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Prologo





Prologo

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Sono passati dieci anni da quando hanno cancellato quella scritta sul muro. Quella bellissima frase scritta con una vecchia bomboletta spray, il simbolo della mia felicità. Quella che per poco ho potuto provare.

Ancora adesso passo davanti a quel muro grigio. Ora è coperto di manifesti elettorali e pubblicità di bevande energetiche, quelle vecchie locandine di film d'amore sono ormai nascoste da manifesti inutili e privi di significato.

A vederlo ridotto così, mi viene da piangere. Fu proprio il luogo dove Aleksandr ed io ci scambiammo una promessa solenne, prima di sparire completamente dalla mia vita.

«Ti voglio bene, Theresa».

Le sue ultime parole, prima di morire su quel letto d'ospedale, dopo aver deciso di fare l'estremo gesto. Quello di cui poi, mi sono pentita amaramente.

Perché ha voluto farmi quel regalo, mettendo a rischio la sua vita per rendermi felice? Lo odio per questo. L'unica cosa che posso fare, adesso, è dimenticare il suo volto. Quel bellissimo sorriso, le sue mani calde e il suo respiro che sfiora la mia pelle.

«Grazie, sorellina».

So che è vicino a me, nonostante sia dall'altra parte.

*

Passeggiare con Emily mi mette allegria. Tra l'altro, è la mia nipotina. L'unica persona che mi fa sorridere.

«Zia, perché guardi il muro?» mi domanda con voce tenera.

Il mio sguardo incrocia quello della bambina, il che mi rattrista. Sembra preoccupata.

«Niente d'importante».

La mia voce s'incrina leggermente, non appena comincio a ricordare quell'anno. Emily lascia la mia mano e si mette davanti a me con due occhi enormi, fissi sui miei. Quel verde brillante m'intenerisce sempre.

«Perché piangi?»

«Non è niente, piccola, davvero».

«Così farai piangere anche Gesù» dice, poi, con una tenera faccia da gattina. Sorrido e abbraccio dolcemente la bambina, stringendo gli occhi, cercando di non far uscire le lacrime. Piangere, tra l'altro, non è mai stato da me.

Sono sempre stata una ragazza priva di emozioni, menefreghista. Non mi piaceva approcciare con la gente, per il semplice fatto che mi sentivo troppo diversa. A volte, ero invidiosa delle altre ragazze, in particolare per qualcosa che non avevo. Ad esempio, la felicità. Per anni non l'ho mai avuta, ho sempre vissuto sotto una nuvola di pioggia.

Vivere senza emozioni di nessun tipo, non sentire quella forte energia che percorre il tuo corpo, quell'adrenalina che mai ho potuto provare.

«Se solo fosse ancora qui...»

«Chi?» la curiosità di Emily.

«Nessuno, piccola mia», sorrido cercando di cacciare via la malinconia, «andiamo a prendere il tuo gelato».

I capelli castani della bambina svolazzavano sulla sua testa a contatto col vento, la sua pelle chiara a contatto con la mia, scura e lentigginosa, i suoi occhi splendenti a contatto con la luce del sole, a capolino tra le nuvole grigie.

Dieci anni fa, la periferia di Oceanside era del tutto diversa. Non c'erano muri alti, fabbriche fumanti, spacciatori e criminali di ogni genere. C'era la felicità sui volti di tutti quegli adolescenti. Adesso, sembra di vivere in un vecchio thriller.

L'unica cosa che mi consola è la presenza di quella vecchia panchina di legno dalla vernice consumata e le incisioni d'amore scritte dagli altri giovani, colorate e con le iniziali di parecchie coppie che lì si sono dichiarate.

«Zietta, voglio il gelato al cioccolato».

«La cioccolata fa male, Em».

«Io lo voglio!» inizia a fare i capricci, come sempre.

«Tua madre mi ha detto di non fartelo mangiare, quindi scegli un'alternativa».

Emily mi guarda malissimo, poi mi lascia la mano e continua a camminare mettendo il broncio e il labbro superiore leggermente all'infuori. Il suo sguardo è agghiacciante, ma non mi convincerà a cambiare idea.

All'improvviso, comincia a piangere gridando in mezzo alla strada. Non ho scelta, dovrò dare uno strappo alla regola.

«Va bene, te lo comprerò al cioccolato» dico con un sorriso e in un baleno, Emily smette di piangere.

Anch'io ero così: capricciosa, proprio come lei. Ero incorreggibile, ne combinavo di tutti i colori. Ed era anche per questo che, alcune delle mie vecchie amiche d'infanzia, mi consideravano stranamente simpatica.

Emily mi rispecchia alla perfezione, è come avere una sorellina. Peccato che Lara, in realtà, non sia così, eppure da bambina era così innocente.

«Mamma non mi lascia mai mangiare la cioccolata» dice un po' irritata, guardandomi dritta negli occhi, mentre camminiamo verso la gelateria in riva al mare.

«Non devi fare i capricci, però. Sai che Babbo Natale, poi, non ti porterà i regali?»

In effetti, mancano due settimane a Natale. Comprare il gelato, in inverno, è del tutto fuori norma, secondo Lara, Lucìa e Michael, ma so essere una zia generosa. Non posso deludere Emily, così come non ho mai deluso mia madre in passato.

«Non avrò la bambolina?» domanda sul punto di piangere.

«Se fai la cattiva, no».

«Scusa, farò la brava bambina. Non farò mai più i capricci!» dice con tono fiducioso.

