Capitolo 18 - Scontro tra fratellastri
Scontro tra fratellastri
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«Cosa ha combinato questa volta?» pensai immaginandomi Mike ridotto a brandelli da un gorilla dal cervello di carta pesta.
Lucìa era in lacrime dopo aver visto il suo fidanzato picchiarsi con uno dei fratelli Rivers, una cosa era certa: mi aveva rivendicata. Non avrebbe dovuto, anche se fosse stato consapevole di quello che, poi, avrebbe fatto.
«Perché si sono picchiati?»
La mora deglutì. «Voleva... rivendicare sua sorella, dopo quello che le è successo ieri sera».
Abbassai lo sguardo sentendomi in colpa.
«Non siamo riusciti a fermarlo in tempo», aggiunse Tyler.
«Perché cazzo l'ha fatto?» alzò la voce Alec fissando entrambe le ragazze con rabbia.
«Ha voluto difendere Tessa al tuo posto».
Aleksandr sapeva benissimo che non poteva affrontare i due fratelli, dal momento che era costretto in sedia a rotelle, e che tra quaranta giorni avrebbe visto le tenebre eterne. Era arrabbiato anzi, geloso. Era come se gli avessero rubato una parte importante della sua vita, che fosse stato un ruolo o qualcosa.
Teneva lo sguardo basso e i pugni stretti, pensando sia a Michael sia a me, guardando prima le nocche delle sue mani e poi i miei occhi. Mi sentivo a disagio. Aleksandr mi voleva troppo bene e il solo pensiero di vedere, o sentir nominare, suo fratello collegato al mio nome, lo faceva innervosire. Poi inspirò, cercando di mantenere la calma.
Non mi avrebbe mai ceduta a Mike, per il semplice fatto che lo odiava. Si metteva sempre nei pasticci ed era sempre lui a tirarlo fuori, ma ciò che gli dava fastidio era la mia compagnia. Io e Michael, senza di lui. Era geloso di me e di lui. Voleva essere l'unico raggio di sole della mia vita, era più che una stupidissima gelosia.
«Raggiungiamo l'ospedale, a quest'ora Mike sarà ancora al pronto soccorso.»
Tyler camminò avanti a noi, Lucìa afferrò la mano di Gisel e camminò al suo fianco in lacrime, come se Michael fosse morto. Oh, tua madre, ai tempi, era melodrammatica.
Riuscivo a comprendere il suo dolore, ma il mio era più forte. Durante la passeggiata fino al Pronto Soccorso, Alec inspirò, tentando ancora una volta di farsi passare l'arrabbiatura. Fino a quel momento era sempre stato lui a difendermi dai fratelli Rivers. Continuava a tenere le palpebre semichiuse a mo' di fessure, i pugni stretti, la schiena leggermente curva e lo sguardo cupo.
Maledizione, come ha potuto farlo? Certo, da Michael ce lo si poteva aspettare, ma difendermi sarebbe stato un caso del tutto eccezionale. Continuai a camminargli dietro con le mani salde sulle maniglie della sua carrozzina, guardando avanti, avvolta da mille pensieri.
Non può averlo fatto davvero.
Voleva a tutti i costi vederlo e affrontarlo, nel vero senso della parola, ma non potevo lasciarglielo fare. Si sarebbero odiati ancora di più e forse in futuro non si sarebbero più rivisti. Mi sfuggì un sibilo di frustrazione. Chi volevo prendere in giro? Ero un caso perso e si vedeva anche dal lontano. Non sapevo niente su come difendersi, usavo solo le parole.
Mio nonno diceva sempre che le parole sono più dolorose di un pugno in faccia, e lui non era stupido. Infondo, l'avevo sempre saputo; prima o poi sarebbe successo. Aleksandr e Michael si sarebbero scontrati per la loro sorella minore. Era molto semplice: Alec non sopportava il fatto che qualcuno s'intromettesse nei suoi problemi e Michael era sempre stato il primo a farlo.
