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I Sette d'Amarna: ASCESA

Piccole informazioni:

• Il racconto è diviso in 3 parti, ma al suo interno c'è una sub-divisione in 7 parti più piccole (dato che è un po' lungo vi dico questo giusto perché sappiate come organizzarvi la lettura).

• È ambientato nel V secolo a.C. e al fondo trovate le note storiche, e sotto forma di commenti le tradizioni minori più specifiche. È ovviamente un racconto di fantasia, fatto quasi per gioco, quindi non mi servono professoroni so tutto io✨ Non sono né una laureata in storia né un'archeologa, né una parlante di greco antico, e anche se ho cercato di essere più accurata possibile, è solo il prodotto di un'appassionata dell'antica Grecia. Godetevi il racconto solo per quello che è: un racconto inventato.

• Proprio per lo stesso motivo non mi va di mettere avvertenze spoiler, secondo me può leggerlo chiunque abbia un minimo di "infarinatura" su chi sono gli Ephuri, e al limite potete farmi qualche domanda per chiarire eventuali dubbi. Lo stesso vale per chi sa già tutto: alcune cose potrebbero creare confusione perché gli Ephuri antichi erano diversi per molti aspetti da quelli "moderni".

Credo che sia tutto. Buona lettura!

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Cantami, o Musa,

del funesto avvento dei Sette figli
del saggio Aristandro d'Eleusi,
perché nell'Era in cui ancora noi Ephuri
eravamo Dei eletti a guida degli intorpiditi animi
per mezzo delle parole dell'Oracolo di Delphi,
tanto vinsero e tanto distrussero
coloro che fratelli di mente divennero.
Tu sola, o Clio dalle infinite pergamene,
che sussurri canti negli orecchi attenti degli Aedi,
sai quanto essi insieme da fanciulli gioirono,
quante lacrime versarono nell'Antica Amarna,
quanto remote si fecero le loro speranze,
quando le loro vite si avvinghiarono,
spezzate,
al destino della giudiziosa Selene
che dall'alto
li avvertì della dolente sorte
e coriacei li rese
nell'ultima iraconda vendetta,
la quale al tradimento li consegnò, spietata,
e trai rotoli del tempo li scolpì infine.
Che siano coloro che verranno
a giudicare se Iniqui o Eroici
furono i Sette Demoni
d'Amarna.

(dagli Annali del Consiglio)

ASCESA

Gli aedi narrano che nell'antica terra Ellenica vivesse la più potente e saggia, tra quelle allora conosciute, delle dinastie Ephure a protezione degli umani. Invece di sostare nell'ombra, essi si elevavano nello splendore delle loro menti sopraffine, guidando la popolazione.

Li chiamarono Dei.

Fu teorizzata una loro presunta localizzazione sulla cima del Monte Olimpo, in realtà frutto di un'illusione fomentata dalle fantasie, perché si sa, la mente umana necessita di una direzione in cui riporre le proprie speranze. Anche innumerevoli altri inganni si seminarono, fertili, nel terreno dell'ideologia degli Elleni. La loro intera cultura e religione crebbe sulle fondamenta di racconti e leggende che non avevano altra spiegazione che in bislacche interpretazioni di fatti celati ai più.

Solo nel Santuario di Apollo vi era traccia tangibile di verità. Lì, difatti, risiedeva il Delphino, la Pizia: consigli e profezie forniva a chiunque le si rivolgesse con il dovuto rispetto. E, all'insaputa degli occhi mortali, l'oracolo legava periodicamente lacci mentali con gli altri Delphini lontani, i quali nelle terre ecumene diverse da quella ellenica, insieme a lei gestivano l'eterna lotta e mantenevano l'equilibrio.

Essa veniva eletto, a ogni cambio di carica, trai migliori esponenti di coloro che abitavano la sacra dimora di Eleusi, ove ogni Boedromione, al fiorire dei colori, si celebravano i Misteri. Con essi, gli Eleusini compivano sui Letarghoi un susseguirsi di cerimonie e riti che culminavano nella visita dei Campi Elisi, l'aldilà ellenico, per coloro che erano stati buoni. Si trattava, invero, di influssi di mens positivi concessi in cambio del prestigio di cui ne traeva la casata.

Così, almeno, si raccontava.

Uno degli Eleusini, tale Aristandro dalla folta barba, che narrano vivesse il mondo attraverso i suoi rotoli, perché di rotoli erano piene le sue giornate, un bel giorno decise che il sole non gli bastava. Raccontò che il vento era serpeggiato tra le colonne del Telesterion foriero di sussurri che le sue sagge orecchie erano le uniche a poter udire.

Senza fornire altre spiegazioni, partì. Fu un lungo viaggio.

Quando sette eponimi si furono succeduti nella vicina Atene, ei tornò. Portava con sé altrettanti bambini, suppergiù di età simile. Pareva che da poco avessero imparato a muoversi su due gambe e che a stento parlassero. Ciò che stupì i fratelli e le sorelle Eleusini, più del pigone di barba che ormai infoltiva il volto del saggio Aristandro, fu che essi, chi più e chi meno, erano tutti xenoi, stranieri di terre lontane.

Il primo, il maggiore, era stato portato via dalla vicina Eubea. Aristandro lo trovò nella campagna fuori Eretria intento a saltare con le cicale e a correre insieme alla selvaggina, che però non riusciva mai ad acchiappare. Il piccolo era dunque sul punto di perir di fame. Il saggio suppose che, come talvolta capitava, fosse il frutto di un'unione impropria tra un Ephuro e un Elleno, e che fosse stato lasciato nelle mani delle Moire. Lo chiamò Nikomachos, perché aveva letto nel suo cuore la vittoria in tutte le battaglie della vita - anche se fino a quel momento le stava perdendo tutte.

Quanto alla seconda, fu lei a trovare lui, lungo una via abitata da iloti, a Sparta. La piccola pestifera lo attaccò impunemente per una delle vie, per privarlo dell'argento. Si racconta che già a quell'età fosse in grado di stendere un uomo adulto, solo con la forza dei denti e delle smorfie che creavano i suoi pugnetti. I genitori, scoprì poi Aristandro, erano morti entrambi in una guerra contro gli Arkonanti, lasciando i figli alla mercè degli abitanti Lethargoi della Polis. Disse di chiamarsi Eirene, un nome che, proprio come dimostrava il suo delizioso carattere, cantava pace e armonia.

Il terzo era nientemeno che il fratellino della piccola Eirene. Sostava nell'ombra mentre la sorella attaccava e, nonostante questo, rispondeva al luminoso nome di Elios. Il piccolo era minuto e poco agile, ma già nel viaggio di Aristandro divorò tutti i volumi di papiri che questi possedeva - ben prima che questi giungessero nelle mani degli elleni, gli Ephuri eleusini già ne facevano largo uso grazie ai loro fratelli del Nilo.

Di ritorno da Sparta, prese una nave nell'istmo di Corinto, ove incrociò la via di un altro bambino, catturato dalle onde di Poseidone che avevano divorato la sua famiglia. Lo salvò per miracolo, e dato che era sopravvissuto alla furia degli ippocampi blu, suppose che dovesse essere per metà uomo e per metà cavallo, così lo denominò Andrippos.

Sbarcò nella Magna Grecia. Scelta poco astuta, avrebbero detto i più, dato che il potere era ivi ricaduto nelle mani degli Arkonanti, i quali tramite la fredda condotta della casata letargica dei Dinomenidi, avevano trasformato la polis in cui si addentrò in una tirannide nelle mani di Gelone. Il dominio geloo costrinse alla fuga molte famiglie Umanenti, tra cui quella della piccola Cenis. I genitori la consegnarono ad Aristandro nella speranza che avrebbe potuto offrirle una vita migliore. Il saggio rabbrividì per l'onore e la responsabilità, ma fu lieto di accettare.

