Capitolo 8 - Dolore
Dolore
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Trascorsi il resto della giornata in ospedale. La testa mi scoppiava, facevo fatica a muovermi e sentivo il corpo abbandonarmi. L'incidente mi aveva quasi costato la vita, ed è un miracolo se sono ancora viva. Fortunatamente, la ferita non era tanto grave. Mi avevano bendata la fronte, mettendo un paio di garze ai lati. Fui costretta a dormire con un cuscino alto e morbido.
D'altro canto, i rumori dei bambini in lacrime era deprimente. C'erano anche piccoli piedini che pestavano il gelido pavimento dell'ospedale, tutti malati. Alcuni avevano perfino il cancro. Non vedevo l'ora di uscire da lì però, senza Aleksandr, che scopo avrebbe avuto? Mi sentivo così in colpa. Non avevo sorriso, e lo avevo fatto arrabbiare, fino a fargli rischiare la vita.
Forse era morto e i dottori non mi avevano detto ancora niente? Ne dubitai.
«Signorina Harper?» L'infermiera entrò con un vassoio tra le mani, e lo appoggiò accanto a me. «Come si sente?»
«Male, la testa mi sta scoppiando.» Me la toccai, ma l'impatto non fece altro che peggiorare il dolore. Era una martellata, più che un semplice dolore di testa.
«Non si preoccupi, tra un paio di giorni potrà uscire da qui».
Mi girai e la guardai con occhi lucidi. «Dov'è Aleksandr? Voglio vederlo».
«È nel reparto cure intensive e ne avrà ancora per molto».
«Mi dica che ancora vivo, la prego... non voglio che muoia per colpa mia».
«Stia tranquilla, andrà tutto bene».
Non andava affatto bene, invece. Non facevo altro che immaginarmelo privo di vita in quella brandina arrugginita e sporca. Avevo paura, paura di perdere l'unica persona normale nel mio mondo sottosopra. Mi sentivo abbandonata.
«Beva un po' d'acqua, le farà di sicuro bene». Allungò un bicchiere di carta con una cannuccia e lo presi con entrambe le mani, per poi bere lentamente. Facevo fatica a piegare il collo in avanti, e ciò non prometteva niente di buono. «Il medico verrà a visitarla tra qualche minuto».
Parlando proprio del diavolo, la porta si aprì ed apparì come se qualcuno l'avesse nominato: l'uomo di mezz'età dalla camice azzurro e uno stetofonendoscopio al collo.
«Come va qui, infermiera Hill?» chiese.
«A vederla, fa fatica a muovere il collo e le braccia».
«Allora non perdiamo tempo e visitiamola».
Appoggiai il bicchiere accanto a me, mentre lui si avvicinava a passo di tartaruga accanto al mio letto, ordinando poi all'infermiera di prendere alcune bende e garze. Deglutii dalla paura. Da bambina, odiavo farmi visitare dai medici e, ogni volta che mi chiedevano di togliermi i vestiti, cercavo in ogni modo di scappare da quella stanza. Riuscii poi a vincere la paura del dottore, anche se il suo sguardo m'intimorisce sempre. Prese lo stetofonendoscopio e lo passò dietro la mia schiena, molto lentamente, concentrandosi sui miei battiti.
Mi disse di respirare prima col naso, poi con la bocca, esalando respiri lunghi e profondi. Non appena il gelido stetofonendoscopio si levò dalla mia schiena, mi prese per le spalle e mi girò, sentendo anche i battiti del mio cuore. Continuai ad espirare ed inspirare come mi aveva chiesto. Poi, mi ordinò di smettere.
Mi aiutò a sedermi sul lettino medico, per poi picchiare un martelletto contro le mie ginocchia. Le vidi muoversi ad una velocità irrilevante, cosa che mai mi era successa. Dopodiché, mi misurò la pressione e mi guardò l'occhio destro. Ci volevano così tante attenzioni? Non ci credevo.
«Lei è in ottime condizioni, a parte la botta in testa e l'occhio destro un po' rosso. Dovrà tenere le bende almeno una settimana». Mentre parlava, pensavo ad Aleksandr. Continuavo a dirmi che fosse morto, ma non dovevo. Solo un medico poteva dirlo. «Per quanto riguarda il collo, dovrà indossare il collare almeno un paio di giorni. Non è gravissimo, ma passerà presto».
Alzai lo sguardo e dopo un po', chiusi gli occhi. «Intanto, si riposi. Avvertirò i vostri genitori».
«Le conviene chiamare mia madre. Le lascio il numero, se vuole».
L'infermiera mi passò un foglietto giallo e una penna, dove scrissi il numero e il nome. Sperai non si arrabbiasse, o che mi desse la colpa di tutto ciò. La conoscevo bene, e sapevo com'era fatto il suo carattere.
«La prego, dottore, mi dica come sta Aleksandr».
«Gliel'ho già detto: va tutto bene» ribadì l'infermiera, ma come facevo a crederle?
