Capitolo 26 - Come se fosse un terribile incubo
Come se fosse un terribile incubo
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Mi ero appena rifugiata tra le braccia di Michael, ciò mi faceva poco senso. Era la prima volta che eravamo così attaccati l'una contro l'altro, il bello era che la cosa non gli disgustava. Strinse i miei fianchi, dandomi conforto e amore, cosa che Aleksandr non poteva più darmi. Ne avevo un gran bisogno.
«Non piangere, Tessa.» mormorò accarezzando le punte dei miei capelli, lunghe e molto sottili. Sapevo di avere dei capelli perfetti, spettacolari, ma io li odiavo con tutta me stessa. Mi facevano sentire troppo bambina, come se mi fosse bloccata la crescita.
«Dimmi cos'è successo».
La sua voce soave mi tranquillizzò in un istante facendomi dimenticare dov'ero. Cominciai a sudare freddo.
«Alec mi ha sgridata».
«Sgridata? E perché?»
«Ha cercato di alzare il tono della sua voce e poi... mi ha cacciata via».
Mi strinse di più a sé.
«Lo sai che sta attraversando un brutto periodo, per questo reagisce così».
Alzai lo sguardo e lo guardai, gli occhi marroni in controluce, le braccia attorno ai miei fianchi e il suo respiro contro la mia pelle. Non era Aleksandr, ma mi trametteva esattamente la stessa sensazione.
Michael non era mai stato così amorevole, fino a quel giorno, e in un baleno mi sono trovata a piangere sulla sua spalla. Avrei dovuto farlo con lui, non con Mike. Come potevo tradire la promessa fatta ad Aleksandr?
Fissai la catenina d'acciaio, il cuore era girato verso il suo nome e mi paralizzai.
«Perché... perché lo fa?»
«Forse, perché ha paura di perderti».
Spalancai gli occhi. Lui aveva paura di... perdermi? Rimasi in silenzio per qualche minuto, cercando di pensare a come rispondere. Certo, Aleksandr era un ragazzo dolce ma anche sensibile, ma dopo l'incidente ogni cosa che gli circondava gli sembrava incomprensibile.
Come se si stesse chiedendo "perché tutti lo fanno, tranne me?", ma se il destino gli aveva fatto un viso a cattivo gioco, non si poteva impedirlo.
Gli restavano solo venti giorni, di cui una metà era già svanita.
«Gli avevo promesso di restare al suo fianco ma...» un groppo in gola m'impedì di andare avanti.
«"Ma"?»
«... sembra non aver preso sul serio il nostro giuramento».
Cercò di dire qualcosa, di separarsi da quello strano contatto, ma il suo corpo non voleva obbedire; contro la mia volontà, le mie dita si serrarono sulle sue spalle e affondai il viso sulla sua maglietta, piangendo ancora per qualche secondo.
«Michael?» attirai la sua attenzione.
«Dimmi, Tessa».
Alzai lo sguardo e incrociai i suoi occhi, asciugandomi le lacrime con il palmo della mano.
«Pensi che ce l'abbia con me?»
Sentii un sogghigno divertito e improvvisamente mi ritrovai ad accarezzare i suoi capelli nero corvino, così sottili e così appiccicosi. Si era messo il vecchio gel dell'ex compagno di mamma, che sbadatamente aveva lasciato nel nostro bagno prima di andarsene.
«Non credo», rispose, «forse ce l'ha con me o con se stesso».
«Come fai a dirlo?»
«Lo conosco troppo bene e poi, non si fida più di me».
Riuscii a calmarmi e a trovare la forza di uscire da quella stanza. Scesi le scale e raggiunsi il salotto, cercando Aleksandr, ma la sua carrozzella era sparita. Mi girai e vidi mia madre infilarsi una maglietta rosa cipria floreale, e subito le andai incontro.
«Se cerchi tuo fratello, è con Gisel».