Prese una nave per il regno di Macedonia, portandosi dietro tutti i pargoli trovati fino a quel momento. Già gli era chiaro quale era stato il motivo per cui Eolo l'aveva chiamato, come avrebbero detto i Lethargoi: il suo ruolo era quello di salvare quanti più piccoli Ephuri avrebbe potuto, dalle grinfie di quel mondo troppo spietato, e offrire loro una vita migliore. Il suo grande cuore, d'altro canto, dato che la coerenza era la sua più grande virtù, ignorò tutti gli altri bambini che regolarmente venivano abbandonati dalle famiglie non Ephure.

A Pella, trovò infatti un altro infante, lasciato alle Moire per un motivo incerto. Dato che già a quell'età era denotato da un vistoso naso camuso, da allora sarebbe stato appellato come tale Simos. Ei era silenzioso e cupo, ma trovò per la prima volta il sorriso incrociando i grugniti dei suoi fratelli.

Di ritorno per Atene, stanco dal viaggio, Aristandro d'Eleusi compì solo un'ultima deviazione, spinto forse dai soffi di Eolo, forse dalle onde del Dio del mare. Sbarcò a Mileto, sulla costa orientale, ove fu accolto da una famiglia Umanente migrata dal regno di Lidia. Già si respiravano le tensioni che pochi anni più tardi avrebbero portato le Poleis ioniche a ribellarsi al dominio del Gran Re, attualmente manipolato dagli Arkonanti. Per un'intera luna, tuttavia, il saggio sostò da loro, salvo assisterne poi alla drammatica caduta per mano dei loro nemici millenari.

Solo una piccola, al tempo ancora in fasce, riuscì a salvare dalla strage. Quanto visse lo segnò così nel profondo che decise che, dato che la storia di quella bambina era stata la più tragica - perché gli altri bambini infatti avevano avuto gaie e serene origini - si sarebbe chiamata Elcmene, per scolpire nel suo presente così come nell'avvenire, il suo passato.

Nella dimora degli Eleusini, i sette figli di Aristandro crebbero sani e forti, e così diversi tra loro che i più stentavano a credere che fossero stati cresciuti dal medesimo folto uomo. Nonostante la pluralità di passioni e talenti, e i caratteri all'apparenza contrastanti, non c'era sintonia migliore di quella che trovavano nella compagnia l'un dell'altro.

Alcuni narrano che una notte di luna piena, avviluppato in un improvviso abbraccio di tristezza inspiegata, l'ormai quasi adolescente Simos di Pella non riuscisse a prendere sonno. Si era allontanato in silenzio e aveva trovato rifugio nel Peristilio, ove pensieri gioiosi l'avevano attraversato, quali: "Perché io, i miei fratelli e le mie sorelle siamo stati abbandonati? È un mondo aspro e duro, dice papà, ma per quale motivo la violenza e l'odio infuriano sempre? Perché non esiste la perfezione che disegno sulle anfore e scolpisco nei marmi?"

Percependo come proprio il dolore del fratello, o forse udendo fragori del suo aggraziato movimento, gli altri sei ragazzini si ridestarono e a lui si ricongiunsero.

«La risposta la si trova nei manoscritti e nelle argille, fratello mio» lo informò Elios di Sparta, che aveva fatto della lettura la sua agguerrita arte. «Molti saggi si posero le tue stesse domande, anche trai Lethargoi.»

«Calunnie» ribatté subito la sua consanguinea, la perniciosa Eirene. «La verità è che lo Xiphos è l'unico modo per risolvere i problemi.»

«Al contrario, la strategia! Senza usare il cervello non si toccherebbe alcun apice!» La giovine Cenis dalla lucente chioma portò un dito in alto per ottemperare la sua ipotesi, mentre Atena, la sua piccola puzzola domestica, le si avviluppava lungo il braccio lasciato scoperto dal peplo.

«Ho un'idea, facciamo una gara a chi ha ragione?» propose Nikomachos, forte nella sua poderosa corporatura già in età prematura. «Io dico che non esiste risposta. Dobbiamo farcene una ragione e godere la vita che ci è stata concessa. E dato che ho vinto... Viva Nike! Oh grazie, Dea glorificatrice che mi concedi-»

«Ma smettila, Nikon, e poi sai che Nike non esiste!» lo schernì Cenis ridendo, mentre il fratello fingeva teatralmente di indossare una corona d'ulivo per una vittoria olimpica. «Frequenti troppe Dionisie, tu!»

«Però io credo che, sotto sotto, abbia ragione» intervenne con dolcezza la mora Elcmene di Mileto.

«Solo sotto sotto?»

Lei ignorò il maggiore e continuò: «Anche le cose più brutte possono portare del bene. Ci ha permesso di conoscerci, no? Siamo corde della stessa arpa, fratelli. Suoniamo insieme?»

Nel dirlo aprì le braccia per ricevere un grande abbraccio dagli altri, i quali però erano soliti imbarazzarsi delle sue così aperte manifestazioni d'affetto, pur condividendole. A salvarli fu la perniciosa Eirene, che tirò un pugnetto sulla spalla di Andrippos, l'unico a non aver ancora aperto bocca per consolare il cupo Simos. «E tu? Nulla da dire?»

Il giovine dall'ondulata chioma, i cui occhi erano stati fin da subito magnetizzati dalla danza del mare che si intravedeva oltre le colonne del Peristilio, si girò in una folgore di gioia verso i fratelli: «Ci facciamo un tuffo insieme agli ippocampi di Poseidone?»

Ne dedussero che il corinzio non avesse ascoltato una sola parola del discorso. Mentre i giovani ridevano, la puzzola di Cenis, esaltata, fece ciò per cui veniva chiamata tale. Tra i colpi di tosse e i gesti per scacciare l'odore, anche il cupo Simos, infine, trovò sul viso spazio per incurvare le labbra.

A quel punto si fece avanti l'ormai foltissimo Aristandro, che di nascosto aveva osservato, colmo di fierezza, le scorribande giovanili dei rampolli.

«Figli miei, c'è solo un modo per scacciare il cattivo odore, quando questo insozza le nostre menti.»

«Un cebrim del vento?» propose la vivace Cenis.

«Suonare insieme?» s'addolcì ulteriormente la dolce Elcmene.

«Liberarci della puzzola?» sperò invece Elios, guadagnandosi un'occhiataccia dalla sua proprietaria.

«No. Dovete imparare che alcuni olezzi non si possono evitare» si accomodò Aristandro, i figli assiepati intorno, gli occhietti vispi pendenti dalle sue labbra. «Si può solo affrontarli, e uscirne vincitori. Dopo, sarete ancora più forti. Non vi mentirò: non è affatto facile. Ci saranno dei momenti in cui vi sarà impossibile discernere la soluzione.»

Con un gesto indicò il buio della notte che li ammantava. «A quel punto, ricordate che non siete soli. Finché sarete fratelli sotto gli astri del cielo, riuscirete a respirare anche il peggiore dei fetori, e a trovarvi l'estratto di mirra. Sollevate gli occhi, figli miei.»

I piccoli obbedirono, distendendosi a terra. Il firmamento divenne il loro letto e l'enorme sfera nivea della luna li invase più del sole. «Selene veglia su di voi, anche quando mostra solo il lato oscuro del suo volto. Quando vi sentite persi, osservatela e ricordate che se lei tornerà a schiarire la notte, così farà il vostro legame.»

I suoi rampolli non sporcarono con inutili commenti il silenzio che seguì. Cementarono invece ognuna di quelle parole sui loro cuori. Anche quando la brezza notturna assorbì ogni traccia di tanfo, loro ricordarono che esso aveva permeato le loro narici e che Selene li aveva accompagnati alla luce.

Trascorsero gli anni, e i sette ben presto si distinsero nella vita pubblica Umanente e Lethargoi per le loro molteplici abilità.

A discapito delle aspettative, infatti, Nikomachos eccelse, fin dai primi cebrim nella tenera età, in tutte le attività ginniche a cura del proprio corpo. Vivace e sempre prodigo di risate semplici e gioia per le piccole cose, non trascorse molto tempo prima che cominciasse a frequentare regolarmente le Dionisie, nelle quali si intratteneva con commedie e tragedie in cui era spesso protagonista. In molti avevano una vasta considerazione e rispetto della sua persona, sia trai Lethargoi che tra gli Elleni, e ancora di più, fanciulli e fanciulle, ne subirono l'incanto di Eros.

