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Capitolo 6

Capitolo dal punto di vista di Can.

Sono del parere che le farfalle siano esseri fortunati.

Nascono con le ali e imparano a volare, spiccano il volo e vivono finché non muoiono dopo poco.

Le farfalle hanno vita breve, ma almeno muoiono volando.

In quel momento mi definivo una farfalla, c'era solo una differenza: non sapevo volare e non stavo per morire.

Ero una farfalla perché ero in grado di scappare da quel luogo, solo non volevo.

Fin da bambino avevo amato la mia casa, era il mio posto sicuro.

Crescendo, invece, quell'appartamento dalle pareti bianche di uno dei quartieri più moderni di Londra, era diventato la mia prigione personale.

Quando tornavo a casa mi sentivo oppresso e in trappola, eppure non me ne andavo mai quando potevo e non ne sapevo nemmeno io il motivo.

Forse quando sei legato a qualcosa, non puoi tagliare quel legame... almeno non sempre.
Sei incatenato con delle catene d'argento troppo strette per poterle rompere, e non è una bella sensazione.

Una volta rientrato in casa, sentii mia madre in cucina parlare a voce bassa al telefono.
Succedeva spesso di quei giorni, ed era solo perché parlava con mio padre e non voleva rischiare che qualcuno la sentisse.

I miei genitori si erano separati più o meno tre anni fa, eppure non riuscivo ancora del tutto ad accettare il fatto che solo mio padre non fosse d'accordo con mia madre e le sue idee perverse sulla mia omosessualità.

Continuava a cercare di convincere mio padre a mettermi in qualche ospedale o casa ma lui, ringraziando il Signore Benedetto, era sempre in disaccordo, per questo mamma non poteva mai attuare nulla, non senza la firma di mio padre almeno.

Un'altra cosa che non riuscivo ad accettare era dover vivere con mia madre, che oramai mi pare ovvio non volesse saperne di me; mi avrebbe benissimo buttato fuori di casa, se non fosse per il suo egoismo che le impediva di voler sopportare il peso del senso di colpa, immaginandomi in mezzo alla strada.
Era così in brutti rapporti con mio padre, e ormai aveva dimenticato il riflesso di lui e del loro amore, che immaginava che anche lui avrebbe fatto lo stesso e mi avrebbe tenuto lontano, inoltre mio padre aveva una nuova famiglia quindi non avrei mai osato chiedere.
Mia madre pensava che quella di papà, un uomo dai sani principi e una moralità che non si poteva assolutamente non rispettare, fosse una scena teatrale per non ammettere che suo figlio così.
In poche parole credeva che mio padre non volesse allontanarmi per paura di realizzare appieno la cosa.

Quello che mia madre, una donna all'antica con un carattere al dir poco discutibile, non sapeva era che mio padre era stato proprio il primo a cui avevo rilevato la cosa.
Successe due anni prima, il giorno in cui feci coming out e ammisi davanti a mia madre e mio padre, che dopo anni erano di nuovo assieme in una stanza seduti uno accanto all'altro, di essere omosessuale.
Mio padre la prese benissimo; dopo alcuni minuti di riflessione o, forse, semplicemente di realizzazione, mi sorrise e mi disse che per lui non faceva differenza e che l'amore non dipendeva dal sesso.
Mia madre non la prese proprio allo stesso modo, anzi, la prese decisamente peggio.
Non mi rivolse la parole per mesi, cercò in tutti i modi di "cambiare la cosa" invitando ragazze su ragazze a casa e, quando vide che nulla in me cambiava e che io non ero propenso ad accettare questo suo offensivo comportamento — per lo più anche molto inappropriato per una madre, che di certo non avrebbe dovuto mai voler cambiare il figlio — semplice e iniziò ad essere fredda e distaccata, rivolgendomi la parola solo per le cose assolutamente vitali.

