Capitolo 21 - Tra sogno e realtà
Tra sogno e realtà
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Il mare era calmo e cristallino quel trentuno di luglio. I gabbiani volavano bassi, acchiappando i pesci che saltavano col proprio becco. C'erano due bambini in riva al mare, che si schizzavano l'acqua giocosamente, ridendo e mostrando i loro dolci sorrisi, e una donna che leggeva La donna del fiume – il romanzo preferito di mia madre.
Le mie ferite erano quasi guarite, così come i lividi e le cicatrici, e la mia pelle era tornata bianca come il latte, lentigginosa e morbida. Non dovevo più preoccuparmi del dolore che le ossa, ogni tanto, mi procuravano; così anche per Michael.
Alec era proprio accanto a me, con le braccia appoggiate ai manici della carrozzella. Erano già passati dieci giorni – contando anche quei tre giorni dalla chiamata del dottore – e le sue condizioni stavano peggiorando più velocemente del previsto, aveva detto il dottore il giorno prima.
Non dovevo abbattermi, ma l'istinto continuava a dirmi di piangere e sfogare il mio dolore. Osservai, poi, il suo sguardo diventare pian piano assente, come se stesse diventando improvvisamente cieco. Voleva ammirare la riviera da vicino, prima di trascorrere i suoi ultimi dieci giorni in ospedale, con una flebo infilata nel braccio e una macchina respiratoria.
Non osai immaginarlo in quelle condizioni, ma vederlo con un tubo alla gola e un apparecchio respiratorio artificiale mi faceva stare davvero male. Non avrei mai pensato che un semplice momento di infelicità avrebbe causato tutto ciò. Me ne stavo seduta sui sassi e li lanciavo nell'acqua con rabbia e disprezzo verso me stessa, rendendomi conto del guaio che avevo provocato.
Non è stata colpa tua.
Mi veniva da piangere, ma cercavo in ogni modo di trattenermi, anche perché Alec non voleva vedermi triste. Dovevo sorridere ed essere felice di restare al suo fianco ancora un po'. Fu un'impresa ardua. Ricordo che mia madre e Michael cercavano di allontanarmi da lui per "non peggiorare la situazione", ma si resero poi conto che Alec aveva davvero bisogno di me, così mi lasciarono stare.
«Tessa», attirò la mia attenzione con quella poca voce che riusciva a tirar fuori ,«a cosa stai pensando?»
«A quanto sia bello l'oceano». Non potevo dirgli che stavo pensando alla visita del dottore e oltre ad arrabbiarsi, sarei tornata al punto di partenza: depressa e senza uno scopo nella vita.
«Mi piacerebbe fare un disegno».
«Non sei capace» commentai con un sorriso.
«Potresti farlo tu».
«Non ho il blocco a portata di mano».
Mi strinsi nelle spalle, abbracciando le mie stesse gambe nascondendo il volto. Alec riusciva a vedermi con la coda dell'occhio, a volte riusciva anche a capire a cosa stessi pensando in quel preciso istante. Facevo fatica a nascondergli le cose, anche le più banali, ma non volevo perderlo prima del tempo cioè, litigare e spezzare, infine, la catena che ci unisce. Sarebbe stato un vero e proprio disastro.
«Sai a cosa penso quando vedo l'oceano?» Mi accigliai curiosa girandomi verso di lui. «A quello che mi disse la mamma una settimana fa. Ti confesso che, ogni volta che lo guardo – anche da lontano -, sento crescere dentro di me la paura di morire».
«Cosa ti disse la mamma?»
Deglutì con fatica. Il tubo che gli misero in gola tre giorni prima gli impediva di mangiare bene e ingoiare la sua stessa saliva. Mi chiesi come ci si sentiva ad essere in quelle condizioni, anche ben peggiori. Alec non meritava di stare su quella sedia a rotelle anzi, ancora meglio, non meritava affatto una sorella irresponsabile e bronciona come me.
«Quando morirò, andrò dove la brezza marina vorrà portarmi».
«Ti sei già fatto un'idea...» la mia voce era malinconica e leggermente incrinata, ma riuscii a trattenere le lacrime. «Non è così?»
«In realtà no, ma non mi dispiacerebbe immaginarmi un mondo oltre la vita».
Mi raccontò che il suo paradiso era come un grande prato di girasoli, dove avrebbe potuto correre libero e felice senza pensare alle conseguenze. Lì non avrebbe mai piovuto, a meno che non si ripensi al passato o ad una vita infelice. Aleksandr non avrebbe mai pensato ai suoi ultimi giorni, si sarebbe costruito una seconda vita, dove nessuno avrebbe potuto dirgli cosa fare. E da lì, sarebbe stato davvero felice.
Mi alzai e mi sedetti sulle sue gambe, appoggiando la testa sulla sua spalle, e lui rimase fermo. Il calore del suo corpo si sentiva pochissimo – era gelido, come se fosse un cadavere vivente. Non si muoveva, parlava poco e non sentiva più il mio balbettare. Ero distrutta. Il pensiero di doverlo lasciare mi demoralizzò. Era come doversi staccare un pezzo di pelle, cancellare un ricordo, tagliare un frammento del mio cuore. Aleksandr era il mio secondo rifugio, dopo me stessa.