Quanto alla perniciosa Eirene, iniziò ben presto a essere temuta e detestata dalle altre ragazze. Non perché fosse una donna che combatteva, cosa che era già di uso comune per gli Ephuri; ne disdegnavano il rozzo abbigliamento maschile, il carattere irruente, e la carnagione impropria perché imbrunita. Molte giovani Ephure di quell'epoca, come è accaduto per ogni Età, d'altronde, venivano influenzate dalle tradizioni locali, che volevano le donne Lethargoi sempre chiuse in casa al riparo dai raggi del Dio del Sole.

D'altro canto, divenne popolare tra gli uomini, con i quali era solita intrattenersi in lotte e combattimenti amichevoli, in cui indossava abbigliamenti e usanze simili a quelli dei suoi consanguinei: gli opliti di Sparta. Di costoro aveva un'elevatissima opinione. Sviluppò una grande quantità di cebrim appositi per le arti belliche, guadagnandosi il rispetto dei suoi uomini.

Se ne diceva di ogni alle spalle della perniciosa, ma mai quanto si vociferasse ai danni del fratello, il pallido Elios. «La madre dev'essersi inimicata qualcuna delle divinità dei Lethargoi, che in cambio le ha giocato un brutto scherzo: ha messo la psiché dell'uomo nella donna e quella della donna nell'uomo, ma dimenticando per strada tutta la grazia di quest'ultima.» Così dicevano, e andavano ridendo le malelingue.

Se agli affronti Eirene reagiva con la lotta, Elios di Sparta si difendeva con la sola e potente arte dell'indifferenza. I suoi modi erano sbadati, il fare impacciato e la testa per aria, perché era sempre perso in qualche racconto del passato, e lui stesso ne scrisse a dismisura: trattati filosofici, scoperte astronomiche, e semplici poesie. In fin dei conti fu quello che più di tutti assorbì gli insegnamenti del padre.

A trascorrere molto tempo trai rotoli, c'era anche la chioma lucente di Cenis, la quale alle poesie prediligeva però le trattazioni militari e le strategie di guerra. Era per giunta convinta che la migliore delle cariche Lethargoi al governo della vicina Atene fosse quella degli Strateghi, e sosteneva che tali dovevano essere coloro al governo della città che prendeva il nome dalla dea della Saggezza. Si narrava che il momento più felice della sua giovinezza fu quello in cui il padre portò lei e i fratelli ad assistere di nascosto alla Battaglia di Maratona, ove rimase incantata dalla strategia di Milziade. Nonostante l'assenza degli aiuti promessi da Sparta, gli ateniesi e i plateesi erano riusciti a ottenere la vittoria non solo grazie alle armi, ma con l'intelletto di chi le guidava.

Quando le strategie che ella architettava comprendevano la navigazione, il primo a sostenerla era sempre Andrippos di Corinto. Negli anni sviluppò ottime doti nautiche su triremi, zattere improvvisate, o direttamente sulle onde. Era anche un abile guerriero, ma si raccontava che preferisse la carezza della spuma del mare rispetto a quella del bronzo. Ogni sorgere del sole, era solito compiere una nuotata, o una "corsetta con gli ippocampi di Poseidone" come diceva lui, fino all'isola di Salamina, andata e ritorno. Ebbe alcune amanti, ma nessuna storia duratura, poiché i sussurri scroscianti lo chiamavano dall'orizzonte blu più forti di ogni altra cosa.

Più legata alle tradizioni femminili Lethargoi era invece la dolce Elcmene di Mileto, che era solita intrattenere i fratelli passando le dita sulle corde di un'arpa, occasionalmente lira e cetra. Non aveva grandi aspirazioni alla ricchezza, alla gloria o al potere, e preferiva al contrario trascorrere le sue giornate nell'idillio che la musica era in grado di scaturire nei cuori più duri. Si diceva che le sue corde fossero in grado di incantare chiunque e che possedesse cebrim tramite i quali la melodia poteva trasformarsi in un'arma, da usare contro chi l'avrebbe minacciata. Non di rado compose ella stessa delle canzoni e più volte partecipò ai Simposi degli Elleni, addolcendone le chiacchiere con l'incanto delle sue note. Molti furono i suoi spasimanti, ma nessuno riuscì a conquistare il suo cuore. Si intratteneva con chiunque, preferendo la compagnia dei bambini e delle donne, ma il suo unico grande amore era la musica.

Tra tutti gli strumenti che era in grado di maneggiare, il suo prediletto restava un'arpa costruita da suo fratello Simos. A differenza degli altri strumenti di quelle dimensioni, essa si componeva di solo sette corde, non undici o tredici, ma ugualmente, con l'armonia originata dalla sua forma arcuata, germogliava le più dolci sinfonie mai udite ai tempi degli Elleni.

Simos di Mileto, infatti, era solito forgiare strumenti musicali, ma anche armi, scudi e armature - ne fece ad esempio una su misura per la perniciosa Eirene - e in ogni creazione la sua firma era l'arte che vi immetteva, tale da conferirvi un valore aggiunto. Le sue opere, tra anfore, sculture, e progettazione di templi e degli edifici dell'Ephia, si diceva che rasentassero la perfezione degli Antichi Eph e che non potevano essere frutto di una mano mortale. Lui più di tutti fu desiderato dalle fanciulle, perché gli Elleni consideravano il bel naso di cui era connotato sinonimo di sensualità sfacciata e trovavano affascinante l'ombra che sempre gli albergava nello sguardo.

«Abile e ingegnoso come Efesto, ma febo come Apollo!» andavano sospirando.

Di testa era invece più vicino all'ombroso Ade, perché vedeva l'erebo nella luce e di rado trovava gioie durature al di fuori dell'arte e dell'affetto dei fratelli. Motivo per cui tentò di rendersi indesiderabile, con il solo risultato di divenire ancora più attraente. Si narra che fosse solito sigillarsi intere ore nella penombra della sua bottega pur di non farsi trovare.

In ogni caso, non vi era nulla di più forte, per nessuno dei sette, dell'affetto che, sempre e comunque, li allacciava. Nonostante la crescita, le attività, le passioni, gli amori e le amicizie, i fratelli e le sorelle venivano sempre al primo posto. Trascorrevano insieme ogni momento possibile ed erano soliti chiacchierare e condividere esperienze connettendo i propri Cerebrum anche quando c'erano interi stadi a separarli. Le differenze reciproche, invece di allontanarli, li completavano.

Polidamna figlia di Timante, colei che, seconda solo all'oracolo, gestiva la dinastia, aveva una grande considerazione dei sette. Per riconoscere ad Aristandro i meriti dei figli che aveva cresciuto, quando tutti ebbero raggiunto la maggiore età, concesse loro di partecipare ai Grandi Misteri che si celebravano ogni quattro anni nel mese di Boedromione.

Ufficialmente, per i Lethargoi, si trattava di riti di cui era vietato divulgare la natura. Duravano dieci giorni e rappresentavano il rapimento di Persefone da parte del Dio Ade, in un ciclo a tre fasi: la Discesa, la Ricerca, e l'Ascesa.

Cortei, donazioni, sacrifici, e, per finire, le visioni dei campi Elisi. I sacerdoti che se ne occupavano erano tutti Ephuri, venivano invocati come ierofanti dagli Elleni.

«Ho digiunato, ho bevuto il ciceone, ho preso dalla cesta, e dopo averlo lavorato l'ho rimesso nel calato» dicevano uno per uno i mystai che giungevano innanzi al Telesterion. La struttura arrivava a ospitare sino a duemila persone, assise su infinite scalinate. Un mare variopinto di fedeli che si stendeva a perdita d'occhio.

«O giovani figli d'Aristandro, ecco il potere di cui noi Eleusini disponiamo» esclamò Polidamna. «La religione è la migliore arma con cui si possono dominare e proteggere i Lethargoi da loro stessi, per purificarli dalle empietà che essi hanno ereditato dal vile Arkon. Osservate.»

Così, la parte segreta dei Misteri ebbe inizio.