Lo avevo visto quasi morto con i miei occhi. Ogni volta che ci pensavo, mi saliva la rabbia. Era stata una sua idea, ed io gliel'avevo concesso, senza pensare al probabile finale che questa storia avrebbe avuto. Un incidente. Avevo paura di perderlo.
«La chiameremo quando si sarà svegliato, d'accordo?»
Il medico decise di darmi conforto con questa proposta, e l'accettai. Non sapevo però, quando e come si sarebbe svegliato. L'unica cosa che volevo era vederlo in piedi, ancora vivo.
«Lasciamola sola» e se ne andarono. L'Infermiera seguì il dottore come un cagnolino, con lo sguardo basso, lisciandosi i capelli lunghi e unti.
Voltai lo sguardo verso un tavolo, dov'era appoggiato un vecchio lenzuolo bianco. Mi alzai dal letto con la poca forza che avevo, lo presi e lo stesi sul pavimento. Con un pennarello indelebile - trovato proprio sotto il lenzuolo - disegnai una specie di mappa, scrivendo al centro il verbo "cambiare".
Era l'obiettivo a cui aspiravo, in quei tempi. Vedevo il futuro della mia vita in quel vecchio lenzuolo: felicità, speranze, sogni. Si sarebbero avverati, un giorno? Il pessimismo dentro di me era enorme. Dovevo riuscire a guardare il mondo dall'altra prospettiva, ma facevo fatica. Disegnai un cuore infranto, un pugnale e circondai la parola in un grande rettangolo, come se fosse una barriera da neutralizzare.
Vedevo l'oscurità dentro di me, che usciva lentamente, come fumo. Scuro, tossico. Ti prendeva e non ti lasciava fuggire. Se solo riuscissi a ricordare quel momento, quando mio padre si allontanò da casa, dopo aver preso a sberle mia madre. Voleva portarmi via, ma i giudici avevano sempre qualcosa da dire.
Aveva una restrittiva e non poteva violarla. Decise di non vedermi più, per non correre rischi. Ogni volta che penso a tutto questo, cominciò a piangere. Non ricordo il volto di mio padre, dal momento che avevo appena sei anni - mamma aveva adottato Michael, e solo due anni dopo decise di tenere anche Aleksandr con sé. Perfino Lara era la mia sorellastra, ma non volevo considerarla tale. Tra l'altro, non aveva mai conosciuto suo padre.
«Sai una cosa, papà? Forse mamma non avrebbe dovuto adottarmi. Non faccio altro che crogiolarmi nella solitudine, nessuno mi vuole bene. Perché mamma ha voluto farmi nascere?» dissi ad alta voce, nella speranza che non mi sentisse nessuno.
Ai tempi, non sapevo quello che dicevo. Sparavo cavolate su cavolate e il bello era che continuavo. In quel momento, mi sentivo un'assassina; ero io la causa della probabile morte di Alec. Un bussare alla porta, poi, mi fece sobbalzare. L'infermiera aprì la porta della camera e mi guardò. «Signorina, è meglio che si riposi».
«Non ho sonno, infermiera. Posso...» mi bloccai per qualche secondo, «posso vedere Aleksandr solo per qualche minuto?»
Alzò lo sguardo al cielo roteando gli occhi, poi tornò a guardarmi. Era un no, e già lo sapevo.
«È nella sua stanza a riposare».
Era ancora vivo, forse. Cominciai a vedere un raggio di sole, era la prova che Alec era ancora qui con me. «Domani potrà vederlo, se vuole. Buon riposo» e chiuse la porta.
Decisi di sdraiarmi sul lettino e chiudere gli occhi, in attesa di vederlo energico più che mai. Non sapevo ancora a cosa andavo incontro, ma in quel momento non ci pensai.
La mattina arrivò in un lampo. Le veneziane si aprirono all'improvviso, mostrando una luce abbagliante. Misi la testa sotto il cuscino, coprendo gli occhi dalla luce.
«Sveglia, Ms. Harper.» Sentii la voce dell'infermiera. «Oggi ti dimetteranno».
«Aleksandr come sta?» ripetei per la centesima volta.
«Si è svegliato verso le cinque e ha nominato te. Credo voglia vederti».
In un attimo, il mondo sembrò girare al contrario. Mi sentivo strana, come se la vita mi stesse abbandonando. Il bernoccolo sulla testa era dolorante, per non parlare della schiena indolenzita. Mi sentivo a pezzi, peggio del giorno prima.
«Sarà dimesso anche lui?»
Lei annuì ed io piansi dalla gioia. Era un miracolo se era ancora vivo, nonostante l'incidente è il fatto che fosse ubriaco. Mi perdevo sempre di più nei miei pensieri, illudendomi che sarebbe sopravvissuto. Invece, era ancora con me e dovetti ringraziare il cielo. Si avvicinò chiudendosi la porta alle spalle.
