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Capitolo 9 - Emozioni invisibili






Emozioni invisibili

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Tornammo a casa dopo qualche ora, non appena mia madre siglò il verbale del pronto soccorso, venimmo dimessi. Mamma faceva fatica a trasportare Aleksandr ma, bene o male, se la cavava. Salire e scendere dalla macchina, per lui, fu un'impresa eroica. Lo stare seduti per sempre, per lui, era come un morso sul braccio.

Poi, un paio di lacrime rigavano il suo volto. Sapeva che quella piccola gita in macchina sarebbe finita male, ma non era riuscito a prevedere una malattia. Non poteva restare all'ospedale, doveva dare priorità ad altri malati.

Tornati a casa, mi buttai sulla poltrona mettendomi con le ginocchia in gola e gli occhi lucidi. Lui lentamente si avvicinò, lo sguardo preoccupato. Mi sentivo in colpa per quello che era successo, eppure voleva rendermi felice. Ci era riuscito, ma la tragedia non era prevista.

Vederlo seduto su quella sedia a rotelle mi avvilì. Gli avevo tolto la possibilità di camminare, ma a lui poco importava. Lo aveva fatto per me; ma poi, perché rischiare la vita per una ragazza volgare e maleducata come me? Non ci aveva neanche pensato due volte, prima di farlo.

«Hai rischiato la vita solo per questo e mi sento uno schifo».

«Non è stata colpa tua. Volevo regalarti un sorriso e ho fallito».

Non ce l'aveva fatta; anziché un sorriso, mi aveva regalato la tristezza eterna.

«Ti prego, Tessa, non piangere».

«Come posso non piangere, Alec? Non vedi in che condizioni sei? Sono stata io a renderti infermo».

Allungò il suo braccio, toccandomi la spalla. Il sentire il suo calore mi riscaldava il cuore, ma non tanto a farmi smettere di piangere. Per un attimo, avevo fatto una faccia strana, come se stessi per scoppiare a piangere un'altra volta e questa volta, senza fermarmi.

Aleksandr era sempre stato gentile nei miei confronti. Dal giorno in cui l'ho conosciuto – a cinque anni, dopo il "divorzio" tra i genitori miei e di Michael – da quando gli avevo stretto la mano per la prima volta, lo è sempre stato. Se ne fregava del mio carattere, mi voleva bene per quel poco di emozioni che tiravo fuori. Poche, ma profonde.

Non volevo affatto ferirlo, era un ragazzo troppo dolce. Come potevo non provare compassione per lui, dato che era finito su una sedia a rotelle e per colpa mia? Lo avrei ripetuto all'infinito.

È colpa mia... è colpa mia...

«Non voglio vederti così».

Aprii gli occhi e lo vidi a qualche centimetro di distanza dalla mia spalla, cercando di avvicinarsi al mio viso. Mi abbassai e glielo permisi. Le nostre labbra erano quasi vicine, quasi sul punto di sfiorarsi. «Alec... non riesco a sopportare il fatto che tu non possa più camminare».

«Lascia perdere, Tessa. Me o merito, perché ti ho quasi uccisa».

Notai che stava guardando la mia benda e l'occhio destro coperto, col braccio cercò di sfiorarmela trasmettendomi le sue emozioni, una più intensa dell'altra. Gli volevo tanto bene e avrei continuato a volergliene senza complicazioni. Avevo deciso di regalargli un posto del mio cuore, o per meglio dire, il trono.

«È un miracolo che tu sia ancora qui».

«Vorrei dire lo stesso di te, Alec. Saresti morto in quell'auto».

«Era quello che volevo».

Rimasi sconvolta da quella frase. Gli afferrai i polsi con gli occhi lucidi, incrociando lo sguardo col suo. «Come puoi dire una cosa del genere?»

Lo vidi mordersi il labbro preso dalla rabbia e anche i suoi occhi erano lucidi, più dei miei. «Almeno tu saresti rimasta viva».

«Ti ascolti mentre parli?»

A quanto pareva, no. Non riuscivo a credere a ciò che aveva detto, tant'è che l'avevo preso per psicopatico. «Farei qualsiasi cosa pur di sentire il battito del tuo cuore. Voglio proteggerti, Tessa».

Mi sentii una stupida. Mi morsi il labbro con le guance rosse, presa dalla vergogna. Che diamine avevo appena fatto? «Non ricordi più la nostra promessa?»


In un attimo, tutto tornò. Due bambini erano sdraiati sul prato di Central Park, prima di trasferirsi ad Oceanside. Guardavano le nuvole e immaginavamo animali strani e buffi. La bambina mora aveva una maglietta abbastanza larga, bianca con un paio di gatti disegnati al centro, e un paio di pantaloncini in cotone. Il suo sguardo era quasi assente, come se il cielo l'avesse ipnotizzata.

«Theresa».

Mentre uno dei fiocchi dei suoi lunghi capelli si stava sciogliendo, si voltò verso il bambino. Portavo i codini e l'apparecchio – anche lui lo portava, e se lo era tolto prima di lei – e faceva leggermente fatica a parlare e mangiare.