I presenti percepirono l'aria vibrare e scoppiettare sulla pelle. Un'onda di prostrazione si arcuò fino all'angolo più lontano della massa. Polidamna e gli altri Ephuri ierofanti abbracciarono i mens con gli arti e li propagarono intorno a loro, pizzicati come le corde delle arpe di Elcmene. I flussi attraversarono i Lethargoi divaricandone gli animi per immettervi visioni ancestrali e depositando in loro... artigli di Cerebrum.

I sette, sconvolti, compresero allora la vera natura dei Misteri: obiettivo degli Eleusini era trasformare man mano i Lethargoi in Ephuri. In silenzio, retrocedettero fuggendo dal Telesterion per tornare nelle loro abitazioni. Si radunarono nel Peristilio, rifugio sin dall'infanzia.

«Non riesco a capire, ufficialmente è un'azione positiva. Perché allora la spuma del mare mi suggerisce che c'è qualcosa di sbagliato in tutto ciò?» si interrogò Andrippos dall'ondulata chioma.

«Perché è tale. Forse è questa la ragione per cui nostro padre non ha mai voluto che vi partecipassimo, sa che i nostri cuori sono troppo aridi per accettare a un simile atto di carità...» si accodò Cenis di Gela.

«Carità o Imposizione?» interrogò invece Elios, una mano al mento in una pessima imitazione dei filosofi che tanto leggeva.

A proclamare a voce ciò che tutti pensavano fu infine Nikomachos: «Resta il fatto che si tratta di manipolare i mens sugli esseri viventi, proprio come fece Arkon. Gli Arkonanti privano i Lethargoi dei mens, noi glieli concediamo. C'è forse differenza? Per giunta i Misteri falliscono, essi non diventano Ephuri, ma piuttosto ne escono rincitrulliti, ne sono certo! Magari sono anche la causa delle tradizioni arcaiche e inconsuete e della puzza che attraversa le strade della città.»

Dissero questo a Polidamna d'Eleusi quando essa, di ritorno dal rito terminato, colma d'ira chiese loro perché si fossero ritirati.

Senza scomporsi, essa si allisciò il peplo rubro e rispose: «La vostra opposizione sfacciata è un affronto e un insulto a chi è più saggio di voi. Dal momento che siete ancora pomi acerbi e che il vostro buon padre ha sempre onorato la propria famiglia, vi concederò di chiedere perdono, di ravvedere le vostre sciocche opinioni e, se le prime due clausole saranno rispettate, potrete continuare con le vostre vite senza problemi.

«Quanto noi svolgiamo è diretta conseguenza del volere dei primi Ephuri che Arkon, in quell'unico lampo di lucidità, nominò come suoi sette sacri servitori: i primi Delphini. Essi tramandarono ai loro discendenti che noi Ephuri siamo la chiave per il ritorno di Ephurias. Ebbene, noi Eleusini, in quanto dinastia più potente e numerosa, stiamo solo tentando di assolvere a tale compito. Se il mondo intero fosse composto da Ephuri, gli Arkonanti non avrebbero più motivo di spargere sangue innocente, né tantomeno di cercare frammenti del diadema perduto.

«Non siamo noi i cattivi di questa storia, è inutile l'accusa che vi accingete a muovere con gli occhi! Stiamo solo facendo del nostro meglio per impedire che le violenze proliferino e che gli Arkonanti prosperino. Purtroppo, per ora non abbiamo ottenuto risultati concreti, ma facciamo progressi di Mistero in Mistero, e sono sicura che prima o poi saremo in grado di garantire una pace duratura. Se pure non volete partecipare alla pratica, siete tenuti a rispettarla, come fa il vostro padre e tutore, e a non ostacolarla.»

A malincuore, i sette obbedirono, e porsero le proprie scuse, perché gli era stato insegnato il rispetto. Dentro i loro cuori, serbarono però un silenzioso rancore sia nei confronti di Polidamna, che li aveva chiamati pomi acerbi e aveva considerato sciocche le loro opinioni, sia contro tutto il sistema su cui gli Eleusini da generazioni tenevano sotto scacco la popolazione Lethargoi.

"Fanno esperimenti su di loro come fossero frumento da calpestare per lievitare una focaccia croccante, e pretendono pure di farsi idolatrare?" sputò Eirene, adirata, un giorno mentre sfogava la rabbia bersagliando di fendenti un uomo di legno con il suo Xiphos.

"Si considerano i salvatori, ma non sono poi così diversi dagli Arkonanti, se ci pensate" concordava Andrippos, durante una cavalcata lungo la costa.

"Per giunta," intervenne Elios, sollevando gli occhi da una pergamena, "La nostra specie e quella dei Lethargoi sono praticamente due cose definite, distaccate. Perché mai noi dovremmo prevalere e dominarli? Solo perché abbiamo il Cerebrum? Sarebbe come affermare che i cavalli debbano guidare e manipolare i buoi perché sono più agili nei movimenti. Sono cose contraddistinte che non possono incontrarsi. Io dico che noi Ephuri dovremmo vivere non solo in segreto, ma nel totale anonimato. O meglio, nella totale inconsapevolezza dei Lethargoi!"

Anche la dolce Elcmene s'incupì: "La musica qui si fa sempre più stonata alle mie povere orecchie. Concordo con voi, fratelli e sorelle. Ma come fare? Polidamna aveva ragione, in questo: siamo piccoli e insignificanti al confronto degli eleusini. Come sperare di cambiare le cose?"

Simos e Nikomachos, il quale in quei giorni si stava allenando per partecipare alle sue prime Olimpiadi Ephure, pure manifestarono il loro sconforto, e infine a sedare gli spiriti intervenne la sagace Cenis, che decise: "Teniamoci per noi le nostre idee rivoluzionarie e giuste. Consegniamole solo a Selene. Lei gelosamente le occulterà nella sua faccia buia e solo quando sarà pronta le userà per rischiarare la notte."

"E scaccerà via gli odoracci!" concordò entusiasta Nikon. I sette risero in memoria di quella notte e assecondarono l'idea della sorella gelaa. Nikomachos, in particolare, si gettò anima e corpo nell'obiettivo di vincere le Olimpiadi, allenandosi giorno e notte e sviluppando al meglio i propri cebrim. Oltre che il proprio fisico, la competizione Ephura metteva alla prova anche la vastità del Cerebrum, che il giovane cercò dunque di ampliare il più possibile, andando ben oltre i limiti che i più pensavano avessero gli Ephuri con sangue misto a quello dei Lethargoi.

E vinse.

La corona d'ulivo fu posta sul suo capo ed Ephuri provenienti da tutta la Grecia lo acclamarono rendendo eterna la sua gloria. Elcmene gli compose una stupenda canzone, Elios gli dedicò diverse poesie, e Simos lo scolpì sulla pietra nella posa in cui il fratello, una mano sul ginocchio e un braccio disteso flesso all'indietro, era stato un attimo prima di lanciare il disco che ne aveva decretato la vittoria definitiva.

Dato che i fratelli erano soliti condividere tutto, Nikon insistette che anche loro, pur non avendo partecipato, venissero acclamati allo stesso modo, perché la vittoria di uno era una vittoria di tutti.

Ogni Ephuro greco, insomma, se ne rallegrò. Ma più di tutti ne gioì Polidamna figlia di Timante: si racconta che si ritirò nelle sue stanze e per il nervoso si tirò tanto i capelli che le spuntarono le prime ciocche d'argento. Ancora non aveva accettato la mancanza di rispetto dei Sette avvenuta in occasione dei Misteri, non sopportava che tutti li acclamassero e soprattutto di dover mostrare lei stessa compiacimento per la vittoria del figlio d'Aristandro. Non l'avesse fatto, dopotutto, avrebbe perso il rispetto e la considerazione dei suoi familiari ed era certa che suo cugino Pelono di Sparta ne avrebbe approfittato per privarle la carica a cui lui ambiva.