Rimasi rigida. Erano di nuovo insieme? Serrai un pugno senza farmi vedere, cercando di mantenere un'espressione naturale.
«Dove sono andati?»
«All'ospedale», rispose subito senza prendere fiato, «Aleksandr ha avuto un improvviso dolore alla testa che non la smetteva di infastidirlo».
La guardai storta.
«Per un semplice mal di testa... sono corsi all'ospedale insieme?»
Non appena ringhiai l'ultima parola, il dolore al petto tornò, come una forte coltellata. Era così doloroso sapere che Aleksandr non aveva chiesto di me, ma di Gisel. Ero gelosa.
«Ricordi cos'ha detto il dottore, il giorno dopo l'incidente?»
«"Qualsiasi errore può essere fatale"... lo so, mamma».
«Cerca di non crearmi troppi problemi, tra il conto in rosso e tuo fratello ne ho fin sopra i capelli».
Come se il mondo ce l'avesse a morte con lei, pensai. Aveva ricevuto da poco la chiamata di Gisel, e i suoi occhi si erano riempiti di dolore. Non trovava neanche la forza di piangere, per il semplice fatto che non ci riusciva anzi, non voleva. Mi propose di accompagnarla ed io la osservai basita.
«Perché dovrei?»
«Non c'è tempo per spiegartelo, vieni con me e basta!» e mi trascinò fuori di casa prendendomi per il braccio. La sua presa era così forte che facevo fatica a gestire il dolore. Resistetti, almeno per qualche minuto, per poi sussultare.
La macchina si fermò davanti alle porte automatiche dell'ospedale. Scendemmo velocemente, e la mamma si affrettò ad afferrarmi nuovamente il braccio.
«Entriamo, prendiamo l'ascensore e poi ce ne andiamo».
«Come, scusa?»
«Ti ho fatta venire qui perché Aleksandr me l'ha chiesto, quindi accontentalo».
Reagii alla sua presa agitando la mano liberando il mio braccio dov'era rimasto le impronte delle sue unghie.
«Non voglio vederlo!»
«È meglio se obbedisci, Theresa».
Ci fissammo per qualche istante. Volevo ribellarmi, ma la mia voce non mi accontentava ed il mio corpo, improvvisamente, sembrava aver cacciato via tutte le forze che mi erano rimaste, così, sospirando rumorosamente, mi appoggiai di più a lei annuendo.
Non potevo deludere Aleksandr, avevamo un giuramento e la catenina d'acciaio che portavo attorno al mio polso diceva tutto: "per sempre insieme, fino alla morte".
Prendemmo l'ascensore e rimanemmo in silenzio, io abbracciata a lei come una bambina che era appena stata rimproverata o picchiata da qualcuno. Ciò che riprese a scorrermi nella mente era a dir poco fastidioso: quella notte, Gisel e Aleksandr insieme che ridevano.
Chiusi immediatamente gli occhi cercando di non ripensare a quella scena, e a quel punto un profumo inebriante invase le mie narici aiutando a distrarmi. Il profumo inconfondibile del Chanel n.5 di mia madre – un regalo del suo nuovo fidanzato, aveva detto.
«Mamma», sussurrai richiamando la sua attenzione, «credi che Alec sia arrabbiato con me?»
Mi rivolse un sorriso, forse il primo da quando aveva smesso di darmi troppe attenzioni. Fu un miracolo.
«Perché dovrebbe esserlo? Voglio dire, ti vuole tanto bene e pensa sempre a te».
«Il fatto è che... mi ha sgridata».
Alzò gli occhi al cielo.
«Era arrabbiato con se stesso, mi ha detto che sarebbe voluto morire immediatamente, ma la coscienza gli aveva ricordato che c'eri tu con lui».
D'un tratto, una fitta allo stomaco mi colpì. Non credevo che Aleksandr sarebbe arrivato al punto di dimezzare il tempo che gli restava da vivere.
Aleksandr... perché?
