Capitolo 17 - Non lasciarmi da sola
Non lasciarmi da sola
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Mia madre mi aiutò a lavarmi, visto che non riuscivo a muovermi per colpa delle ferite e dei lividi sul corpo. Guardai in basso e vidi un'enorme ematoma quasi nero all'altezza delle costole. Era inguardabile.
Immaginai la mia faccia tumefatta, così come il mio ginocchio, e capii che dovevo essere uno spettacolo unico da ammirare. In quel momento, la donna dai capelli ramati capì di essere stata crudele e irresponsabile, che non aveva mai cercato di aiutare davvero sua figlia.
«Mamma», gemetti non appena passò la spugna sulle braschiature di sigaretta sul fianco, «fai piano, ti prego...» strinsi gli occhi non appena la schiuma centrò in pieno un graffio ancora fresco.
«Dopo aver finito, ti disinfetto tutte le ferite».
«Ci metteresti tutto il giorno, non ne vale la pena».
«Non vorrai farti venire qualche infezione».
Ne avevo già una: quella di essere picchiata a sangue da due buzzurri. Rimproverai me stessa di essere uscita di casa nel cuore della notte, cercando di abbandonare quella che era casa mia. Mi porse gli antidolorifici, li presi e mi sedetti sul bordo della vasca con la testa bassa. Tremavo, non sentivo più le ossa del mio corpo, avevo fatto troppa fatica ad alzarmi ed uscire dalla vasca da bagno, tant'è che mia madre dovette aiutarmi.
Prese un asciugamano che gentilmente tamponò su tutto il mio corpo, cercando di essere più delicata possibile. Dopodiché, medicò accuratamente le ferite aperte e mi diede un assorbente, un paio di mutandine di cotone e il vestito più sottile che aveva. Mi vide soffrire non appena l'ovatta bagnata arrivò a toccare un altro graffio, più profondo di quello precedente.
«Vuoi che faccia venire qui il dottore?»
«Preferirei andarci e poi, mi piacerebbe tanto poter camminare un po'».
Mamma sorrise e mi aiutò di nuovo a rialzarmi, accettando la mia richiesta. Non era troppo tardi per rimediare ai suoi errori, mi dissi, e diventare quella madre perfetta agli occhi dei suoi figli. «Se vuoi qualcos'altro, basta chiedere» concluse, uscendo dal bagno.
Indossai le mutandine e prima di rialzarla, appiccicai l'assorbente con delicatezza mordendomi la lingua dal dolore. Mentre mi muovevo, le ferite e i lividi si facevano sentire. Infine, il vestito. Era nero con le maniche corte, mi arrivava fino alle ginocchia e ringraziai Dio se il dolore alle gambe era quasi sparito. Oltre alle ferite, mi era perfino venuto il ciclo. Non poteva andarmi peggio. Inarcai le labbra in un dolce sorriso, felice di aver catturato l'attenzione di mia madre dopo sei anni.
Uscii dal bagno ben vestita e scesi le scale con i piedi nudi, pestando il parquet di casa un po' sporco. Vidi i giocattoli di Lara sparsi dappertutto, e non persi tempo a raccoglierli e risistemarli nel cesto accanto all'arco d'ingresso. Iniziavo già a sudare, sentivo la mia pelle diventare calda e appiccicosa.
«Coraggio, tesoro, il dottore non può aspettarci un'eternità.» disse mia madre porgendomi le ballerine nere, quelle che non indossavo ormai da anni. Le indossai velocemente sedendomi sull'ultimo gradino delle scale, e non appena alzai lo sguardo, vidi Aleksandr sulla carrozzella accanto allo stipite della porta del bagno.
«Posso venire con voi?» chiese guardando prima me e poi mia madre.
«Cosa vieni a fare?» replicò lei. «E poi non sei tu l'interessato».
«Non posso neanche fare compagnia a mia sorella?»
Mamma alzò gli occhi al cielo. «Non è tua sorella, ma la tua sorellastra».