Nessuno dei due si sopportava, ed è stato così da quando avevano saputo dei miei problemi a scuola. Per quanto erano dolci, carismatici – e maledettamente attraenti – sapevano usare le mani. A volte, si limitavano ad usare parolacce, ma spesso perdevano subito la pazienza. Il solo nominare il mio nome li faceva irritare – e parecchio, se devo dire la mia.
Avevamo oltrepassato i palazzetti affacciati sul lungomare, a pochi passi dal negozio dove mia madre comprava i suoi abiti sciccosi e aderenti. Un negozio di abiti firmati.
Oltre ad essere una rompicoglioni, è anche una spendacciona.
Ma poi chi sono io per criticarla?
Mi sentivo ancora a pezzi, ringraziai il Cielo per essermi ritrovata ancora lì, davanti a lui. Il pensiero di vedere Michael pieno di ferite, lividi e lesioni di altro tipo mi fece rabbrividire. Tra l'altro, entrambi le abbiamo prese dai Rivers. Mi sfuggì una risatina.
«Gliela devo far pagare a quel bastardo», ringhiò Alec facendomi venire una fitta allo stomaco, «nessuno deve difendere mia sorella, tranne me.»
Non solo era arrabbiato con se stesso per l'incidente, lo era anche con Michael per avermi difesa da una coppia di scimmie strampalate. Stava impazzendo.
Mia madre era ancora lì, all'entrata dell'ospedale. Lo aveva saputo prima di noi, ed era seduta sulle poltrone di stoffa bluastre, aspettando l'arrivo del dottore. Ci disse solo che era in condizioni piuttosto gravi, ma riusciva comunque a restare in piedi.
Sollevò di nuovo lo sguardo e ci fissò. Ci osservò come se stesse aspettando chissà quale reazione preoccupante, soprattutto da me e Aleksandr. Volevo andarmene, ma ciò non sarebbe andato a mio favore; se avessi fatto una di quelle scenate melodrammatiche, si sarebbe incazzata. Mi limitai a guardarla con rancore.
«Mamma...» cercai di farle distogliere lo sguardo.
«Theresa». Voleva scaricare la colpa su di me, ma sembrava come traumatizzata quando aveva visto Michael pieno di sangue e lividi violacei sparsi su tutto il corpo. I suoi occhi erano pieni di lacrime. «Non voglio perdere anche lui», la sua voce si era incrinata in una maniera terribile.
Le andai incontro e l'abbracciai cercando di calmarla. Da una parte aveva ragione, era colpa mia. Se non fossi scappata, Michael non avrebbe mai messo piede al Pronto Soccorso. Aveva già troppi problemi, quella povera donna. Stava dicendo tre parole, riuscivo a vedere le sue labbra che lo sillabavano lentamente: "Il mio Michael".
Non appena mi vede sorridere, mi osservò stupita ed io riuscii quasi a ricambiare. Mi lasciò subito andare e andò da Aleksandr, inginocchiandosi davanti a lui, tempestandolo di domande.
Gli restano quaranta giorni di vita.
Avevo ancora la nausea, ma riuscii a farmi venire la voglia di avvicinarmi al distributore in fondo al corridoio del piano terra e spingere una moneta all'interno di essa, e mi presi una lattina di tè alla pesca fresco. Aprii la lattina e me ne scolai mezza, senza pensare a niente.
«Stai bene, Tessa?» mi chiese Tyler preoccupato.
Gli rivolsi un sorriso che a parer mio sembrava troppo forzato, forse più del solito. Tirai su col naso, lo arricciai stringendo gli occhi sentendo poi un bruciore fastidioso. Iniziai a lacrimare e cercando di evitare lo sguardo di Tyler, mi passai il braccio sugli occhi.
«Sì, sto bene», risposi con voce fioca, «come puoi vedere anche tu».
«Pensavo ti fosse venuta un'altra crisi di nervi».
«Questa volta no, fortunatamente».