«Gisel voleva solo farlo divertire un po' e lui mi ha confessato che stare con lei non aveva senso, perché non erano consanguinei».
«Come sarebbe a dire?»
«Preferisce divertirsi con la sua famiglia, in particolare con te e Lara», sorrise mentre una lacrima le rigò il volto, scombinando lentamente il trucco, la voce incrinata e il cuore a pezzi, «tu non sai quanto è importante per lui, soprattutto adesso».
Mi ritrovai ad abbracciarla amorevolmente. Ringraziai il Cielo di essere da sola con lei in quell'ascensore, che stava salendo fino al quinto piano. Sembrava un viaggio piuttosto lungo, ed io avrei voluto così tanto poter parlare di Alec a mia madre.
Le porte si aprirono e camminammo fino alle poltroncine rosse in fondo al corridoio, dove Gisel era lì ad aspettarci. In lacrime.
«Mio, Dio, Gisel», esclamò mia madre, «è grave?»
«No, signora», rispose, «deve rimanere qui in modo che gli infermieri possano tenerlo sotto controllo, il mal di testa era talmente forte che ha rischiato perfino di andare in coma».
«Ma sta bene, adesso?»
Gisel abbassò lo sguardo afflitta, come se stesse per dire "purtroppo, no".
«Non lo so, non mi hanno nemmeno permesso di avvicinarmi alla stanza perché non sono una sua parente.»
L'espressione di Gisel era indescrivibile, come se la mia anima si fosse reincarnata nel suo corpo. Non credevo che si sarebbe preoccupata così tanto per Alec, eppure si conoscevano a malapena. Mia madre si precipitò davanti alla porta della stanza chiusa, bussò e subito i dottori riconobbero il suo volto, chiedendo: «Lei è la signora Güller, madre del ragazzo?»
Annuì ed entrò in fretta e furia, e con lei i dottori. Gisel ed io rimanemmo fuori ad aspettare qualche buona notizia.
Mi sedetti su una poltroncina e la guardai male, ripensando ancora al sorriso di Aleksandr mentre lei correva dietro di lui con la carrozzella. Era davvero felice, e con me non lo era stato, o così credevo.
«Tessa», mormorò sedendosi accanto a me, «ci ho provato.»
«A fare cosa?» chiesi sottovoce.
«A non farlo suicidare».
La mia espressione cambiò, diventando neutra.
«Ero con lui, quando improvvisamente lo disse, ed io non sapevo cosa fare. Sembrava... determinato, deciso a farlo, perché non sopportava l'idea di non poterti più proteggere.»
«Come gli vengono in mente queste idee così... folli?»
«Non so spiegartelo, l'ha detto senza pensarci due volte, poi ha fatto il tuo nome e ha cambiato idea».
Non credevo che Alec avesse istinti suicidi improvvisi, non me lo aspettavo. Era tutto così assurdo, cose del genere capitavano solo nei film, nei libri, o ti capitava di vederle sul telegiornale locale. Mai avrei pensato che sarebbe successo davvero, e a me.
Mi girava la testa, diventò sempre più pesante come se volesse scoppiare.
Presi un cono di cartone da terra – o quel che sembrava effettivamente cartone, che aveva lasciato qualcuno sul pavimento bianco dell'ospedale -, e vomitai. Lo sentii improvvisamente spingermi da parte tutti gli organi interni, compreso il cuore, e dovetti piegarmi in avanti e vomitare ancora, e ancora.
Mi sentivo male, come se avessi ingerito qualcosa di marcio e contro la mia volontà.
«Tessa, stai bene?»
Alzai lo sguardo e tossì leggermente.
«S-sì, sto bene... sto bene».
«Non mi sembra».
«Smettila di preoccuparti per me!» sbottai.
«Mi preoccupo per te, Tessa. Sono la tua migliore amica, ed è giusto che ti stia vicino. Non puoi contare sempre su tua madre o i tuoi fratelli, è sbagliato».