Mi rifugiavo spesso nella mia mente, nascondevo i miei sogni e i miei segreti, e nessuno ebbe il coraggio di farli uscire. Semplicemente per timore. Il mio sguardo di ghiaccio, lentamente, si stava sciogliendo, trasformandosi in un lago infinito. Come sarebbe stata la mia vita senza di lui? Un vero e proprio incubo.
«Aleksandr...»
«Dio, Tessa... quando la smetterai di chiamarmi così?» alzò lo sguardo in cielo e cominciò a ridere, nonostante la difficoltà nel parlare ed emettere suoni, visto il tubo e la macchinetta dietro la carrozzina, nascosta da un vecchio lenzuolo.
«Mi piace molto pronunciarlo».
«Anche il tuo è bello da pronunciare, però mi piace molto di più chiamarti soltanto "Tessa"».
«Certo che mi hai dato un bel nomignolo» risposi ironicamente e lui ridacchiò appena. Il suo sorriso era davvero contagioso; non avrei mai pensato che, un giorno, avrei sorriso davvero – e che avrei continuato a farlo -, era merito suo.
«A me piace» disse respirando lentamente e con voce leggermente roca, tossendo appena.
«Hai sete?» gli chiesi e lui annuì.
Mi alzai dalle sue gambe e presi la bottiglia di plastica, dove mamma aveva infilato sul collo della bottiglia una cannuccia per farlo bere – in verità, erano due. Lo avvicinai alle sue labbra e lo feci bere pian piano. Cercai di rivolgergli un sorriso, ma non ci riuscivo. Era così... vulnerabile. Non sembrava davvero quel dolce ragazzo atletico e scatenato di prima.
«Cavolo», si schiarì ancora la gola, «non avrei pensato di perdere in fretta la voce».
«Sei un gran chiacchierone, ultimamente».
«Lo so» sorrise dolcemente. M'infilai i calzini e le scarpe e afferrai le maniglie della sua carrozzina, chiedendogli poi dove andare. Mi rispose di andare a prendere un gelato in quella nuova gelateria, che portava il nome di un libro che mi era abbastanza familiare.
«Perché proprio lì?» domandai.
«Vorrei mangiare un gelato con te, prima di...» si fermò e inspirò con difficoltà, come se fosse in procinto di piangere. Decisi di non lasciarlo finire, avendo capito l'intenzione e senza fargli altre domande mi avviai con lui verso la rampa.
Durante il tragitto, osservammo da lontano quei bambini che giocavano in riva al mare, senza pensieri in testa e col sorriso in bella mostra. Sembravamo proprio io e lui, a dieci anni.
Ricordo che, alla nascita di Lara, avevamo smesso di parlarci. Da una parte era colpa di nostra madre che, dopo aver litigato con il padre biologico di Aleksandr, ci aveva chiusi in due stanze diverse. Suo padre lo voleva indietro, dicendo che Lauren non era una madre perfetta – secondo lui educava male i suoi figli, li maltrattava e spesso li faceva sgobbare. Non era mai stato così finché, quando Lara festeggiò un anno, non mi costrinse a farlo.
«Ho bisogno di una mano. Quindi, vedi di non combinare guai».
Seguirono poi botte, insulti e altre cose che preferirei non ricordare. Alec ed io, da bambini, eravamo inseparabili. Da quando venne a sapere che i fratelli Rivers e altri ragazzi più grandi di me di un anno mi avevano preso di mira, giurò di proteggermi. Ora che era finito su quella sedia a rotelle, non poteva.
Perché non lasciava che fosse Michael a proteggermi? Era davvero geloso? Pensavo e ripensavo a quelle parole, ed io non credevo che un giorno avrebbero litigato per me. Per la loro sorella minore, senza escludere la piccola Lara.
«Chissà perché il posto si chiama proprio "L'ombra del vento"».
«Non lo sapremo mai».
Arrivammo davanti alla porta della gelateria e qualcuno dall'altra parte, con gentilezza, ci aprì la porta, facendo suonare il campanellino arcobaleno appeso sopra. Era un uomo sulla sessantina, con un vecchio cappello in testa, un abito elegante e un bastone di legno.
«Grazie, signore».
«Si figuri, signorina» sorrise, tenendoci la porta per farci entrare nel locale. Le pareti erano dipinte di un turchese acceso, un paio di strisce ondulate bianco panna.
Non ordinai niente, per il semplice fatto che odiavo i dolci. Aleksandr decise di prendersi una coppa media con fragola, limone e panna. Il modo in cui avevano decorato il dessert – con un ombrellino colorato e un paio di ciliegie candite – risaltava molto il suo aspetto.