Mi venne incontro toccandomi una spalla amichevolmente, rivolgendomi uno dei sorrisi più teneri di sempre. Riconobbi quell'odore di colonia inglese, lo stesso che aveva addosso la prima volta che abbiamo parlato, quando uno dei fratelli Rivers mi aveva strappato dal collo la collana di mia nonna per dispetto. Non pensavo di poterla risentire ancora, dopo quel maledetto episodio.
«Sai, non credevo che tuo fratello si sarebbe battuto con uno di quei gorilla», disse ridacchiando tra sé, «se fossi stato in lui, sarei scappato a gambe levate».
«Oh, beh, non posso biasimarti» commentai ironicamente.
«Mi stai dando del fifone, Harper?»
«Forse sì».
Scoppiammo a ridere dimenticandoci del motivo per cui eravamo lì.
«Lo sai che, per te, ci sarò sempre, Tessa», mormorò. «sei l'unica amica che ho e... non sopporto vederti soffrire per mano di due buzzurri».
Abbassai lo sguardo mordendomi la lingua, rendendomi conto di aver sbagliato, quel giorno, a parlare con un ragazzo intelligente come Tyler. Non era affatto l'unico che mi aveva rivolto la parola, al liceo e in quei momenti difficili in famiglia.
«Mi dispiace così tanto crearti problemi... non dovresti neanche esserci».
«Lo so, ma odio vedere un'amica in difficoltà e non me ne starò in disparte».
Feci un sorriso sbiadito, di sicuro poco realistico - come sempre. Tyler, infine, raggiunse Lucìa in lacrime abbracciandola dolcemente. Non appena osservai il suo sguardo incontrare quello di Tyler, notai le lacrime scendere sempre più velocemente e gli occhi gonfi e arrossati.
Vederla così triste era straziante per me, soprattutto perché odiavo vedere e sentire dentro di me la tristezza. Il mio cuore faceva fatica a racchiudere tante emozioni e la tristezza era quell'emozione che occupava tutto lo spazio.
«Tessa», sentii una voce profonda, «sei tu?»
Mi girai e vidi Michael coperto di garze, un occhio nero e tante – troppe, sanguinose, ancora fresche – ferite sul resto del corpo. I suoi vestiti erano leggermente strappati, soprattutto la maglietta, dove si vedevano i contorni del suo addome da perfetto atleta. I suoi capelli nero corvino erano sporchi e scompigliati, come il resto di lui.
Mi si spezzò il cuore. Aveva rivendicato il mio nome, la mia reputazione, la mia persona. Gli dovevo tanto. «So cosa stai per dirmi», disse anticipando quello che gli avrei detto. La sua voce era ferma, roca e inquietante. «L'ho fatto per te, sorellina».
Il modo in cui aveva pronunciato quel diminutivo mi fece lacrimare gli occhi, come mai prima di allora. Non mi aveva mai chiamato così. Sorellina.
Gli andai incontro e lo guardai addolorata, mi lasciai cadere tra le sue braccia senza dire una parola, e lui avvolse i miei fianchi con entrambe le braccia. Era pieno di sangue, e un po' mi cadde addosso sporcandomi i vestiti e il collo – aveva appoggiato la testa sulla mia, la guancia schiacciata sui miei capelli e una mano sulla nuca.
«Ti sei battuto con uno di loro, vero?» La voce di Aleksandr mi fece trasalire e istintivamente, mi staccai da quell'abbraccio pulendomi le mani sulla maglietta ormai sporca del sangue di mio fratello. Entrambi si fulminarono con lo sguardo.
«L'ho fatto per lei e per te, dovresti ringraziarmi».
Alec lo guardò in cagnesco. Se Michael non glielo avesse già ampiamente dimostrato, suo fratello avrebbe potuto capirlo anche da solo. Sapeva che i suoi giorni erano contati, voleva cambiare ogni cosa di se stesso – da quando aveva conosciuto Lucìa, aveva giurato di essere meno arrogante e impulsivo di allora. E ci era quasi riuscito.
Era una persona leale, amava la sua famiglia; me, Aleksandr e Lara in primis. Ma odiavo in modo in cui si rivolgeva al suo fratello maggiore. «Nessuno ti ha dato l'autorizzazione di farlo», ringhiò il maggiore arrabbiato.