A tutto questo, si aggiungeva il mio estremo e, per la verità, immotivato senso di colpa.
Odiavo dover essere la ragione per cui mio padre dovesse subirsi mia madre, e odiavo che la mia sorellina dovesse sopportare di vedere la mamma sempre fredda e distaccata in mia presenza; aveva solo sette anni, ma non era di certo stupida.
E in più il suo carattere estremamente dolce e ingenuo, ma anche accompagnato da una vivacità, una furbizia e un'intelligenza assai sviluppate per una bambina della sua età, le faceva comprendere subito che c'era davvero qualcosa che non andava, e lei ne soffriva.

—Sono a casa— annunciai con un sospiro, appoggiando la cartella vicino al divano.

Mia madre, come previsto, lanciò un veloce sguardo preoccupato a mia sorella minore — manco potessi mangiarla — e poi mi rivolse una fredda occhiata.

—Metti la cartella in camera tua e corri a toglierti quelle scarpe, ho appena finito di lavare— ordinò irremovibile e con la voce piena di astio.

Alzai gli occhi al cielo, ma feci come mi era stato detto.
Più i giorni passavano, più mi domandavo quando mi avrebbe cacciato; forse mai, questo era vero, ma di certo non poteva sopportare la mia pazienza — almeno secondo sue vecchie parole — per molto.
Non era mai stata, nemmeno prima di questa mia scoperta personale, una persona affettuosa e che mi dava maree di attenzioni, anzi me ne dava forse anche di meno di quante iniziò a darmene dopo, ma almeno era... gentile.

Ora, invece, ogni minimo passo falso era come un treno da prendere per insultarmi o disprezzarmi, e onestamente era un treno di cui mai avrei voluto prendere il biglietto, anche perché la destinazione era il mio crollo emotivo.
Annabeth non sapeva chissà quanto, solo dei piccoli e insignificanti dettagli, ed era meglio così. Più persone non sapevano, meglio era.

—Can!— esclamò sorridente Lauren, mia sorella minore di ben nove anni.

—Ciao piccolina— sorrisi, accarezzandole delicatamente la testa ricoperta da una perfetta massa di riccioli d'oro.

Fisicamente non ci assomigliavamo molto, aveva preso più da mia madre; aveva la sua stessa chioma bionda, gli stessi lineamenti fini e la stessa fronte non troppo alta.
Io e mia sorella avevamo in comune solo gli occhi color cioccolato, le sopracciglia fini e le labbra rosee.
Per mia fortuna, caratterialmente sia io che lei avevamo preso da papà; eravamo testardi, ostinati è un pochino permalosi.

—Il pranzo— mia madre mi passò freddamente un piatto di pasta mezza bruciata, e ne diede un altro perfettamente cotto alla mia piccola peste che le sorrise.

—Grazie mamma! Ma perché quello di Can è bruciato?— chiese ingenuamente.

Mia madre mi guardò un attimo con occhi distaccati, poi guardò di nuovo mia sorella e alzò le spalle con fare indifferente.

—È stato un errore, può capitare tesoro.—

—Ma capita un po' troppo spesso ormai— protestò la bambina.

—Non è colpa mia. Ora taci e mangia, peste.— ordinò assottigliando gli occhi la donna che chiamavo madre, per poi andare verso la camera da letto.

—Vuoi fare cambio Can?— mi chiese dolcemente, con fare preoccupato, la mia dolce sorella e io scossi il capo.

—Mangia pure, piccola peste— le sorrisi dolcemente —non fa nulla, e poi anche se è bruciata è comunque mangiabile e, sono sicuro, anche molto buona.—

—Va bene...— sussurrò non del tutto convinta, ma tornò a mangiare.

Sospirai per un secondo e poi, cercando di non vomitare per il sapore del bruciato (che io, tra l'altro, detestavo più di ogni cosa al mondo) mangiai piano piano la mia pasta, cercando di far finire quel momento in fretta.

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