La soluzione le si presentò da sola, pochi giorni dopo. Soddisfatta, pubblicamente annunciò ai sette: «In onore della tua eroica vittoria, o Nikomachos di Eretria, a te, ai tuoi fratelli e alle tue sorelle è concesso l'enorme onore di rappresentare noi Ephuri dell'Attica nell'appello di aiuto mosso poc'anzi dai nostri fratelli del Nilo. Gli Arkonanti minacciano la dimora di Amarna, la quale, com'è noto, protegge un Frammento. La situazione è sempre più critica, ma, visto il vostro glorioso talento, è certo che non avrete problemi ad affrontare le dune e i venti del deserto. Quale minaccia potrà mai rappresentare per un così talentuoso gruppo di giovani? Consultate l'oracolo e onorateci, o sette figli d'Aristandro!»

Si narra che, dopo quelle parole, a Elios di Sparta, Elcmene di Mileto, e Simos di Pella andò di traverso l'ambrosia che stavano ingurgitando e che i fratelli e sorelle rimanenti trascorsero la successiva ora ad aiutarli a farsi passare la tosse.

Tuttavia, non c'era modo di sfuggire al volere di Polidamna, così dovettero cominciare a prepararsi per la spedizione. Nessuno di loro aveva mai affrontato alcuno scontro armato in campo, e nonostante da tempo Eirene attendesse di adoperare in tal modo le proprie capacità, gli altri non avevano mai avuto alcuna intenzione di partecipare a nulla del genere.

«È assai probabile che Tanathos vorrà prendersi le nostre vite. Ho sentito parlare degli Arkonanti che si sono insediati presso i Persiani: si narra che dove passano loro, nel deserto scorrano fiumi di sangue...» rabbrividì Nikon.

«Scommetto dieci tetragrammi che quella canaglia di Polidamna ci spedisce lì proprio per toglierci dai piedi! Si pentirà di averci sfidato!» esclamò, agguerrita, la perniciosa Eirene.

Il giorno stesso, la giovane, radunato un esercito di Ephuri dell'Attica, partì per Sparta, ove tenne un discorso pregno di carica gloriosa, tale da catturare gli Ephuri opliti che, seppur peloponnesiaci, accettarono senza esitazione di seguire gli ateniesi - forse proprio per l'origine della condottiera.

Costruirono allora, proprio come fece in quegli anni Temistocle, un enorme flotta di triremi parallela a quella che lo Stratego intendeva usare nella guerra contro Egina. Andrippos ne approfittò per porvisi a capo. Viste le sue ottime doti di navigazione e la sua connessione con il mare, nessuno esitò ad affidargli il comando. Come la sorella, si recò nella città d'origine, e vi aggiunse la flotta corinzia.

Si racconta che le parole con cui convinse i guerrieri di mare furono: «Voi siete abili nel cavalcare le onde, ma io vi chiedo di fare altrettanto con le dune. Coloro in cui scorre la furia di Poseidone nelle vene non hanno bisogno delle acque per navigare. Seguitemi, e diverrete come Dei!»

Il giovane architettò, insieme a Simos il Macedone, delle navi che fossero in grado di muoversi agili nell'oceano di sabbia, dopodiché il giovane proseguì con la realizzazione di armature e lame così resistenti da risultare invincibili, e così belle da accecare pure il sole. Persino la dolce Elcmene si prodigò per la guerra, sviluppando nuove note con la sua seducente arpa, ed Elios chiese a Nikomachos di insegnargli la psicologia del combattimento, così da studiare gli avversari.

Infine, si recarono nella regione della Focea.

«Davvero i Lethargoi hanno scelto il nome di questa terra in base a un ipotetico eroe che si trasformò in foca? È ridicolo!» sogghignò Nikon, l'unico ancora in grado di mantenere il sorriso nonostante l'impresa che si accingevano ad affrontare.

«Un giorno diranno lo stesso di noi» commentò Elios. «Già vedo sulle pergamene mezzo rigo dedicatoci: i sette giovini figli d'Aristandro partirono carichi e agguerriti, ma ahimè, già al primo scontro le Moire voltarono loro le spalle. Perirono. E molti ancora si chiedono perché mai quegli stolti si siano arrischiati in una tale impresa...»

«L'ottimismo è proprio l'arma più affilata di cui disponiamo» ironizzò Cenis, «ma ora vedremo se è mal riposto. Eccoci, sorelle e fratelli: siamo giunti alle pendici del monte Parnaso. È Delfi quella che si staglia innanzi a noi?»

I sette si addentrarono nel paesaggio che divorò i loro occhi: un gioco di colori e prospettive di forme ideali, statue d'oro che li osservavano dall'alto, imponenti colonne che sorreggevano templi divini. Ogni strada riluceva di luce, e magia e canti del cielo accompagnavano i loro passi.

«Mi aspettavo di più» fece Nikon.

Superato il teatro e altri successivi monumenti da togliere il fiato, i Labryaden, che ai Lethargoi si dichiaravano sacerdoti di Apollo ma che in realtà erano i protettori del Delphino, li condussero innanzi al tempio del Febo.

«In origine i Lethargoi associavano a Gaia la venerazione dell'oracolo» spiegò con saccenza una delle sacerdotesse, «per questo deriva dalla parola "utero", della madre. Secondo loro, Apollo vi giunse sotto forma di delfino. Quello che loro non sanno è che il Delphino ha sei fratelli in terre lontane, nati non dallo stesso utero, ma denotati dalla medesima mente superiore! Buffo che anche voi siate in sette e vi comportiate da fratelli, pur non essendolo! Quasi vogliate avere l'ambizione di paragonarvi ai Delphini!»

I figli d'Aristandro non commentarono, poiché se avessero aperto bocca ne sarebbero uscite solo male parole. Telepaticamente, si comunicarono invece che erano sicuri di essere fratelli molto più loro che quei sette misteriosi individui.

Sull'architrave principale che dava l'accesso al tempio, torreggiò sui sette l'iscrizione: "Conosci te stesso".

Inquietati, superarono ugualmente le lisce colonne della facciata e si inoltrarono all'interno, ove il tempo si fermava e la sapienza diventava regina. Scritte sui muri inneggiavano storie, speranze, e profezie, sfocando gli occhi di chi non osservava con il cuore.

Catturati dalle spire di quei fumi incantati, quasi non ascoltarono le parole della sacerdotessa che li guidava: li rassicurò che, in quanto Ephuri, per loro non era dovere offrire una libagione né assistere al cruento sacrificio che in tali occasioni si operava.

A quel punto, la Pizia entrò nel tempio. Pur essendo la sua immagine solitaria baciata da un raggio di luce che penetrava nel tempio, i sette si resero conto che si trattava di un'Ephura come tutti gli altri, dal cipiglio severo e un po' più anziana di Polidamna. Il peplo sontuoso e la corona d'alloro dorata non la rendevano certo migliore di loro.

Felice di accoglierli, conoscendo la fama che avevano cominciato a costruirsi, la Pizia diede ai sette il benvenuto a Delfi, e chiese loro di seguirla. Giunti innanzi all'hestia in cui bruciava il fuoco perenne, la donna vi gettò distrattamente un paio di foglie e farina, e si recò infine nell'àditon, un locale posto sotto la pavimentazione del tempio.

Lì, agli occhi del sette subito spiccò l'Onfalo di pietra, lo stesso che spiccava nelle sopraelevazioni di quasi tutti gli edifici degli Eleusini. «I Lethargoi lo chiamano ombelico, e dicono che questo sia il centro del mondo! Pfuah, ignoranti!» tossì la Pizia con fare amichevole, scacciando con una mano le esalazioni fumose con cui i delfici giocavano sulla psiche degli Elleni che lì si recavano. Nulla più che illusioni, che l'anziana signora si affrettò a spegnere.

Prese un tripode e, con un sospiro, si assise.

«Ottimo, fanciulli, come siete belli e forti. Sono ansiosa di rovinarvi le speranze!»

«Si figuri» rispose Nikon, «abbiamo già prospettive così rosee che è impossibile sfiorirle ulteriormente!»

I sette si disposero al centro di un angusto spazio, intorno al quale, ad arco, erano situati altrettanti tripodi dorati, mentre un calderone ribolliva poco più in là - forse la cena della Pizia.