Guardai tutta la scena, rendendomi conto di quello che stavo passando. Tutti erano preoccupati per me, Aleksandr in primis. Non avrei mai pensato di vedere lui e mia madre litigare per una cosa simile.
«Spiegami perché vuoi venire con me e tua sorella» incrociò le braccia.
«Lo sai benissimo, mamma», la donna spalancò gli occhi per qualche secondo e distolse lo sguardo, «perciò... per favore, fammi trascorrere più tempo con Tessa».
I suoi occhi erano lucidi e all'inizio, non ne capivo il motivo. Le sue lacrime cominciavano a scendere, come se il solo pensiero di non essere accanto a me lo facesse star male. Alla fine, riuscì a convincere mia madre.
Insieme, uscimmo di casa e, prendendo l'ascensore, raggiungemmo il vecchio fuoristrada di mia madre. Mentre lei aiutava Aleksandr a salire dietro e riponeva la carrozzina nel portabagagli, salii davanti accanto a lei e, lentamente, mi sedetti sul sedile della macchina cercando una posizione che non mi avrebbe fatto sentire sotto un attacco di pugni – o chissà cos'altro -, e provai ad addormentarmi maledicendo il dolore che avrei provato quando il dottore mi avrebbe visitata.
Dopodiché, mia madre mise in moto la macchina e spinse l'acceleratore. Aleksandr era proprio dietro di me e mi guardava sofferente, cercando di resistere al dolore. Non riusciva a credere a ciò che i fratelli Rivers mi avevano fatto ed era davvero arrabbiato. Lo nascondeva, ma i suoi occhi lo gridavano. Non sarei dovuta scappare, maledissi me stessa e quei dannati gorilla.
«Ti ha raccontato tutto Mike, vero?» domandò lui alla mamma, lei annuì continuando a guardare la strada, stringendo il volante arrabbiata e disperata allo stesso tempo.
«Dovresti scusarti con Tessa, l'hai sempre lasciata in un angolo e mai l'hai aiutata».
«Lo so e mi dispiace».
Alec rise amaramente incrociando le braccia. «Non ti credo, e poi le tue lacrime sono sempre state secche. Non hai neanche pianto al funerale di tuo padre, figuriamoci per i tuoi figli».
Mamma distolse lo sguardo per qualche secondo e non appena vide il semaforo rosso, si fermò. Mi osservò prendendomi dolcemente la mano, cosa che faceva soltanto con Lara. Avevo gli occhi semiaperti e guardavo il vuoto e ricordo molto bene quella conversazione.
Io e mia madre avevamo fatto pace, lei cambiò completamente registro e Mike promise a se stesso di proteggermi; da quel giorno in poi. Per quanto riguardava Aleksandr... non poteva fare altro se non starmi vicino per tutto il tempo.
«Mi dispiace di averti trascurata, Theresa».
Ebbi improvvisamente un conato di vomito quando mi resi conto di essere a contatto con la mano di mia madre, un po' rugosa e ruvida. Tra l'altro, aveva appena compiuto quarant'anni pieni. Non era lei che mi disgustava, ma era il dolore atroce alle mani. Avevo paura di essermi fratturata qualche osso del corpo, e il solo pensiero di portare il gesso mi terrorizzava. Non lo avevo mai portato, nonostante le numerose cadute sull'asfalto.
Raggiunto l'ospedale, mia madre aiutò Alec a sedersi sulla carrozzella, mentre io cercai di scendere dalla macchina senza gemere o mugolare dal dolore.
Entrata, riuscii a trovare la forza per salire le scale, non con poca difficoltà. Avevo superato situazioni di gran lunga peggiori, soprattutto quella. Aleksandr e mia madre avevano deciso di salire con l'ascensore, dal momento che non c'erano pedane meccaniche attaccate alle scale dell'ospedale, il che era davvero strano.
Raggiunto il primo piano, lei ed Aleksandr mi raggiunsero e continuammo la strada assieme. Tra l'altro, quello era l'ospedale dove io e mio fratello eravamo nati. Mi ritrovai un uomo sulla cinquantina col camice bluastro in camera, che attendeva il nostro arrivo. Era titubante, mi guardava sdraiata sul letto medico con accanto mia madre e mio fratello.