Nei suoi occhi vidi allegria, mi bastò solo un attimo per capirlo. Ci sedemmo su un tavolino accanto alla finestra, osservando le persone camminare lungo il marciapiede. In quel momento circolavano poche automobili, per il semplice fatto che mezza città era in spiaggia. Eravamo fortunati ad aver trovato un angolo di costa un po' isolato, prima di entrare nella gelateria.
Presi il cucchiaino e lo aiutai imboccandogli lentamente un pezzo alla volta. Sembravamo madre e figlio, anche se la cosa risultava piuttosto ridicola. Se si trattava di Aleksandr, perché no?
«Com'è il sapore?» gli chiesi.
«Ottimo, per quanto riesca a sforzare di muovere la mascella».
«Non devi masticarlo, si scioglie in bocca».
«Io l'ho sempre fatto».
Mi sfuggì un dolce sorriso. Arrivata a metà coppetta, presi la bottiglietta e avvicinai la cannuccia alle sue labbra lasciandogli bere un goccio d'acqua. Aveva spesso la gola secca.
«Mi... dispiace».
«Non devi dispiacerti».
Mi appoggiai allo schienale della sedia girandomi verso la vetrata del locale. Aleksandr mi osservò per un'istante, per poi farmi una domanda del tutto insolita.
«Mi vuoi bene?»
Gli rivolsi un dolce sorriso. «Certo, perché mi fai questa domanda?»
«Sei gentile con me, ma non con gli altri».
Distolsi lo sguardo per un po', poi tornai a guardarlo. Ciò che stava dicendo era la verità nuda e cruda. «So di essere volgare con le altre persone e per una ragazza non è neanche un pregio...»
«Ecco perché non hai amici», balbettò sottovoce ed io fui in grado di sentirlo.
«Cosa hai detto?» alzai la voce irritata. Davvero aveva detto questo? E tutto quello che, inizialmente, mi aveva detto cos'erano? Mi sentii presa in giro. La gente ci stava guardando e onestamente, non m'importava assolutamente niente.
«È la verità: sei decisamente volgare ed è anche per questo che nessuno ti rivolge la parola».
«Quindi è questo che pensi di me?»
«Tessa...»
«Smettila».
Se avesse potuto farlo, mi avrebbe gridato in faccia, ma non poteva farlo. La macchina respiratoria che portava dietro la carrozzina gli faceva uscire a malapena la voce dal tono normale, ma nei suoi occhi vedevo rabbia. La risata gli salì alle labbra in maniera spontanea e improvvisamente mi sentii umiliata. Non poteva farlo, non era giusto neanche nei miei confronti.
«Adesso, ti farò io una domanda: perché non vuoi che Mike mi protegga?»
Fece leggermente spallucce senza motivo, ignorando la mia domanda, continuando poi a leggere la rivista di dolciumi sul tavolo. «C'è un motivo se ho detto di no».
Dalla sua espressione era più che evidente che non aveva la più pallida idea di quello che gli avevo appena detto, era come se si fosse risvegliato da un sonno eterno. Odiavo a morte quel suo atteggiamento. Sul suo viso potei leggere la rabbia e la gelosia che s'impossessava lentamente di lui. «Mike è inaffidabile» ringhiò, come se la cosa lo innervosiva.
Sgranai gli occhi sentendo il tono "gentile" della sua voce pronunciare quella parola. Inaffidabile. Perché diceva così di suo fratello?
«Ha rischiato la pelle per me, mi ha rivendicata dopo quello che quei... quei...» non riuscii a pronunciare l'aggettivo anzi, la parolaccia che avevo in mente per descriverli, per il semplice fatto che odiavo chiamarli per nome. Non ero né la loro amica né la loro nemica; ero il loro passatempo preferito durante la ricreazione.
«"Quei" cosa?» m'incitò lui a continuare.
«Quei gorilla dai neuroni scollegati», lo dissi tutto d'un fiato. Sentii la sua risatina maliziosa e ciò m'innervosì ancora di più. Razza di decelebrato! «Cazzo, ed io che mi ero illusa.»
«Di cosa?»
«Di te, ecco di cosa. Sei geloso di Mike e non vuoi che nessuno mi protegga, tranne te». Alec abbassò lo sguardo pentendosi di ciò che aveva detto. La presi per una sceneggiata teatrale quando in realtà, la sceneggiata la stavo facendo soltanto io. «Come speri di potermi difendere seduto su quella sedia, eh? Me lo spieghi?»
Sentii improvvisamente la testa come se si trovasse sott'acqua, tutto quello che mi circondava, in quell'istante, sembrava ovattato, come se mi avessero ostruito le orecchie con ovatta e cotone. "Oh, Dio, mi sento malissimo."
Mi risedetti sulla sedia, allontanando così gli sguardi della gente curiosa attorno a noi. «Tessa...»
«Lasciamo quello stupido gelato sul tavolo e torniamo a casa. Non voglio restare qui un secondo di più».
Rimpiansi di non essere a casa mia, al sicuro nella mia stanza. Mi sono lasciata umiliare per colpa di una stupida fitta di gelosia. Volevo morire.
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