Alle porte dietro i loro Clypeus bussarono sussurri lontani. Poco dopo, uno dopo l'altro, i posti a sedere vennero occupati da proiezioni mentali: gli altri Delphini.

Sette, proprio come loro.

Gli abiti erano inconsueti e bizzarri, agli occhi degli Elleni: in particolare tre di loro erano ricoperti da spessi strati di vesti, che si aggiungevano alla folta barba dalla curiosa tinta rubra del primo, la chioma saura della seconda e quella scura del terzo. Poi c'era la carnagione olivastra del Delphino del Nilo, che li osservava con ciglia allungate da felini disegni color ebano, e il più familiare romano dalla toga purpurea. La più estranea era senz'ombra di dubbio una donna con grandi occhi mandorlati, che indossava vesti ricamate con la medesima delicatezza con cui erano acconciati i lisci capelli d'onice striati d'ardesia.

Insieme, i Delphini presero un respiro e, uno dopo l'altro vaticinarono, nell'ordine riportato di sopra, una frase ciascuno, ultima la Pizia:

Navighiamo in fiumi di sangue

e, quando tiriamo fuori la testa, scopriamo

di aver vinto Thanatos ma di trovarci, per disgrazia,

nel regno di Ade, e i nostri cuori d'oro

pesano più di sette piume di marmo. Nike stringerà

la mano di Selene, e la guiderà sino alla foce

ove l'oceano l'attende e la fine dei tempi comincia.

«Restate per cena, cari?» chiese subito dopo la Pizia, come se non avesse appena proferito, insieme agli altri Delphini, orride oppure magnifiche parole.

I Barbaroi si accomiatarono e tornarono nei loro corpi lontani. Confusi e rintronati, i Sette fecero altrettanto, trascorrendo l'intero viaggio di ritorno tormentati dalle angosce.

«Non arrovellatevi troppo su quelle parole, figli miei» li rassicurò Aristandro, quando essi gli ebbero riferito, «non si sa su cosa l'oracolo basi i suoi responsi, certo è che non sono infallibili, perché non esiste cebrim che possa ereditarsi per carica religiosa. Le loro sono mere supposizioni, o parole proferite tanto per adoperare la voce, che magari non hanno alcun senso o che lo assumeranno solo una volta compiuto. Concentratevi su ciò che è esplicito: Nike stringerà la mano di Selene. Ad Amarna incontrerete la vittoria e salverete i nostri fratelli del Nilo, ne sono certo.»

I figli, rincuorati, lo ringraziarono, e, in procinto di partire, gli dissero addio. «Le nostre mani si sporcheranno di rosso e la morte avvolgerà in coltri di nebbia ogni cosa. Se sopravvivremo, non saremo più gli stessi. Ma tu, o folto Aristandro, sarai ancora nostro padre?» si preoccupò la sensibile Elcmene.

Aristandro sorrise ai rampolli, in cui ancora vedeva i visi innocenti - chi più e chi meno - dei bambini che aveva salvato quando ancora la sua barba era folta la metà di com'era quel giorno, e rispose: «Questo nulla potrà cambiarlo. Finché la luna brillerà in cielo e le stelle accenderanno il firmamento, voi sarete i miei figli.»

Quelle furono le ultime parole che rivolse ai sette, prima che essi solcassero le acque con il loro vasto esercito, glorificati e acclamati dall'Attica così come dal Peloponneso.

Correvano tensioni, ai tempi, trai persiani di Dario e i territori sottomessi. Rivolte erano scoppiate in ogni parte dell'impero e, in particolare, in Egitto. Dato che gli Arkonanti manipolavano gli Achemenidi come gli eleusini facevano con gli elleni in Grecia, da quasi tre decenni gli Umanenti della terra del Nilo cercavano di non soccombere, resistendo dietro le protezioni dei loro palazzi. Quando però gli Arkonanti vennero a scoprire che trai gioielli posseduti dagli Ephuri di Thebai vi era un frammento di mensalite, il loro attacco si fece tanto massiccio da rendersi necessario l'aiuto degli alleati lontani. Dato che i romani erano impegnati in guerre altrove, gli elleni erano la loro unica speranza.

Giunti nel deserto e solcate le acque del Nilo, la vastità della sabbia rese aride le speranze dei sette. Mai prima d'allora avevano affrontato un mostro simile a quell'oceano senz'acqua.

Tuttavia, non si abbandonarono allo sconforto, perché si erano ripromessi di vendicarsi di Polidamna e le speranze di tutto quell'esercito, oltre che degli egiziani stessi, erano riposte su di loro.

Quando notò che anche gli altri Ephuri erano scoraggiati, la perniciosa Eriene, che da quel giorno sarebbe diventata la sanguinaria Eirene, ebbe un'idea. Dato che nel viaggio avevano saccheggiato una nave mercantile fenicia, avevano tanti barili di porpora già lavorata per essere colorante e le acque del Nilo a loro disposizione.

Si narra che i sette fecero costruire un canale, attorno cui si posizionò, il mattino prima della battaglia, l'esercito terrestre di opliti, che era di giurisdizione della spartana. Lì riversarono tutta la porpora che avevano, tanto che l'acqua si fece rossa.

«Figli di Atene, di Sparta, di Corinto e ogni di Polis ellena!» La voce di Eirene fu un'onda di furore che toccò anche gli angoli più lontani dell'esercito. «Non dovete temere queste terre. Gli Arkonanti tremeranno al nostro arrivo, perché nemmeno l'oceano di sabbia può cancellare la nostra forza! O valorosi guerrieri, bagniamoci nel sangue dei nostri nemici! Dimostriamo a quegli stolti quanto hanno sbagliato a sfidarci. Seguiteci, e battetevi. Non fermatevi, fino a che l'intero campo di Ares non sarà stato intriso di rosso! PER AMARNA

PER AMARNA! si sentì echeggiare da ogni dove. Uno dopo l'altro, gli opliti si immersero interamente nel piccolo fiume rosso e, uno dopo l'altro, ne uscirono ricoperti dal sangue purpureo. La carica e la tensione per l'imminente battaglia si impregnarono della furia più agguerrita che si fosse mai scorta sin dagli inizi dei tempi.

«Sai, vero, che questa cosa non servirà a niente? Gli Arkonanti non sono stolti, non sarà sufficiente così poco a spaventarli: si vede che non è sangue» la criticò, con un pizzico d'arroganza, Cenis dalla lucente chioma.

Eirene rispose con un pugnetto amichevole che spostò di due piedi la sorella. Ne era consapevole lei stessa: difatti aveva agito solo per dare maggiore grinta al suo esercito, perché se fosse stato troppo incerto non avrebbe potuto ottenere la vittoria cui loro ambivano.

«Promettetemi una cosa, sorelle e fratelli» disse, d'un tratto, Simos di Pella, la voce un filo appena percettibile. «Siete tutti splendenti nelle bellissime armature che vi ho forgiato, ma vi prego, non fate che siano le ultime cose che indosserete. Promettetemi, su tutti gli Dei e sugli Antichi Eph, che sopravvivrete.»

I sette si radunarono in cerchio, e sguardi decisi intercorsero tra loro. I timori provati in origine per l'impresa che si accingevano a compiere non erano scomparsi; solo gli sciocchi non temevano la guerra. Tuttavia, la consapevolezza di essere insieme, ancora una volta e per sempre, riversava in loro fiumi sanguinanti di coraggio.

«Non si può promettere ciò che non si è in grado di mantenere» rispose Elios di Sparta alla domanda del fratello. «Si può solo affrontarlo insieme. Uno di noi, tutti.»

Tacito accordo, occhi consapevoli. Come già sapessero.

La sorte che sarebbe toccata a uno solo dei sette erano pronti a incontrata anche gli altri, pur di non subire la perdita. Nessuno di loro ribatté.

Poi Eirene, per ultima del suo esercito, si immerse nelle acque di sangue.

Appena tirò fuori la testa, la battaglia per il destino di Amarna ebbe inizio.

L'esercito di opliti Ephuri seguì il grido gutturale emesso dalla donna che avanzava con lo Xiphos puntato al cielo. La sabbia rendeva difficoltosi i movimenti e nessuno di loro possedeva cebrim di adattamento al deserto, a differenza degli Arkonanti di Persia.