«Si spogli, signorina» mi ordinò ed io obbedii togliendomi il vestito. Lo vidi ancora più scettico quando vide i segni sul mio corpo. Tastò delicatamente i miei lividi, e l'unica cosa che potevo fare era gemere in silenzio. Il dolore era ancora forte, ben peggiore di quando le avevo prese.
«L'hanno picchiata in un vicolo. Non ero presente, ma è stato mio figlio a raccontarmi l'accaduto».
Guardò Alec per qualche istante, poi guardò me. «Meglio tenerla d'occhio per un paio di settimane. Presenta due costole rotte, apparentemente niente danni interni, numerose microfratture e una contusione al ginocchio».
"Niente male per due scimmie non addomesticate".
«Le somministro degli antidolorifici che dovrà prendere ogni giorno per tutta la settimana, poi tornerete qui e ricontrolliamo i danni».
«La ringrazio, dottore» sorrise mia madre e, dopo essermi rivestita, ci congedò con un sorriso stringendoci la mano calorosamente. Usciti fuori dall'ospedale, mi offrii di guidare la carrozzella di Aleksandr e mia madre accettò al volo.
Ci propose di restare sul lungomare assieme, soddisfacendo così la richiesta di suo figlio, promettendole di tornare a casa prima di mezzogiorno.
I colori del cielo, quel giorno, erano vividi e luminosi. Sarebbe stato il momento perfetto per trascorrere il resto della mattinata insieme, osservando i bagnanti dal lungomare, i surfisti cavalcare le onde e i bambini correre lungo la riva. Vedere quelle immagini, mi distruggevano. Non era solo perché ero cresciuta, anche perché Aleksandr non poteva più correre come un tempo.
Avevo una gran nostalgia di quei momenti felici, in cui mi sentivo davvero libera. Anche se non lo mostravo, dentro di me c'era un po' di luce, ma non ero mai riuscita a mostrarla a tutti coloro che mi volevano bene. Camminammo sul lungomare e nonostante i dolori al corpo, riuscivo a muovermi senza alcuna difficoltà.
«Stanotte ha grandinato», dissi guardando le palme leggermente piegate, «e a giudicare dal modo in cui si sono piegate le palme, direi che ha fatto una bella tempesta.»
«In estate è sempre così» rispose lui.
«All'improvviso, sei diventato esperto di pioggia e grandine?» sorrisi beffarda.
«Potrei diventarlo, in futuro» ricambiò il mio sorriso e non appena mi resi conto che stavo sorridendo di nuovo, mi schiarii la gola. Mi sedetti su una panchina riposandomi un po' le gambe ancora doloranti, Aleksandr si mise proprio davanti a me.
«Ti senti meglio, adesso?» gli domandai e lui mi guardò incredulo.
«Mike mi ha detto che... sei stato male dopo aver bevuto un bicchiere di rum».
Distolse lo sguardo un po' imbarazzato. «Sì... ma non è successo niente di che».
«Sbaglio o il dottore ti ha detto di non bere?»
«È vero, ma non m'importa se morirò o meno».
Quella frase fu un colpo al cuore. Mi raccontò della telefonata di mia madre, la sera quando sono scappata di casa. Parlava proprio di lui e della sua malattia, che a breve il suo corpo si sarebbe paralizzato completamente fino alla fine dei suoi giorni. Il suo, però, era un caso a parte. Aveva i giorni contati, perciò era riuscito a convincere mia madre a farmi compagnia durante la visita.
In quaranta giorni, avrebbe lasciato me e la mia famiglia. Aveva gli occhi lucidi e il solo pensiero di lasciarmi, per lui, era ben peggio di quello che stava passando in quei giorni, tra medicine e una sedia arrugginita. Pensavo non si trattasse di lui, rimasi sconvolta dopo il suo racconto. Cominciò a versare lacrime, meravigliato di tutto ciò che sua madre gli aveva raccontato quella sera.