Serrai le palpebre a due fessure, fulminandola con lo sguardo.
«Tu... non puoi dirmi cosa è giusto o sbagliato. È la mia vita e la gestisco io!» gridai arrabbiata, e di colpo un altro conato di vomito mi fece abbassare di nuovo la testa.
Non appena sollevai nuovamente lo sguardo, la mia visuale leggermente offuscata venne calamitata inspiegabilmente da due figure che avevano appena oltrepassato lo stipite della porta dove mamma era entrata. Battei le palpebre e cercai di alzarmi, appoggiando il cono pieno di vomito sulla poltroncina.
Mi avvicinai alla porta che stranamente era socchiusa. Presa dalla curiosità, avvicinai l'occhio davanti a quel piccolo vuoto e sbirciai.
C'era mia madre, un dottore e tre infermieri. Uno di loro stava smontando la macchina respiratoria dietro la carrozzella di Aleksandr, mentre l'altro lo adagiava sul cuscino tastandolo appena con i polpastrelli. Era proprio lì, su quel letto dalle lenzuola bianche e odorose di disinfettante, quasi... morente.
«Temo che il tempo di vita di suo figlio si sia dimezzato», disse il dottore un po' amareggiato, osservando il volto piangente di mia madre. «Purtroppo è a causa all'improvviso dolore ai nervi neurali, dovuto all'incidente di qualche mese fa, che gli ha causato questo mal di testa».
Il fiato mi si bloccò in gola, e feci due passi indietro, ma le gambe non mi reggevano, era inutile. Il suo tempo di vita... si era dimezzato?
«L'importante è che sia ancora in grado di respirare, anche se con la macchina artificiale. I battiti del cuore sono regolari, riprenderà di sicuro coscienza tra un paio d'ore».
M'imposi di rimanere in piedi, di distogliere lo sguardo, di andare via da quella porta. Assurdamente, la prima mi riuscì meglio della seconda e della terza: non riuscivo a smettere di fissare il volto addolorato di mia madre, la mano sul cuore e le gambe tremolanti.
No, non è possibile...
ditemi che è solo un brutto incubo...
non può essere vero, no...
«E quanto gli resterà, adesso?»
«Dieci giorni, forse sette».
Non deve morire.
Strinsi i pugni e sentii le unghie affondare nel palmo della mia mano. Non sapevo neanche se stavo più male per la nausea, per il dolore lancinante alla mano, per la testa che non la smetteva più di girare.
O per Aleksandr in fin di vita a cui sembrava essersi ridotto il suo cuore, come se un artiglio gelido glielo tenesse chiuso fra le dita, con una stretta forte e dolorosa, per sopprimerne gli ultimi battiti. Volevo entrare, andare davanti a lui, accarezzare la sua mano e dormire accanto a lui.
Non deve morire, non deve morire, non deve...
Indietreggiai e distolsi lo sguardo, le lacrime che riempivano i miei occhi, il sudore sulla fronte e il cuore palpitante. Aleksandr era lì incosciente, non sentiva niente, neanche il suono del vento contro la finestra della stanza. Sembrava già morto.
Gisel mi venne incontro lentamente, le braccia attorno al grembo. Sembrava timida, o aveva paura di chiedermi il motivo per cui piangevo.
«Tessa...» si limitò a dire con voce quasi inudibile, senza farsi sentire dalla gente attorno a noi. Sembrava sconvolta, ma sapeva che prima o poi, doveva succedere.
«Non tornerà più a casa, resterà qui fino alla fine dei suoi giorni».
«Venti giorni in ospedale?» domandò intontita.
Scossi la testa, stringendo gli occhi.
«Gli restano... dieci giorni...» e subito dopo nascosi il volto dietro le mani piangendo e singhiozzando come non mai, sentendo poi la mano di Gisel toccare la mia spalla.
Non deve morire.
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