«Quando vedi le nuvole, a cosa pensi?» domandò fissando una nuvola biancastra.

«Vedo me da grande.» rispose lei.

Incrociò il suo sguardo, rimanendo nella stessa posizione.

«E cosa vorresti fare da grande?»

«La scienziata».

Il ragazzino, all'improvviso, ridacchiò prendendosi gioco di lei e dei suoi sogni. Lo odiava a morte, così come odiava il suo sorriso. Era come allora: apatica e senza un briciolo di emozioni.

«Non ridere!» s'irritò.

«Scherzavo.» poi, tornò a guardare il cielo tornando serio.

«A me piacerebbe vedere lo spazio, i pianeti, gli alieni...»

Ridacchiò di nuovo e questa volta, la bambina se ne fregò.

«Mamma, però, dice che non dobbiamo sognare in grande.» concluse lei avvilita, per poi alzare la schiena e mettersi seduta con le gambe sdraiate.

«Lascia perdere quello che dice la mamma.» il ragazzino si sedette accanto alla sua sorellina, incrociando le gambe.

«Se vuoi sognare, fallo.» sorrise, e lei lo guardai senza ricambiare.

«E se dovesse esserci qualcuno o qualcosa ad impedirtelo, io ci sarò sempre con te.» le strinse la mano e, con l'altra, infilò una margherita tra i suoi capelli lunghi e mossi.

Sua madre non glieli lasciava mai tagliare, ed era costretta a farsi i codini come quelli di Dorothy de "Il mago di Oz". Si sentiva sempre a disagio davanti agli altri bambini.

«Mi prometti che mi proteggerai sempre?» domandò la piccina con due lacrime agli angoli degli occhi.

«Sì, Theresa, te lo prometto».

Le lasciò la mano, le allungò il mignolo e lo incrociò dolcemente al suo. Lui sorrise, lei si sforzò per ricambiare ma non ci riusciva. Riuscì però a fingere. Il fratello non lo aveva considerato un sorriso vero e proprio, un po' si era arrabbiato. Aveva giurato di proteggere la sua sorellina e renderla felice e così fece, da quel giorno in poi.


Mi alzai dalla poltrona e lentamente, mi sedetti su di lui. Non gli facevano male le gambe anzi, gli faceva più che piacere avermi sulle sue cosce.

«Giurami che non piangerai più per questo?» domandò sfiorandomi il livido sul braccio sinistro.

«Sì. Lo giuro.» mormorai, circondandogli il collo con le braccia ancora indolenzite e lui ricambiò.

Da tanto tempo desideravo stare tra le sue braccia in questo modo, come due fidanzatini. Era un abbraccio troppo affettuoso ed io non ero in vena di provare emozioni così forti. In quel momento, però, ne avevo bisogno.

Ho sempre camminato da sola lungo la strada della vita, senza nessuno al mio fianco, dalla nascita fino a quei giorni. Mi sembrava tutto un sogno. Colei che era stretta tra le sue braccia era la vera me stessa: la Theresa amorevole, simpatica ed estroversa.

Circondata da due braccia grandi e muscolose, quelle di un uomo – fratellastro – dal volto sorridente e attraente. Mi sentivo un'aliena, tra l'altro eravamo legati dal sangue materno. Venivamo dalla stessa donna, ciò ci considerava fratelli. Per mia madre, eravamo solo due anime smarrite, senza uno scopo. Come poteva dire questo dei loro figli?

«Senti, Alec...» Sentii la sua mano toccare la mia guancia, poi spostò la mia testa costringendomi a guardarlo. I suoi occhi erano luminosi a contatto con la luce del sole, calda e piacevole da sentire sulla pelle. «Sarò anche stupida, poco premurosa e tutto il resto, ma voglio riuscire a provare emozioni forti e mostrarli agli occhi delle altre persone».

Il suo volto cambiò totalmente espressione.

«Faccio fatica a capire quelle degli altri, ma ciò che voglio di più è capire te».

La sua mano si mosse di colpo, provocandomi un brivido di piacere. Mi stava accarezzando amorevolmente la guancia, e non lo stavo respingendo come al solito. Mi stavo lasciando toccare da un'altra persona, completamente diversa da mia madre.

«Non volevo che tutto questo accadesse...» guardai in basso, in procinto di piangere nuovamente.

«Se è per questo, neanch'io.» intervenne, togliendo poi la mano dal mio viso. Già mi mancava sentire quella sensazione di calore sulla mia pelle delicata.

«Ti chiedo scusa, Alec».

«Per cosa ti stai scusando?» ridacchiò credendo fosse una battuta.

«Che cazzo ridi?» m'irritai subito vedendolo ridere. «Mi sento in colpa per quello che è successo e ti metti a ridere?»

Torna serio dopo qualche minuto, poi scuote leggermente la testa.

«Perdonami, ma non riuscivo a trattenermi».

«Non cambierai mai».

Seduta sulle sue gambe mi accompagnò davanti le scale, per poi darmi un bacio sulla guancia. «Vai e riposati, penserà la mamma a me».

Annuii e mi alzai da lui. Lo guardai per qualche secondo, nuovamente in colpa e salii le scale lasciandolo da solo.




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