Era salita in camera sua e si era seduta accanto a lui afflitta, quasi traumatizzata dalla notizia che suo figlio aveva ancora quaranta giorni di vita e che nel corso dei giorni sarebbe peggiorato. Cure non esistevano e i dottori l'avevano detto il giorno dopo l'incidente. Di sicuro, non avrebbe superato la morte di suo figlio, il primo di una lunga generazione di clandestini. Mia madre ci definiva così.
«Quanto mi resterà... da vivere?»
«Non più di un mese e mezzo.»
Vidi una lacrima rigare la sua guancia sinistra, le sue emozioni mi contagiarono in un batter d'occhio.
«Tessa lo sa?»
«No, e non dovrà saperlo finché non sarà certo.»
Non avrei dovuto saperlo subito, ma Aleksandr non era in grado di mantenere segreti del genere. Si era sempre confidato con me e l'immaginare la conversazione tra lui e mia madre mi spezzò il cuore.
«E dove andrò, poi?»
«Dove la brezza marina ti porterà.»
Credeva fosse un sogno, invece era vero. Mia madre era in lacrime dopo aver saputo la triste notizia. Da una parte, fu proprio quell'episodio a rimetterla in riga, sia con me che con Mike.
Aleksandr non aveva paura di niente, eccetto della morte. Non si sarebbe aspettato una notizia così dolorosa, per noi e per lui. L'idea di lasciarmi lo aveva distrutto, ed era anche per quello che voleva trascorrere il tempo con me. Per lui, ero il suo angelo custode.
«Ti lascio scegliere, Tessa» distolse lo sguardo tenendo una mano serrata alla ruota della sua carrozzina.
«Non ti lascerò da solo, stanne certo» dico stringendo la mano libera tra le mie con gli occhi lucidi. Anch'io avevo il terrore di perderlo per sempre, ma dovetti affrontare la realtà e accettare la cosa. Alec mi avrebbe lasciata presto.
«Non voglio vederti triste» ripetei la stessa frase che lui stesso continuava a dirmi, prima di quella sera. Nel sentirla sorrise e ridacchiò di gusto, ripensando ai momenti in cui ero davvero giù di morale. La ripeteva ancora, e ancora, e non si stancava mai.
«Sai, è strano che sia proprio tu a dirmi una cosa del genere» e sorrisi di gusto. Con lui, riuscivo a mostrare le mie emozioni senza vergogna, ed era anche quella la ragione per cui gli volevo tanto bene. In verità, l'angelo custode era lui – nel mio caso.
«Lo so, e non riesco neanche a credere di aver detto una cosa simile».
«Non è che vuoi prendere il mio posto?»
Scossi la testa e in un'istante tornai ad essere la Theresa Harper triste. «Chi vorrebbe il mio aiuto?»
«Io, ad esempio.»
Di colpo lasciai la sua mano inorridita. Non sapevo neanche cosa fare, credevo lo sapesse soltanto lui. Rimasi ferma con lo sguardo basso, giocherellando poi con le dita con aria tesa. «Lo so che non sei in grado di farlo, ma cerca di provarci».
«Sai meglio di me che sono inaffidabile».
Incrociò le braccia, alzando lo sguardo al cielo. «Sei tornata quella di sempre».
«Anche se dovessi provarci, non ci riuscirei comunque. Comincio a pensare che la mamma abbia ragione in merito a ciò».
«Perché continui a crogiolarti nella disperazione?»
«Non so... sono io a sbagliare qualcosa? È il karma che ce l'ha con me?»
«No, è colpa tua perché non vuoi accettare la realtà».
Lo vidi con un velo di sudore sulle guance e sulla fronte, e gli occhi lucidi, chiaramente febbricitanti. Ma quando lo osservai, capii che stava piangendo, rassegnato all'idea di morire senza avermi affianco.
«Io non ci riuscirò mai e sai bene il perché, almeno fallo tu».
Lo fissai sentendo le mie labbra secche, e avrei voluto tanto allungargli una mano e toccarlo, asciugare quelle lacrime. Ma mi fermai per un'istante prima di farlo.