«Prima, però, cambiamo la fasciatura.» Afferrò delicatamente la mia testa, girando il collo prima a destra poi a sinistra assicurandosi che fosse tutto a posto. Levò lentamente la benda, liberando le tempie e l'occhio. Non perdevo più sangue, ma una grande macchia era rimasta sulla fasciatura, scura e ben evidente. «Bene, la ferita sembra quasi guarire. Per sicurezza, ti rimetto la fasciatura».
Annuii e lasciai che l'infermiera mi bendasse nuovamente. Sentivo ancora dolore, ma riuscivo a sopportarlo. Dopo un po', la donna mi prese per mano e mi aiutò a camminare. Facevo fatica, dal momento che il mio corpo era completamente indolenzito. Ondeggiavo come un'ubriaca la domenica mattina, dopo un rave party estremo. Quasi non mi riconoscevo.
«Va tutto bene, signorina?» chiese la donna, vedendomi debole.
«Sì, infermiera».
«Chiamami Joy, non mi piace essere chiamata "infermiera"».
«Ma lo è».
«Dammi del tu, sono una tua coetanea». Era giovane, infatti. Si muoveva come una teenager, ma aveva ventiquattro anni - portati benissimo, tra l'altro. «Sono una volontaria. Spero di essere assunta, un giorno».
Joy era simpatica, ma le mie emozioni rimanevano nascoste. Lei lo aveva già capito, ma credeva fosse colpa dell'incidente. Peccato sia stata così fin dalla nascita. Salite in ascensore, Joy mi guardò con un dolce sorriso. Non ricambiai, però la fissavo con occhi lucidi, ma non piangevo. Era la mia intenzione, ma non ero una tipa emotiva.
Sapevo che certe persone erano buone e cordiali, ma non mi fidavo mai abbastanza. La vedevo comunque come un essere dal cuore morto, e che quel sorriso, in realtà, fosse solo una maschera. Perché vivere con mia madre era dura. Era il tiranno, colui che ti ostacola nella vita, che ti costringe a fare qualcosa che non vuoi fare. Aleksandr era l'unico che si salvava dalla sua tirannide.
«Sei sempre così... giù di morale?» Mentii, scuotendo la testa. Non potevo dirle che mi sentivo uno schifo, ne avrebbe aperto un dibattito e non avrebbe più smesso. «Tranquilla, dopo qualche giorno tutto questo sarà solo un ricordo sbiadito».
"Se lo dice lei, crediamoci" pensai, mentre le porte dell'ascensore si aprirono davanti a noi.
Camminammo fino al centralino, tra porte di vetro e una fila infinita di anziani con certificati e carte d'identità in mano. Ad aspettarmi, c'era proprio mia madre e, affianco, c'era il medico che mi aveva visitata. Mi venne incontro abbracciandomi forte, cosa che non faceva molto spesso. Rimasi sbalordita dal suo modo di stringermi tra le sue braccia, più stretta del solito.
«Dio, Theresa, mi hai fatto preoccupare!»
«Signora Güller, sua figlia ha avuto solo una botta in testa.»
Mia madre voleva vedere anche Aleksandr – e lo volevo anch'io – ma di lui non c'era traccia. L'infermiera non sapeva cosa dire. «Aleksandr non è con voi?»
«Vede, signora... lui era il più grave. Lo abbiamo portato in terapia intensiva e non abbiamo potuto fare niente.»
Non sentii più il mio corpo. Il solo pensiero di sentire la frase "Aleksandr Logan è deceduto" mi fece raggelare, così come a mia madre. Nessuno lo voleva vedere morto, soprattutto noi due.
«Oh, Signore, è morto?» domandò alzando la voce in preda al panico.
«No, è vivo». Tirò un sospiro di sollievo. Il mio cuore smise di saltare, e tutto il resto si calmò.
«Purtroppo, durante l'incidente, ha avuto una lesione traumatica al midollo osseo, nella parte sacrale e lombare. Fortunatamente non è successo niente al resto, ha solo subito un trauma psicologico che si può facilmente riparare».
Mia madre era agitata, così come lo ero anch'io. Avevo paura, paura di ciò che era successo ad Aleksandr. Di sicuro, nessuno di noi sarebbe riuscito a risvegliarlo da quel trauma. «Quello che ha riscontrato è un caso di tetraplegia ed è incurabile. Le dico solo di fare molta attenzione quando uscirà da qui, soprattutto dove andrà. Qualsiasi errore, per lui, sarà fatale».
Non riuscivo a capire le sue parole ma, a giudicare dal volto infelice di mia madre, capii che gli era successo qualcosa di terribile. Davanti a noi, arrivò una seconda infermiera, bionda dalla carnagione bianca come la neve, due occhi grandi e verdi, un sorriso smagliante, quasi sui trent'anni. Non appena alzai lo sguardo, vidi Aleksandr seduto su una sedia a rotelle salutarci con un sorriso. Il mondo, all'improvviso, mi crollò addosso.
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