In una prima fase degli scontri, difatti, le forze di Eirene se la videro brutta. Come viscidi serpenti marini, i loro nemici emersero direttamente dalle sabbie, violenti e spietati, spezzando sul nascere ogni possibile forma di attacco simultaneo con schieramenti a falange. Gli elleni però - quelli sopravvissuti, per lo meno - non si persero d'animo.

La sagace Cenis di Gela aveva infatti formulato un ingegnoso piano di battaglia che non avrebbe lasciato scampo agli Arkonanti. Lei personalmente restò nell'accampamento, perché non amava toccare con mano la guerra che tanto apprezzava per sviluppare l'intelletto, ma non esitò a comandare, con meticolosa precisione, ogni azione bellica.

Mentre gli Arkonanti pensavano che l'azione degli uomini di sabbia avrebbe reso le unità di Eirene protagoniste di un massacro, ecco sopraggiungere le navi che sapevano solcare le onde di rena. A guidarle, la chioma ricciuta del ridente Andrippos, il quale era consapevole che, dopo quell'esperienza, avrebbe lacrimato e tossito granelli di sabbia per interi cicli di luna.

Le truppe "marittime" sconvolsero assai gli Arkonanti, che si ritrovarono a ripiegare per radunare le forze. In quel momento, per tutta la terra d'Amarna si propagarono dolci note.

Nell'accampamento, accomodata su un tripode, Elcmene di Mileto danzava con le dita sulle sette corde del suo cuore, e l'arpa non era più un semplice strumento musicale, ma un'estensione delle sue emozioni. Tutta la propria rabbia, la determinazione e il risentimento che serbava sotto i polpastrelli li fece librare fuori di sé, sotto una nuova forma che invase le menti degli Arkonanti, infrangendo ogni loro equilibrio, e scolpendo crepe nei loro Clypeus.

Gli Umanenti, sordi alle note dall'Ephura, vi penetrarono e demolirono gran parte dei loro nemici dall'interno. Accanto a lei, suo fratello Elios, inadatto per gli scontri diretti, aveva studiato attentamente la mentalità dei loro nemici nelle sue pergamene, passo fondamentale per aiutare Cenis nell'organizzazione del piano, e durante lo scontro prese numerosi altri appunti su informazioni necessarie ad affrontare con la massima consapevolezza eventi futuri.

Quanto a Simos, combatté come poté, anche se l'arte bellica non rientrava proprio tra le sue molte doti. Ma, come dicevano gli Elleni, tentar non nuoce. Anche se con spade e scudi era più goffo di un asino con l'armatura intento a brucare, c'era da dire che quelle spade e quegli scudi li aveva pur sempre forgiati lui, e se erano così resistenti e leggeri al tempo stesso, se sapevano incrementare le energie e la connessione con i cebrim di chi le indossava, era solo merito suo.

L'azione finale, però, spettava a Nikomachos: il primo a essere stato adottato da Aristandro, il primo in tutto ciò in cui si applicava, e il primo sempre pronto a imbucarsi alle Dionisie. Tolto l'ultimo punto, non esisteva candidato migliore per tagliare la testa al tauro. Per giunta, era il più agile nella corsa, persino nel deserto.

A guidare la spedizione, secondo Elios, era un Arkonante, tale Pissodaro degli Ecatomnidi. Si era fatto proclamare re dai Lethargoi di Alicarnasso.

Gli aedi narrano che quando Nikon individuò in lontananza, sulla cima di una duna più elevata delle altre, la figura imperiosa dell'Arkonante, questi indossò un sorriso che ondeggiò oscuro tra le dune: aveva individuato la figura in avvicinamento già uno stadio prima che il giovane lo trovasse. Semplicemente gli piaceva giocare con chi era tanto audace da sfidarlo.

E i sette stavano dimostrando, con la loro reciproca collaborazione, una minaccia che il re non aveva intenzione di sottovalutare.

«O Pissodaro di Alicarnasso, l'esercito è allo stremo, si rende necessaria una ritirata!» implorarono alcuni dei suoi. Lui rispose alzandosi dal trono - che aveva ovviamente trasportato sino a lì, perché considerava la maestosità più importante d'ogni altra cosa - e, levatosi un sontuoso mantello ricamato, rispose: «Al contrario, saranno loro a ritirarsi. È il momento, compagni, di rivelare la nostra arma più preziosa. Offriamo agli Elleni, come pegno di resa, un soffio del loro dio Eolo.»

Inspirò piano. Poi le sue gote si gonfiarono d'aria, e quando la bocca si divaricò, un getto impetuoso di vento ne eruttò fuori.

E la tempesta ebbe inizio.

Le sabbie si sollevarono, le dune persero la loro sinuosità, frastagliandosi invece in fruste mortali, e l'aria divenne così rarefatta che nessuno seppe più distinguere quel che c'era sotto i piedi da quel che entrava nei polmoni. A quel punto, non si trattò più di una battaglia, ma di una carneficina.

Anche il sangue di porpora venne inghiottito da quel mostro di sabbia, e ogni speranza e ogni coraggio si infransero contro il turbine di vento arenario che, come l'onda più imponente che si fosse mai vista, divorava ogni cosa e ogni cosa soffocava.

Certuni solidificarono la terra intorno ai piedi tanto da non farsi trascinare, ma non riuscirono comunque a impedire alla sabbia di soffiargli via la vita; altri si ricoprirono di mens con scudi potenti, ma non c'erano mens che prevalessero su quelli furiosi del vento, così anche tali accorgimenti si rivelarono inutili; i più tentarono la fuga, ma nessuno poteva correre più veloce del soffio di Eolo e della furia di Zeus.

Sia Umanenti che Arkonanti perirono. I primi colmi di disperazione e terrore, i secondi con la vittoria negli occhi, perché consapevoli che quel loro sacrificio avrebbe permesso all'amato re di sfondare i cancelli di Thebai, estinguere gli Amarni che vi abitavano, e appropriarsi del Frammento.

Perché ora che lui si era rivelato, non c'era Ephuro al mondo che potesse fermarlo: Pissodaro di Alicarnasso era un Naeph del Vento.

Solo un ultimo ostacolo permaneva, incerto, sulla sua vittoria.

Nikomachos era stato lanciato diversi stadi indietro, perché colpito direttamente dal flusso di vento che era eruttato dalle fauci di Pissodaro. Per miracolo o per promessa sopravvisse e, non appena si vide inseguito da quella montagna di vento, corse, rapido come solo lui era in grado di fare.

"Se devo morire, è giusto che sia insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle"

La medesima convinzione esplose anche nel petto di Eirene, nel mezzo della mischia, di Andrippos, che cavalcava le onde in procinto di travolgerlo, di Simos, vivo per miracolo, così come dei fratelli rimasti al campo, che pure non sarebbe stato risparmiato dalla tempesta furiosa.

Contro ogni logica, essi corsero, chiamandosi a gran voce senza usare la bocca. Chi verso l'onda, chi via da essa, verso un unico punto centrale, l'unico in cui avrebbero potuto vedersi un'ultima volta. Perché la notte aveva coperto ogni luce.

Ci saranno dei momenti in cui vi sarà impossibile discernere la soluzione.

Sollevate gli occhi, figli miei.

I sette obbedirono al dolce ricordo di quel tempo perduto. Perché mai prima di quel momento il fetore era stato tanto ripugnante, e mai prima d'allora li aveva inghiottiti al punto da cancellare, in apparenza, ogni altra cosa. Solo in apparenza: nulla poteva ingannare Selene.

Dato che non esisteva desiderio più forte, anche Thanatos dovette chinare il capo alla loro pervicacia.

Non si scorsero, perché le palpebre erano calate e non si udirono, perché la sabbia era ormai penetrata nelle orecchie. Furono i loro cuori ad avvertirli della presenza dei fratelli.

E, nell'ultima briciola di fiato, quando essi, insieme, vennero travolti, quando da creature di Arkon divennero creature di sabbia, quando già Caronte li salutava con la mano dall'altra parte...