«Se vuoi ti aiuto».
Sorrisi ed annuii sedendomi poi sulle sue gambe. Anche se mi ci ero seduta più di una volta, mi sentivo sempre a disagio. Era come se fossero già morte e il solo sedercisi sopra mi metteva angoscia.
«Hai ancora paura?» ghignò malizioso.
«N-no... è solo strano il fatto che sia seduta su di te».
Fece una finta faccia triste, cercando di essere il più melodrammatico possibile.
«Così mi offendi, lo sai?»
Alzai gli occhi al cielo. Sorride sotto i baffi e muove le ruote, andando verso la gelateria di fronte. Saremmo tornati a casa verso l'ora di cena, come avevamo stabilito con nostra madre, e di sicuro un gelato ci avrebbe aiutato a dimenticare le nostre brutte esperienze.
Alec aveva portato una bomboletta di vernice nera, presa direttamente dalla mia stanza. La sua intenzione, era quella di scrivere su un muro. Imbrattarlo, però, era da vandali, ma voleva conservare un ricordo in memoria della nostra amicizia.
«Fallo per me, Theresa», mormorò, «fallo per noi».
Non potei rifiutare una richiesta simile, oltretutto era a pochi passi dall'allontanarsi da me e dalla sua famiglia.
Unimmo le nostre mani assieme alla bomboletta sporca e umidiccia, per poi scrivere una frase a caratteri cubitali. Ogni tanto, dovetti alzarmi e finire la lettera – dal momenti che Alec non riusciva ad alzare tanto il braccio, non poteva neanche sforzare troppo i muscoli. Come disse il dottore, qualsiasi errore poteva essere fatale.
"IO E TE, LEGATI DA UNA CATENA" era la frase che avevamo deciso di incidere in quel vecchio muro, dove le coppie attaccavano i lucchetti alle maniglie di metallo ai lati. Unimmo i nostri mignoli osservando quella frase scritta sul muro.
Era il ventitré luglio di quella calda estate, quando quella scritta di vernice completò la nostra esistenza. Non era solo il nostro ricordo più bello, era la nostra promessa. «Alec», sussurrai, «ti prego... non lasciarmi.»
Lo dissi a voce così bassa che facevo perfino fatica a sentirmi da sola – ma lui la sentì benissimo. Lo capii dallo scintillio del suo sguardo, forse quello di una lacrima in procinto di rigargli quel volto angelico e innocente.
«Io non ti lascerò mai, sorellina», lo sentii dire dopo un istante, cinghiandomi poi i fianchi con dolcezza, «ovunque andrai, io ti seguirò.»
Alzai lo sguardo trattenendo le lacrime. Non avevo pianto così tanto in tutta la mia vita, e fu proprio quella notizia a spezzarmi il cuore.
«Sarò il tuo angelo custode».
Deglutii, non potevo farne a meno. Avevo una gran voglia di piangere, mentre guardavo gli occhi luminosi e impenetrabili di mio fratello, assaporando ogni goccia di dolore che, in quel momento, stava provando. Volevo piangere, ma mi sforzai di non farlo.
Se piangi, non concluderai niente.
Presi il cellulare e fotografai quella scritta, per poi avviarmi con lui verso la gelateria. Ai tempi, era nuova – inaugurata qualche settimana prima. Era più rigorosa e colorata, il luogo dove tutti potevano trovare la felicità che desideravano. Aleksandr conosceva il figlio del proprietario, che era diventato subito il suo migliore amico.
Il tutto però venne interrotto dall'arrivo di Tyler, Gisel e Lucìa, disperati più che mai. Ci chiamarono a gran voce in lontananza, attirando la nostra attenzione.
«Hanno appena portato Mike all'ospedale!» esclamò poi Gisel, il respiro spezzato e la paura nelle sue piccole iridi verdastre.
«Cos'è successo?» chiese Alec preoccupato.
«Lui... lui e Trevor si sono picchiati questa mattina».
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