«Questo, però, devi farlo davanti tua madre» le faccio l'occhiolino e, prendendola per mano, entriamo in gelateria.

Stranamente, è piena di adolescenti che mangiano quelle torte dai grassi idrogenati, fredde e piene di calorie.

«Dio, quando odio i dolci» sussurrai tra i denti senza farmi sentire dalla piccola Emily.

Dopo aver comprato il gelato per la bambina, mi siedo accanto a lei sul divanetto all'angolo del bar. Emily lo gusta con piacere, sporcandosi completamente la faccia. Fortunatamente, il gelato non si è versato sul suo giubbotto, il che mi salva dalle ramanzine di Michael e sua moglie Lucìa.

Guardo nuovamente quella panchina dalla vetrina del locale. Una coppia si siede e il ragazzo tira fuori una scatoletta di Mon Cheri, probabilmente i preferiti della sua fidanzata.

Lei, felice come non mai, gli salta addosso e lui la stringe tra le sue braccia. Sembravamo io ed Alec il giorno del mio sedicesimo compleanno, quando mi regalò ciò che desideravo per anni, e che mia madre mai mi ha voluto comprare: una dama vittoriana di pezza. 

Istintivamente, appoggiai una mano in direzione del cuore, ricordando ogni momento. Custodisco ancora quella bambola, dentro la custodia della mia chitarra – quel piccolo lavoro in strada che mi permette di aiutare mio fratello e sua moglie. È poco, ma lo faccio sempre bastare. Ora la coppia se n'è andata.

«Perché hai la mano sul cuore?»

Sobbalzo sentendo la voce della piccola Emily, col muso ricoperto di cioccolata.

«Ma come hai fatto a sporcarti così?» ridacchiai guardando il suo volto sorridere in mezzo al gelato sparso sulla sua faccia.

«Stai ferma, adesso ti pulisco la bocca».

Tiro fuori dalla borsetta una salvietta imbevuta e le pulisco lentamente la faccia, la bambina ridacchia non appena le passo la salvietta sulle guance. È così allegra, proprio come suo padre.

«Emily...»

Si muove di scatto mentre cerco di pulirle il naso.

«Fatti pulire per bene».

Continua a ridere e agitarsi sulla sedia.

«Mi fai il solletico!»

«Cerca di stare ferma, piccola. Non riesco a...»

«Lo faccio da sola» mi prende la salvietta e con delicatezza, si pulisce il naso e la bocca. Vedere il suo dolce ed angelico viso mi rende orgogliosa di far parte di una famiglia mista, eppure prima non lo ero.

«Mamma mi ha insegnato a pulirmi bene il faccino».

«Devo ammettere che è stata davvero brava» sorrido.

Ad un certo punto, Emily mi guarda stupita. Chino leggermente la testa di lato, incrociando il suo sguardo da piccola investigatrice, esattamente come quello del Detective Conan, il cartone animato giapponese che seguivo da ragazza.

«Sei felice».

Sogghigno.

«Mi sembra ovvio che lo sia».

«Papà mi ha detto che non sorridi mai».

«All'età della zia Lara era così, ma adesso sorrido sempre» segue una piccola pausa «purtroppo, non ho avuto il coraggio di farlo. Sono sempre stata sola, dal momento che ero antipatica a tutti».

«Ma sei simpatica».

La sua voce è incredibile, non riesco a non sorridere.

«In realtà, non lo sono mai stata».

Emily mi guarda incuriosita.

«Quando hai sorriso per la prima volta?»

«Tanti anni fa».

La curiosità della bambina mi stupisce ogni secondo di più. Ho sempre odiato i curiosi, ma non si può dire di no ad una tua parente, per giunta bambina.

Emily diventa sempre più curiosa, riesco a capirlo dal suo sguardo. Le pupille dilatate dicono tutto.

«Ma se non hai mai sorriso, allora, perché adesso lo fai?»

A quella domanda non trovo il coraggio di rispondere. Emily non sa che ha anche un altro zio, oltre a quelli che ha attualmente. Peccato non sia qui.

«Hai trovato il fidanzatino?» domanda.

Mi sfugge una dolce risatina.

«Magari».

Emily si unisce alle mie risate, mettendosi il cono gelato quasi vuoto davanti al viso.

«Zia Tessa ha il fidanzato!» canticchia prendendomi in giro.

«Non ce l'ho, Em».

«Non si dicono le bugie» si tocca la punta del naso.

«Ed io ti dico che non ce l'ho» faccio l'occhiolino e sorrido dolcemente.

«Ma allora, zia, quando troverai il vero amore?»

Piccola pausa.

«Non lo so».

«Ah! Mamma mi ha detto che ho un altro zio che si chiama Aleksandr».

Sobbalzo risentendo quel nome, il nome di colui che mi aveva salvato l'esistenza.

«Emily... vedi, lui ora è in cielo».

Quella curiosità si trasforma in tristezza e gli occhi della bambina hanno già capito tutto.

«Come ci è arrivato?»

«Vedi, è una storia lunga», distolgo lo sguardo per qualche secondo, «forse è meglio non parlarne».

Annuisce e riprende a mangiare il suo cono gelato. Il solo pensarci mi fa innervosire e piangere allo stesso tempo. È stata tutta colpa mia, ma lui diceva sempre il contrario.


Mi manchi tantissimo, Aleksandr. Cosa darei per riaverti vicino.





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