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Capitolo 3: Il motel [R]


Per tutta la mia vita mi è stato imposto di diventare tua amica nonostante fossi una grandissima palla al piede. Quando ho preso coscienza di ciò che eri realmente per me, ho messo le carte in tavola ai miei genitori e ai tuoi: non volevo più essere tua amica e sai cosa ha fatto tua madre? Mi ha pagata! Sì, mi ha pagata per essere tua amica, ma adesso i soldi non mi interessano più, perciò tornatene in dormitorio da sola e domani non farti trovare lì. Ho già trovato una compagna di stanza nuova.

Queste parole mi rimbombano nella testa come se fossero una melodia orecchiabile che non ti abbandona più. Fermi davanti a me, Madison e quello sconosciuto mi guardano con un sorrisetto. Sono congelata, immobile, anche se dentro mi sento precipitare. Sto cadendo dentro a una voragine senza fine, un buco nero che si allarga sempre di più. Ho la vista sfuocata. Gira tutto e, a un certo punto, l'oscurità che sentivo soltanto dentro prende il sopravvento anche all'esterno, facendomi svenire.


<<Ehi, ti senti bene?>> Mi sento scuotere da grosse mani.

Sbatto due o tre volte le palpebre per riuscire a capire bene dove mi trovi. Sono in una stanza della casa della confraternita, a giudicare dalla musica ad alto volume che arriva dal piano inferiore.

<<Non sapevo dove portarti, scusami! Ti senti meglio?>> I miei occhi si appoggiano sul ragazzo nell'angolo della stanza. È alto e sì, ha delle mani grandi! È nell'ombra, perciò non riesco a vedere molto altro di lui.

<<Io non ricordo...>> provo a dire.

<<Ti ho trovata in giardino, per terra. Eri svenuta>>. Si avvicina lentamente al letto e la sua figura diventa più nitida: ha i capelli corti e indossa un maglione grigio e dei jeans neri.

Dopo questa frase, nel mio cervello si accende una lampadina: le parole di Madison ritornano a galla. 

Abbasso lo sguardo sulle mie mani. Ora ricordo. Ricordo il dolore, il buio, i pezzi del mio cuore cadere per terra come un vetro appena infranto. Tutto ritorna dentro di me. Tento di trattenere le lacrime. Io le avevo dato così tanto, quindi perché lei mi ha trattata in quel modo? Perché lei?

<<Frequenti letteratura inglese, giusto?>> chiede il ragazzo.

<<Mhh, sì. Perché?>>

<<Siamo nello stesso corso. Mi chiamo James>>. Si avvicina e noto una sfumatura di biondo castano nei capelli.

"Ciao, James. È inutile che provi ad avvicinarti a me con lo scopo di farlo anche con Madison. Per lei ho sempre contato meno di zero". Dico interiormente. Tutti si sono sempre avvicinati a me, con la semplice scusa di diventare amici di Madison. Io ero la piccola patetica amica di Maddie. Non solo qui in America, ma anche in Europa.

<<Piacere, mi chiamo Evelyn. Ti ringrazio dell'aiuto, ma ora devo andare>>. Mi alzo come si alzerebbe un tricheco dal letto.

<<Devi guidare? Non ne sei in grado in queste condizioni!>>

<<In che condizioni? Sto benissimo>>, ribatto freddamente.

<<Vorrei conoscerti, dai>>, insiste James.

Scuoto la testa, prendo la mia borsa, che casualmente era vicino a me, e  vado via. Scopro, con mia grande felicità, che Madison e il linguomane se ne sono andati da sopra la mia macchina. Accendo il motore e parto in direzione del dormitorio.

Arrivata nella mia stanza, raccolgo tutti i miei affetti e li butto in macchina.

Alzo il volume della radio. Never say never dei The Fray.

Eh già, mai dire mai. 

Accendo il motore senza sapere dove sto andando. So solo che mi sento come se mi fosse caduto addosso un ponte. 

Viaggiai in macchina per non so quante ora, finché non trovai un losco motel, dove mi fermai a dormire.

...

Mi sveglia una suoneria a me sconosciuta e, dopo alcuni minuti, mi accorgo che viene dal mio cellulare.

<<Mh?>> biascico.

<<Buongiorno, Evelyn! Volevo sapere se è tutto a posto>>.

<<Scusa... chi sei?>>

<<Ehi! Sono James! Vieni a lezione?>>

<<Come hai avuto il mio numero?>> sussurro esasperata dalla sua insistenza.

<<Non penso. Addio, James>> .

<<Asp...>> ma ormai gli avevo già chiuso il telefono in faccia. 

Controllo l'orario: sono le 11:30. Ho dodici chiamate perse da parte di mia madre e nemmeno una da parte di Madison. Il telefono inizia a vibrare di nuovo, così decido di spegnerlo.

Potevo aspettarmelo no? Potevo immaginare che Madison prima o poi si sarebbe rivolta contro un rospo come me, no? Quando litigavamo era sempre così: lei mi insultava e, nonostante pensassi che avevo ragione, chiedevo scusa. 

Lei mi dava attenzioni per qualche giorno, a volte anche una settimana, poi svaniva lentamente. Non rispondeva ai messaggi, ricompariva dicendomi che aveva da fare. Non  visualizzava nemmeno la mia risposta e sapevo che come sempre, quando sarebbe tornata, non mi avrebbe dato spiegazioni, perché le sapevamo le ragioni. Principalmente erano le stesse: c'era una persona che ti piaceva e a cui volevi piacere oppure qualche tuo amico più importante di me che aveva bisogno di te o che ci avevi litigato. In fondo solo loro erano capaci di attirare la tua attenzione. Io ero solo un foglio di carta bianco, niente a che vedere con lettere d'odio o d'amore. Qualsiasi mia parola veniva cancellata. 

Controllo l'orologio a muro: sono le 15. Non oso riaccendere il telefono. Ci saranno un sacco di messaggi di richiesta di perdono o cose del genere.

Che schifo!

Non c'è niente che possa esprimere quello che sto provando in questo momento. È come se fossi stata tradita da tutte le persone a me più care. Capisco che mia mamma lo abbia fatto a fin di bene, ma è inaccettabile comprare un'amica. E poi lei, Madison, come può averlo fatto? Che razza di persona può fare una cosa del genere? Io ho sempre fatto tutto per lei. Tutto. La consideravo il mio mondo. La veneravo ogni giorno. Ogni santo giorno pregavo di diventare uguale a lei. Ma perché non ho mai aperto gli occhi prima? Perché non mi sono mai accorta di che razza di persona sia Madison? Anzi no! Di che razza di schifo sia la nostra società? Che schifo.

Sono le 2:00. Qualcuno bussa alla porta.


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