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Capitolo 20 - Perfect





Perfect

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Tornammo a casa sfiniti, mia madre in primis. Quella giornata era afosa, sembrava non volesse passare più. Ero seduta sulla morbida stoffa del divano, sentivo le braccia e le gambe così deboli e doloranti che niente mi avrebbe concesso di rialzarmi dai cuscini sotto la mia schiena.

Aleksandr era proprio davanti a me, dall'altra parte del divano. Mia madre, per adagiarlo perfettamente sui cuscini, si era fatta aiutare dal vicino. Mi sentivo così lontana da lui e avrei voluto tanto potergli stare vicino, ma non volevo. Ricordavo ancora quel bacio e ancora non riuscivo a togliermelo dalla testa, era stato assolutamente fantastico. Infondo, cosa c'era di brutto?

«Come vanno i lividi?» mi chiese con voce roca.

«Male», risposi osservando il soffitto bianco come il latte.

«Non senti caldo?» gli chiesi poi. Lui scosse la testa e, rialzandosi coi gomiti – con fatica, per giunta – cercò di osservarmi meglio.

«Ho perso il sapore e non sudo più e forse smetterò anche di muovere le braccia», rispose con tono malinconico «quindi, approfittane ora.»

Non aveva tutti i torti, visto che la sua vita era a pochi passi dalla fine, e così presto. Decisi di rialzarmi e gattonare verso di lui, appoggiandomi sul suo petto, la testa sulla sua spalle e un braccio attorno alla vita.

Non avrei mai immaginato che uno sguardo lucente come il suo, tra un giorno e l'altro, si sarebbe spento e il solo pensiero di vederlo dentro una bara mi fece raggelare il sangue nelle vene. Io e lui eravamo... unici, avevamo qualcosa che ci differenziava dal resto della famiglia.

La sua mano, poi, andò ad accarezzare i miei capelli e, lentamente, scese verso il braccio e sfiorò i miei lividi ancora di un colorito violaceo. Ho sempre odiato il modo in cui alcuni ragazzi mi guardavano e, nel caso dei fratelli Rivers, toccare il mio corpo mi aveva sempre messa a disagio, soprattutto con mia madre.

«Alec», mormorai, «non voglio che tu vada via».

«Neanch'io voglio, ora che siamo riusciti a riavvicinarci dopo anni».

Respirai profondamente, appoggiando il volto nell'incavo della sua spalla. Si mosse appena, infilando le braccia sotto le mie e si sistemò meglio contro di me circondandomi i fianchi. Sentii il suo cuore battere contro il mio petto e per un istante chiusi gli occhi, concentrandomi su quella pulsazione regolare. Era così piacevole.

«Da bambini siamo sempre stati insieme, no?» rialzai poi lo sguardo incrociando il suo.

«Non sempre», rispose, «quando è nata Lara, abbiamo smesso di giocare insieme».

I suoi occhi mi parlavano e mi dicevano tutto quello che sentiva e teneva dentro di sé, in quel momento. Alec rimpiangeva quei giorni in cui io e lui non ci eravamo neanche guardati per un secondo, ma sapevo che, prima o poi, ci saremmo ritrovati.

«Theresa», sussurrò avvicinando la sua mano alla mia, sfiorando poi le dita, «vorrei trascorrere ogni secondo che mi resta con te».

«E cosa vorresti fare?»

«Tutto quello che non ho potuto fare».

Ripensai ancora a quel bacio. Oh, maledizione!

Una parte di me avrebbe voluto che non l'avessi fatto – che la mia "cotta" fosse rimasta tra me e me. Una parte di me, una piccolissima parte nella mia testa, sarebbe voluta rimanere lì, tra le sue braccia, in quel preciso momento, a godersi il sapore delle sue labbra.

Anche se non sapevo effettivamente se quel che avevamo fatto era normale.

Come poteva un ragazzo affascinante come Aleksandr essere... così comprensivo? Certo, era il mio fratellastro, ma non credevo che si sarebbe lasciato andare così facilmente, al punto di baciarmi. Ovviamente sapeva che era una cosa stupida, ma non voleva ammetterlo.