«Oh, adesso ci vuole il permesso, Sua Maestà Aleksandr Il Magnifico?» rispose lui con tono ironico. «Forse non lo hai capito: nostra sorella è quasi morta per colpa tua».
Sbarrò gli occhi. Michael tenne le braccia incrociate, amareggiato e allo stesso tempo disgustato dal suo fratellastro che, per anni, aveva considerato più che un semplice fratello. Come un padre, colui che non aveva mai conosciuto da quando era venuto al mondo.
«Colpa mia?»
«Sì, colpa tua. Non avresti dovuto lasciare Alice, tanto per cominciare, né tantomeno bere quelle bottiglie di vodka e andare a quel maledetto rave party».
«Fatti i cazzi tuoi!» sbottò Alec, poi, ormai con la pazienza al limite.
«A quest'ora, non saresti seduto su quel ferro arrugginito!» esclamò Mike con le lacrime agli occhi e la voce incrinata. «Io... tu...» Non trovò le parole per andare avanti. Le ferite gli facevano male, per non parlare degli occhi completamente arrossati e insanguinati, tant'è che le sue lacrime si erano trasformate in gocce di sangue chiaro.
«Non... riesco ad accettare il fatto che fra più di un mese... non ci sarai più», stava davvero piangendo ed io ero ferma a guardarlo, «è compito di un fratello proteggere la propria sorella, no?»
Le sue emozioni erano contagiose, e una lacrima mi rigò il viso. Per la prima volta, Michael stava buttando fuori ciò che per molto tempo teneva dentro di sé.
«Mike... tu non puoi sostituirmi», sottolineò quella parola, come se fosse nuova per lui, «non sai neanche quello che dici.»
«E non pensi a Tessa?» Improvvisamente, il suo sguardo incontra il mio e tra noi qualcosa si sgretola. Il muro tra me e lui diventa sempre più alto, fino a trasformarsi in una torre. «Trevor e Adrian l'hanno quasi uccisa e tu non hai fatto altro che osservarla cadere e rialzarsi».
«Che altro potevo fare?» sbottò nuovamente, più arrabbiato di prima. «Sono bloccato su questa cazzo di sedia a rotelle».
«Ci sei finito da solo», indietreggiò di qualche centimetro «e poi, non è un problema mio. In fondo, nessuno deve immischiarsi nei tuoi problemi, giusto?»
Si allontanò senza dire altro, lasciandosi portare via da Tyler e dalla sua fidanzata. Lucìa lo abbracciò dolcemente senza premere troppo sulle ferite e le garze che aveva addosso, stava singhiozzando e deglutendo come un lattante.
Oltre al dolore lacerante dei lividi, i suoi occhi erano sommersi dalle lacrime mischiate col sangue che scorreva dalle tempie e un po' dagli occhi. Alec era avvilito. Avrebbe voluto piangere, ma qualcosa glielo impediva. Avvertii poi un brontolio di disgusto in fondo allo stomaco – dovevo vomitare.
«Avevi detto che era stato Mike a farti ubriacare, che eri andato in un pub nei dintorni e che non avevi la fidanzata.»
«Mi dispiace, io...»
«Ti dispiace?» ripetei la domanda alzando di più la voce, indignata. «Cazzo, Alec!»
«Non volevo, davvero», la sua voce era bassa, poco udibile. Capii che era davvero dispiaciuto, ma non riuscivo a perdonarglielo. Mi aveva mentito.
«Questa volta sto dalla parte di Mike. Risolvi i tuoi problemi da solo, dal momento che non vuoi che nessuno interferisca.»
Aleksandr mi osservò, gli occhi che mi imploravano perdono e le lacrime agli occhi. Ma io non riuscii nemmeno a sentire le sue parole successive, perché mi girava fortemente la testa e perché l'unica cosa che riuscivo a sentire in quel momento era: «Tessa, perdonami!»
No, non riuscivo a sopportarlo. Mi aveva mentito.
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