbiosa, tornando a sentire il peso dell'impotenza gravarle addosso. Per quanto insolito, parlare con lui l'aveva distratta e aiutata a respirare con un po' più di leggerezza.
Era tutto così confuso. Eppure si sentiva già meglio, scoprire quanto fossero umani gli Operativi la tranquillizzava. Ma non aveva nessuna garanzia che gli altri lo fossero altrettanto.
Ed ecco di nuovo la spirale di ansia.
Ed ecco di nuovo la voce di Ethan a distoglierla dalla sua vena autodistruttiva.
"Sasha ne sarà davvero felice," commentò Ethan con ironia e un sorriso che Jane non riuscì a interpretare.
Almeno non sarebbe stata l'unica donna, si disse.
Sembrava già un passo avanti. Ma era solo una disperata positività a cui si stava aggrappando per riuscire ad avere man forte in quel nuovo mondo che sembrava volerla inghiottire dentro il suo vortice di continui imprevisti.
La pioggia aveva ripreso a cadere in gocce fastidiose e sottili come spilli. La foschia umida di nebbia e nuvole aveva impregnato di nuovo l'aria, rendendola fredda e pungente.
L'imponente Torre bianca svettava solitaria e trionfante come un artiglio acuminato proteso verso il cielo, quasi splendente nel suo colorito candido contro l'estenuante e cupo grigiore.
Jane si affrettò sotto la stretta tettoia all'ingresso, aspettando che Ethan la raggiungesse, non ancora pronta a varcare quella soglia da sola.
L'Operativo si avvicinò, scrollandosi le gocce dai capelli biondi e indirizzandole un sorriso tranquillo che le trasmise una briciola di sano coraggio. Inutile dire che, nonostante tutto, Jane si sentiva sempre più a proprio agio in sua compagnia, ma sapeva benissimo in che razza di buco spiacevole si sarebbe andata a cacciare se non avesse fatto attenzione ai propri sentimenti, soprattutto quando era più vulnerabile. Non poteva fare troppo affidamento su ciò che non conosceva senza prima ritrovare la propria stabilità.
Jane scacciò quei pensieri, spostando l'attenzione sulle strade poco familiari di New York, avvolte dal brutto tempo. Si voltò verso l'ingresso nel momento in cui Ethan la raggiunse.
Le porte scorrevoli di vetro satinato si aprirono con un movimento fluido, rivelando una larga sala d'ingresso dagli avvolgenti colori caldi.
"Questo spazio non viene utilizzato quasi mai, i nostri piani e le varie stanze si trovano ai livelli superiori," spiegò Ethan, con voce leggera. Jane annuì, felice di potersi distrarre assorbendo ogni nozione e ogni dettaglio.
In fondo alla sala c'era un muro divisorio e, oltre a quello, una breve rampa di scale.
Sbucarono in un altro spazio abbastanza simile al precedente, ma molto meno impersonale. Il soffitto era alto e aveva ampie vetrate, coperte da sottili tende color carta. C'erano un paio di divani girati verso un televisore a schermo piatto e un tavolino spoglio posto nell'esatto centro.
Alla sua sinistra, più all'interno della spaziosa sala, vide uno splendido pianoforte a coda su un rialzo. Jane non aveva mai avuto la possibilità di imparare a suonare uno strumento, ma vedere quella creatura immobile ed elegante non poté che trasmetterle uno strano senso di desiderio misto a tristezza quando si rese conto dello strato di polvere che lo ricopriva come un leggero velo. Si chiese se qualcuno lì alla Torre lo suonasse, o lo avesse mai suonato.
"Suoni?" chiese Ethan, seguendo la direzione del suo sguardo.
"Uhm, no," rispose lei. Le domande indugiarono sulla punta della sua lingua, ma preferì tenerle per sé per non risultare troppo invadente.
"No, non lo teniamo solo come decorazione, se è quello che ti stai chiedendo," disse il ragazzo dopo qualche istante, intuendo i suoi pensieri. Jane non poté fare a meno di lasciarsi scappare una leggera risata.
"Sarebbe stato un peccato," commentò, iniziando a rilassarsi. Forse era per via del calore che avvolgeva quel luogo, così distante dal gelo della pioggia. Con sollievo poteva vedere le proprie aspettative venire sostituite da visioni molto più rosee.
"Magari riuscirai a sentire qualcosa mentre stai da noi, anche se è da un po' che Sasha non lo suona più." Quello attirò di nuovo l'attenzione di Jane. Era lo stesso nome che Ethan aveva pronunciato in macchina. La ragazza scrutò il suo volto, incuriosita, trovandovi solo un sorriso genuino e una luce nostalgica negli occhi.