La domanda era: perché? Nessuno apprezzava la mia persona, nessuno riusciva a capire il mio modo di pensare e di indossare, giudicavano i miei capelli e i miei seni, mi prendevano per nerd quando, in realtà, ero l'esatto contrario.

Ogni cosa di noi era preclusa, malsana, sbagliata... e terrificante. Era terrificante anche solo pensarci, e quello fu lo sbaglio più grande di sempre. Da bambina non ci avevo mai riflettuto veramente - da quando fui presa di mira dagli altri bambini. Non volevo nemmeno rifletterci – avrei voluto godermi quella specie di sogno interminabile che la mia mente proiettava. Commisi parecchi errori - anche di gravi, oltretutto - ma quello era un miscuglio tra il dolce e il sbagliato.

«Posso... chiederti una cosa?» mi azzardai a dire e lui annuì. Deglutii cercando di tirare fuori le parole. Era difficile, anche perché il dolore alla mascella non mi dava tregua. «Cos'hai provato quando... beh, mi hai baciata?»

Distolse lo sguardo per un paio di secondi, poi torno a guardarmi disegnando un ghigno malizioso in volto. «Tu, invece?»

Sentii gli occhi bruciare, una lacrima scivolò lentamente lungo la mia guancia. Il dolore agli occhi divenne sempre più insopportabile. «Non... non lo so, in verità...» feci una lunga pausa, senza sapere nemmeno come continuare la frase e per un lungo istante, ci fissammo.

«Sei pentita?» mi chiese, guardandomi dritto negli occhi. In un attimo, una vampata di calore m'indebolì. Alec si appoggiò sul bracciolo del divano, osservando il lampadario sopra di lui. «Siamo in due, allora».

Alzai leggermente la testa e la inclinai leggermente, osservandolo confusa.

«Cosa vuoi dire?»

«Non avrei dovuto» confessò.

Rimasi allibita. «Aleksandr Logan che si pente di qualcosa? Cielo, sto sognando!» dissi con tono ironico. Il mio istinto diceva che stava per succedere qualcosa di brutto, e non mi riferisco allo schiaffo sul braccio che lui, dopo qualche minuto, mi sferrò dolcemente prendendo la cosa sul ridere.

«Trovi la cosa divertente, Harper?»

«Se si tratta di te, sì» sorrisi maliziosa.

«Stronza» sibilò lui.

«Ti ho sentito».

Mi avvicinai ancora al suo viso, mettendomi istintivamente seduta accanto a lui e improvvisamente avvampai. Il mio corpo fu scosso da brividi di terrore e sentii improvvisamente freddo, in ogni parte della mia pelle. Mi faceva male il petto e riuscivo a malapena a respirare, mi sembrava di avere un blocco di cemento armato sui polmoni.

La mia mente fu scossa dal ricordo di quella scena e, anche se il cuore aveva faticato a rallentare la sua improvvisa corsa, la paura mi attanagliò lo stomaco. I capelli mi erano cresciuti di un paio di centimetri, e me li trovai davanti il viso.

«Non mi prendere in giro» socchiusi leggermente gli occhi cercando di rende la cosa spaventosa, invece Alec mi prese in giro e cominciò a ridere scostandomi una ciocca di capelli dal volto, liberando l'occhio sinistro.

«Caspita, sei eccezionale quando cerchi di fare la mia parte», disse ironicamente. Dopodiché, alzò leggermente il collo con la speranza di potermi... ecco, sfiorare la punta del naso.

Ero ansiosa di poter di nuovo rivivere quel momento, ma la voce di nostra madre che ci chiamava ci costrinse a distogliere lo sguardo e smettere di pensarci, proprio nel momento in cui avevo appena arricciato le labbra.

«Dovrai aiutarmi...» disse Alec con voce roca «...a rimettermi sulla sedia a rotelle».