... avvenne l'inconcepibile.

Improvvisi lacci di mens, scaturiti dalle lacrime aride dei figli d'Aristandro, bucarono la coltre del vento e si allacciarono tra loro. Il contatto improvviso delle loro anime accese il volto luminoso di Selene nel petto di ognuno di loro, e, a calci nel deretano, scacciò l'oscurità.

Finché sarete fratelli sotto gli astri del cielo, riuscirete a respirare anche il peggiore dei fetori, e a trovarvi l'estratto di mirra.

Inspirarono a pieni polmoni il fiato della vittoria, che luccicava in fili d'argento ai loro polsi. Gli occhi brillarono più della luna e più della luna scintillarono i loro cuori.

Non erano più sette individui. Erano uno solo. Uno di noi, tutti.

Adelphi, si alzarono, d'improvviso immuni all'infuriare del vento, la sabbia fuggita fuori di loro. Solo Nikomachos, com'era loro obiettivo fin dall'inizio, si mosse, sfoderando lo Xiphos forgiato da Simos, ma ognuno dei suoi or gemelli di mente fu dentro quell'azione.

Si diede lo slancio, piegando il corpo come fece con il disco, con la grazia musicale di Elcmene, prodigo dell'accortezza di Cenis e presente a se stesso come solo Elios sapeva essere. La lama divenne parte del suo braccio grazie a Simos e, con la medesima fluidità delle onde in cui danzava Andrippos, si diede lo slancio, per sferrare, con la furia bellica di Eirene, l'unico colpo.

La lama, contro ogni logica, vorticò nella montagna di vento e sabbia, bucandola e continuando a volare, immune e luminosa come le iridi dei sette. Stadi e stadi oltrepassò, orde di nemici rantolanti valicò.

Per ultimo raggiunse, alfine, l'unico obiettivo di quella calibrata mira.

Pissodaro degli Ecatomnidi non fece in tempo, quando arrivò lo Xiphos, a evitare che questo lo colpisse. Così come la lama lo centrò sulla fronte, attraversandolo da parte a parte, il vento perì, infilzato, e si depositò in dune scomposte, su cui rotolò il corpo inerme del Naeph.

E i Sette divennero creature metà divine e metà umane, demoni interposti tra questa e quella dimensione.

Da allora, li chiamarono I Sette d'Amarna.


NOTE STORICHE (LETHARGOI ED EPHURE)

Non ho inserito date per non appesantire la narrazione - e inoltre sarebbe stato sconveniente, dato che la datazione riferita alla nascita di Cristo non avrebbe avuto il minimo senso per gli antichi greci - ma credo che per comprendere appieno le dinamiche sia necessario avere almeno una vaga idea del contesto storico.

L'intero racconto è ambientato nel quinto secolo, che va dal 500 a.C. al 400 a.C. In verità, comincia leggermente prima, attorno al 510. Quando Aristandro decide all'improvviso di andare a caso a caccia di bambini da adottare, è all'incirca quel periodo. Nella vicina Atene si sta consolidando, pian piano, l'isonomia (poi Democrazia), Sparta è la potenza egemone del Peloponneso, e l'Impero Persiano di Dario è molto esteso e comprende al suo interno moltissimi territori e civiltà variegate, che non sto a elencarvi, chiamate Satrapie, da cui esigeva tributi e forze belliche, pur mantenendo inalterate le loro tradizioni e il rispetto per le rispettive culture.

Il fatto che io abbia associato ai persiani gli Arkonanti non significa che essi siano da considerare "i cattivi" della storia; come moltissimi altri fin dagli inizi dei tempi, erano conquistatori e hanno costruito un impero, con le conseguenze che da ciò ne deriva. Dopo le guerre persiane, sarà la democratica Atene a comportarsi in modo non tanto diverso (per quanto riguarda i tributi) nei confronti delle altre Poleis greche sottomesse alla Lega Delio-attica, quindi come ogni cosa è tutto relativo.

In ogni caso, anche alcune Poleis greche erano state sottomesse all'Impero persiano, e in particolare quelle della costa "asiatica" (Ionia) le quali tra il 499 e il 494 daranno vita alla Rivolta Ionica, ribellandosi al Gran Re. Tensioni di cui già si accennava quando, da Mileto, Aristandro ha portato via Elcmene, che a sua volta veniva dalla Lidia, un altro impero potente alleato dei greci, sottomesso dai Persiani.

Dopodiché, nel 490 è avvenuta la prima guerra persiana, considerata da Dario una "spedizione punitiva". Dato che questi eventi fanno parte della giovinezza dei Sette li ho un po' sorvolati, accennando giusto alla famosissima Battaglia di Maratona, in cui gli ateniesi sconfissero i barbari costringendo così alla ritirata le truppe nemiche.

Dario è molto contraddetto da questa "macchia" e decide di inviare una seconda spedizione punitiva, ma è costretto a rimandare perché sorgono altre insurrezioni da un altro dei territori sottomessi, nientemeno che l'Egitto. Nella versione Ephura dei fatti, questo si traduce negli Ephuri egiziani (antenati dei Khalil, ovviamente) che trovano un Frammento in un territorio in cui dominano gli Arkonanti e ne conseguono difficoltose lotte che richiederanno l'aiuto degli Eleusini.

Curiosità: una "spedizione in Egitto" è accaduta davvero, non in questo periodo ma molto più tardi. Anche in quel caso si trattò di una richiesta di aiuto. I greci antichi non ne parlano molto perché è stato un completo e imbarazzante disastro (una carneficina). I due eventi in ogni caso non sono collegati, ma poiché la datazione non è mai precisa e le fonti possono essere falsi, non escludo che possa essere considerata la battaglia "vista dagli occhi dei Letargianti", archeologi permettendo.

Tutta la questione dell'Oracolo di Delfi ai tempi dei greci in realtà era molto diversa. La Pizia (o, sarebbe meglio dire LE Pizie, che erano più d'una), era segregata nei sotterranei del tempio e sottoposta a vapori allucinogeni che facevano sì che appunto si esprimesse in modo poco comprensibile. Quanto profetizzavano, però, come accennato qui, veniva messo per iscritto e conservato. A occuparsene erano i sacerdoti. In ogni caso, ne parla sia Erodoto, sia gli Elleni stessi ne erano consapevoli, moltissime volte non ci azzeccavano. Le loro erano semplici analisi svolte in merito alle conoscenze e credenze proprie (negativissime infatti durante l'avanzata di Serse, proprio perché tutti i greci ne erano terrorizzati). Nella versione Ephura, invece, è ben diverso: la Pizia è un'Ephura, e, almeno nel caso di questa specifica incontrata dai Sette, era assai probabile che possedesse un Cebrim "delle profezie" e le inviasse mentalmente agli altri sei. In altre generazioni invece, magari è uno degli altri a possederlo e a trasmetterlo a lei, ecc.

In ogni caso, per quanto riguarda la Pizia e gli altri Delphini, ovviamente non erano ancora "collegati agli antichi Eph" - cosa che avverrà solo nel 1492 d.C. - ma Ephuri normali. A differenza dei Lethargoi, gli Ephuri avevano già allora una visione "globale" del mondo, perché la mente annulla le distanze. Per cui già erano consapevoli dell'esistenza dei romani (futuri Cervini), così come i sami (futuri norreni - Detentori del Dono), i celti britanni (Futuri Minsdmith), gli sciti e sarmati delle Steppe (poi trasferiti nei territori oggi russi, dove si sono mescolati poi con altri Ephuri, formando i Razumov), e ovviamente i cinesi (Long).

Primo arco concluso! Spero che come inizio vi sia piaciuto. Purtroppo questo finale così positivo non è quello definitivo. I problemi iniziano proprio dalla GLORIA muahahah

Dopotutto, la profezia l'aveva predetto ✨
Quindi... Dolcetto o scherzetto? (Buon Halloween a tutti, lo so che non è a tema ma... dai un po' di sangue c'è 💀)

Sono disponibile per domande/curiosità/critiche/ecc. e... ci vediamo "domani" con la seconda parte.

Grazie per essere passati 🌙

ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA

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