Oh.
Riconosceva quell'espressione, per quanto fosse stato mascherato all'istante, era lo stesso che Jane aveva visto la mattina guardandosi allo specchio, moltissimi anni prima, quando ancora tutto sembrava semplice, quando aveva un qualcuno che poteva essere la propria casa e a cui sapeva di poter affidare il proprio cuore.
Si diede della sciocca per aver pensato che le cose sarebbero state facili, ma ancora di più per come si era sentita quando aveva visto i suoi occhi illuminarsi per un'altra, non aveva alcuna ragione o diritto di essere gelosa solo perché Ethan era stata una delle poche cose positive in quella giornata da dimenticare. In fondo si stava per inserire in una nuova squadra, forse addirittura una nuova specie di famiglia; non poteva pretendere nulla.
Ethan non era lì per lei, nonostante la facilità con cui sembravano interagire, Jane era solo una sconosciuta.
A disagio, strinse la maniglia della propria valigia, voltandosi verso lo spazio vuoto della sala. Cercò di ignorare il pesante silenzio che vi regnava, e si chiese se da sola sarebbe mai riuscita a trovare la sua stanza. All'improvviso stare a fianco all'Operativo non era più così piacevole.
Come se non bastasse i polsi avevano ripreso a prudere con insistenza.
Non poteva andare avanti così. Sapeva bene che era lo stress a giocarle brutti scherzi. Un'altra doccia calda e una bella dormita avrebbero risolto ogni cosa. Solo al pensiero si sentiva meglio, le preoccupazioni e le paranoie erano già un'ombra lontana.
"Non mi dispiacerebbe affatto," rispose. "Hai detto che avrò una stanza?" domandò esitante, cambiando discorso.
"Certo, venticinquesimo piano. Se hai bisogno io sto al ventitreesimo. Ho già avvisato Rikhard del nostro arrivo, Oktober dovrebbe tornare prima di cena, gli altri non sono sicuro se si mostreranno, quindi ci vediamo alle otto nella sala da pranzo per presentazioni e quant'altro." Jane rimase un attimo stordita da quei nomi nuovi, poi tornò la consapevolezza di trovarsi in un luogo sconosciuto circondata da altrettanti sconosciuti. La realtà le piombò di nuovo addosso come una secchiata d'acqua gelida, la tranquillità e la bellezza del posto passarono in sordina.
"Ok, perfetto," rispose, la mente già lontana mille miglia. E non le passò neanche per la testa di chiedere a che piano si trovasse la sala da pranzo.
La sua sistemazione occupava inaspettatamente un intero piano della Torre. Il suo primo pensiero fu che Ethan si fosse sbagliato a indirizzarla, poi si rese conto, ricollegando la sobria sfarzosità e costosa eleganza del piano terra, che doveva essere per forza la sua stanza. Anche se chiamarla tale sarebbe stato un eufemismo, sarebbe stato più corretto darle un nome consono come... attico.
Lasciò la valigia a fianco alla porta d'ingresso, curiosa prima di tutto di vedere come era organizzato l'appartamento.
L'ambiente aveva un arredamento minimale: una cucina bianca e grigia, un bagno luminoso con un'ampia vasca, un'accogliente camera con un basso letto matrimoniale dalle coperte morbide e tende sottili di un rilassante color lavanda, e infine un incredibile salotto con un'intera parete composta da spesse vetrate.
Fortuna che Jane non soffriva di vertigini; da dove si trovava poteva vedere benissimo il profilo degli altri edifici e, se aguzzava lo sguardo, anche la sagoma della Statua della Libertà tra le nuvole pesanti e l'infinita cortina di smog.
Si sedette con un sospiro sul bordo del letto. Aveva già portato la valigia nella stanza, ma a dire il vero ancora non si sentiva di disfarla, come se in qualche modo quell'azione avrebbe determinato la sua permanenza in quel luogo.
Piuttosto, digitò il numero che ricordava a memoria sullo schermo del cellulare e attese per un paio di squilli.
"Pronto?" La sua voce riuscì con una piccola parola a scaldarla.
"Ehi, ma'," salutò, incapace di fermare il lieve sorriso che le si dipinse sul volto.
"Tesoro, come stai?" chiese sua madre. Jane sospirò, studiando ancora quell'ambiente; dall'ampio letto all'immensa finestra che dava su un panorama sconosciuto.
"Tutto bene," rispose laconica.