«Sarà difficile, dal momento che pesi quanto due macigni» risposi cercando di farlo ridere, e così fu. Michael arrivò davanti allo stipite della porta della cucina e, vedendomi in difficoltà – nonostante le garze e le ferite ancora doloranti -, decise di darmi una mano a far sedere Aleksandr sulla sedia a rotelle. Lui lo sollevò per i fianchi, io per le caviglie. Cominciò a ridere come una gallina impazzita, mentre lo adagiavamo sui comodi cuscinetti della carrozzina.

«Devi dimagrire un po', "bello di mamma"», disse Mike, «da quando sei seduto lì, hai messo su pancia».

Si alzò leggermente la maglietta mettendo in mostra la pancia ancora piatta, ed io improvvisamente distolsi lo sguardo imbarazzata. L'avevo visto un sacco di volte a petto nudo, e in quel momento me ne vergognai. «Io non la vedo».

«Comunque sia, sei troppo pesante».

«Non sono mica obeso, Mike!» Aleksandr era sul punto di alzare la voce e litigare un'altra volta, ma entrambi risero e, insieme, andarono in cucina. Michael portava lentamente la carrozzella, ridacchiando con lui fitto fitto. Avevano già dimenticato la litigata di quella mattina, e di quello ne fui davvero contenta.

Raggiunsi la cucina, dove mamma aveva preparato un buonissimo pollo arrosto per rallegrare la serata. Dopo aver versato lacrime ininterrotte, nacque la vera Lauren, la madre che tutti avrebbero voluto. Lara, finalmente, riusciva a mangiare da sola con la forchetta, e fu anche quella la felicità di nostra madre.

Come sempre, mi sedetti accanto ad Alec, col labbro superiore tra i denti e l'acquolina in bocca. Sentii, poi, la sua mano intrecciare la mia con dolcezza e con un cenno, mi disse di avvicinarsi con l'orecchio.

«Ti voglio bene.» mormorò a bassa voce, in un sussurro così debole che nessuno avrebbe mai potuto sentire. Feci finta di non averlo sentito. Mi aveva detto chiaro e tondo che mi voleva bene, ma quello era un sentimento più forte, più completo.

Sapevamo entrambi che era sbagliato, ma qualcosa ci spingeva a continuare. A continuare ad essere diversi da ciò che eravamo davvero.



Salii le scale ed entrai nella mia stanza. Vidi sul mio letto il mio walkman e un foglio di carta ocra sul lenzuolo. Mi avvicinai al letto e presi il foglio, dopodiché mi sedetti e cominciai a leggerlo.

«Il mondo sta a guardare te che ingoi lentamente la paura, l'unica cosa che dovrei fare è alzare la testa e guardare avanti. Sei così stanca di ascoltare le critiche, perché sono dappertutto; non amano i tuoi geni, non capiscono i tuoi capelli, e se nessuno ti vuole, dove vai? Vieni sempre da me. Allora, stringiamoci e facciamolo per tutto il tempo che ancora ci resta.»

Il testo mi era familiare, e solo allora capii che era una canzone di Pink riadattata nella sua versione. Afferrai il walkman, chiusi la cassetta, m'infilai le cuffie e schiacciai il tasto play. Era proprio la canzone di Pink ed ero più che sicura che sotto c'era lo zampino di Aleksandr, poi un sorriso – un vero sorriso – poteva bastare per ringraziarlo.

Eppure prima non ero così. Non sorridevo mai, sapevo solo come stringere le dita a pugno e dare un cazzotto, far finire nei guai mia madre e me stessa. Non riuscivo mai a muovermi in totale equilibrio, non avevo la sensualità per far ondeggiare i miei fianchi – ero sottosviluppata, secondo Ashley. Non ero capace di evitare litigi, e non sapevo non guardare gli altri con invidia.

Gli restavano solo quaranta giorni di vita, e dovevo trasformarli nei giorni più felici della mia vita e se c'era Aleksandr con me, tutto sarebbe stato facile.



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