"Uhm, questa non è la tua voce da tutto bene. Qualcosa ti preoccupa."
Jane si lasciò scappare una mezza risata. C'era poco da fare, sua madre riusciva a leggerla come nessun altro, era inutile anche solo provare a tenerle nascosto qualcosa.
"Sto bene." Sospirò, sdraiandosi sul letto e fissando il soffitto scuro. "Volevo solo dirti che sono stata trasferita a Staten Island," disse in un soffio, come se meno ne avrebbe parlato, meno ne avrebbe sofferto.
"Oh, di che si tratta?" La voce di sua madre si colorò di curiosità, forse ignorando che sarebbe dovuta stare via a lungo o che si trovava in un complesso di Operativi, piuttosto che seduta alla scrivania di un nuovo ufficio.
"Ancora non ne sono sicura. Spero comunque di riuscire a venirti a trovare." Jane cercò di spostare discorso su argomenti purtroppo non altrettanto piacevoli.
Tuttavia la voce di sua madre rimase dolce, come sempre. In ogni situazione riusciva a mostrarsi quella più forte, anche quando invece era l'esatto contrario. "Tranquilla, tesoro, anche se non vieni tutte le settimane non c'è problema, mi basta che tu stia bene."
"Non dire sciocchezze, continuerò a venire," borbottò, storcendo le labbra, ma rilassò subito dopo il volto quando si rese conto che sua madre non avrebbe potuto vederla.
La sentì sbuffare appena. "Lo so, sei sempre stata terribilmente testarda," rispose con una lieve risata.
"Dico sul serio, mamma."
"Va bene, va bene. A quanto pare non sono ancora riuscita a convincerti, lo sai che dovresti smetterla di tormentarti così tanto per me, non ti fa bene alla salute." Nonostante tutto, riusciva a continuare a scherzare e ad avere un tono leggero, anche quando parlavano della poca vita che le rimaneva.
"Non m'importa, continuerò a venire ogni settimana," insistette, e bloccò in tempo le parole fino a che continuerai a esserci che dondolavano precarie sulla sua lingua. Quello era ciò che detestava; il senso d'incombenza che non sarebbe mai riuscita a scacciare.
Jane sentì quasi il sorriso di sua madre dall'altra parte della cornetta. "Ok, va bene, tesoro. Ci vediamo presto, allora. Ti voglio bene."
"Ti voglio bene anch'io," rispose in un sussurro, per poi ascoltare qualche istante il suono ritmico come un metronomo della linea libera.
Non riuscendo a sopportarlo, spense lo schermo, per poi rimanere a fissare per un po' il proprio cellulare prima di iniziare a muoversi di nuovo per le stanze, nel tentativo di occupare la mente con qualcosa che non fosse il costante ticchettio del tempo che scorreva via.
Il sole stava scivolando oltre gli edifici, illuminando il cielo con raggi vermigli. Ethan uscì dall'ascensore al ventiquattresimo piano, dirigendosi con sicurezza all'unica porta. Sollevò il pugno per bussare, solo allora si permise di esitare per un istante.
"Sasha?" chiamò mentre batteva due volte, con leggerezza, sul legno spesso della porta.
Non ci fu risposta.
Ethan sospirò, sapeva che Sasha era dentro, lo sentiva con chiarezza, come un sesto senso, un formicolio sottopelle di emozioni soffocate e lontane, quasi trascurabile ma presente.
"È arrivata la nuova ragazza per aiutarci, sarebbe carino se almeno ti presentassi," continuò, ma ormai sapeva bene che non sarebbe servito a nulla. Si appoggiò con la fronte alla porta e sospirò, desiderando poter vedere ciò che c'era oltre a quel confine invalicabile.
Raggiungere Sasha era una sfida che temeva di aver già perso da tempo, ed era consapevole che forzando la mano avrebbe ottenuto il risultato opposto.
In quegli attimi di silenzio Ethan non poté fare a meno di pensare a tutte le cose che avrebbe potuto dire nel tentativo di smuovere la situazione, ognuna meno convincente dell'altra.
Intendi stare di nuovo lì dentro per tutto il tempo fino alla prossima missione?
Rikhard non ne sarà felice, lo sai.
Vorrei aiutarti, ma non so come fare se non me ne dai la possibilità.
Mi manchi.
Ma erano frasi che, come sempre, rimanevano soffocate dietro a labbra morse a sangue.
Tutto quello che poté fare fu allontanarsi e sperare, odiando il senso d'impotenza che lo soffocava sempre quando si trattava di Sasha.
On the Air:
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