Dormire e non Sognare | @deliartemisia
C'era una volta in un tempo lontano due regni che condividevano pacificamente lo stesso territorio. Il regno di Himmel era abitato da esseri umani e il regno di Galamia da esseri fatati e fu così per un lunghissimo tempo fino a che re Geros mosso dall'avidità e dalla smania di potere voleva per sé il regno e i poteri delle fate. Il re sapeva che nulla poteva contro la loro magia e allora si finse innamorato di Neraida e pronto a sposarla per unire i due regni che avrebbero governato alla pari, ma la fata scoprì l'inganno e il dolore fu tale che neanche la morte di Geros la placò e per secoli consumò la sua vendetta contro gli uomini.
Nel regno di Himmel non era rimasto alcun ricordo di quegli avvenimenti tranne un'antica usanza: nell'anniversario dell'incoronazione il re riceveva il popolo e avrebbe esaudito un desiderio a chi avrebbe risposto all'indovinello proferito dalla regina, ma chi falliva avrebbe donato ai sovrani, almeno così credevano, ciò che amavano di più: la loro progenie.
All'alba del terzo lustro nel regno di Guglielmo de'Ein alle porte del castello vi era una grande folla che aspettava di essere ricevuta, tra di loro vi era una vecchia che brandiva un bastone di molte spanne più alto di lei, forse si attaccava a esso nel disperato tentativo di non cadere, aveva un'andatura lenta e affaticata tanto che si trascinava creando un fruscio fastidioso che stonava con il chiacchiericcio dei presenti. La donna indossava un mantello sdrucito e nero come la notte più oscura, il cappuccio le copriva parte del volto e chiunque le passava accanto le concedeva appena un'occhiata rimanendo impressionati dalle rughe profonde che le solcavano il viso, dagli occhi di un profondo blu che incutevano timore e dalle labbra che erano una linea sottile, un confine tra il beffardo e l'infastidito. Le persone continuavano a superarla finché lei non fu l'ultima a entrare nella sala e qualcuno, in seguito, giurò di aver udito il tonfo del bastone battere sul pavimento di marmo e il fruscio diventare una stridula risata.
Un mormorio riempiva la sala del trono che si arrestò quando entrarono re Guglielmo che aveva un aspetto fiero e severo e la regina Costanza che era talmente bella con i suoi capelli del colore delle nuvole e con occhi del cielo di giugno che i presenti la paragorarono a una delle creature fatate che si raccontava abitassero nel bosco. I sudditi si inchinarono al cospetto dei regnanti, Guglielmo si sedette sul trono e guardava impassibile la regina rimasta in piedi, in realtà dentro di sé fremeva perché neanche lui conosceva la natura del quesito che la sovrana avrebbe posto. La notte prima di ogni anniversario Costanza salutava il suo sposo e in gran segreto si recava nel bosco per incontrare la regina delle fate che l'avrebbe istruita sull'indovinello.
Il confine tra il regno umano e il regno delle fate era netto, Costanza lo oltrepassò con un passo deciso, sentì che la attraversava quel velo fatto di vibrazioni che separava i due mondi, un passaggio che le infuse malinconia perché apparteneva a un mondo, ma amava l'altro, ed era destinata a non far parte completamente di nessuno dei due.
La regina si inoltrò nel bosco, le scarpette affondavano nell'erba producendo un rumore ovattato, al suo passaggio gli alberi inchinavano le folte chiome e gli animali notturni la scortarono verso la dimora della regina delle fate mentre le lucciole le illuminavano il cammino.
«Buonasera Neraida.» Costanza chinò il capo, «ti ho portato un dono per il tuo indovinello.» Aprì il palmo della mano e vi comparve un lapislazzulo.
La fata era seduta su un trono scavato in una quercia dove i suoi rami si ergevano verso il cielo a perdita d'occhio, la regina aveva grandi occhi blu come quelli di Costanza e capelli color cenere, il corpo, esile come un giunco e vestito di trasparenze verdi, ricordavano un tenero fiore appena sbocciato.
«Bentornata Kore, sorella mia!», la fata si alzò e le aprì le braccia. Costanza si liberò del mantello e le ali lucenti e variopinte vibrarono perché finalmente dopo un anno erano libere di mostrarsi. Le due sorelle si abbracciarono e teneramente Neraida le accarezzò il volto, le pupille di Kore si dilatarono mostrando la sua natura di fata.
«Sorella mia,» Neraida le prese la mano,«un altro anno è passato e sono ben due lustri da quando hai lasciato la tua terra e il tuo popolo, dimmi, sei ancora felice?».
Costanza la osservò e vide cosa celava il cuore della sorella come lei sapeva cosa desiderava il suo. «Sono felice, ma ciò che mi renderebbe ancor più grande la mia gioia e non proferire domani mattina l'indovinello.»
Neraida si adombrò e strinse più forte la mano di Kore, «Mai! Il loro bene più prezioso, i loro figli con i loro sogni, nutrono Arvelania che ci tiene in vita,» così dicendo indicò la quercia, poi il suo tono divenne pungente, «abbiamo concesso loro il dono dell'oblio così che non soffrissero della perdita, cosa vuoi di più?».
«Ciò non sarebbe necessario se si tornasse come un tempo!», indicò Averlania e la voce si incrinò, «guarda cosa è diventata!». Il colore naturale della corteccia era sbiadito, le forme dei bambini e delle bambine che aveva fagocitato sembravano intagliati su di essa, si intravedevano visi con occhi fissi e bocche spalancate, i corpi aggrovigliati uno nell'altro ispiravano la dolorosa tensione di ogni muscolo, di ogni tendine. Dal terreno emersero le radici che assunsero l'aspetto di tante mani che si muovevano come in cerca di una via di fuga e i rami si mossero come sbattuti da un vento che non c'era e produssero un triste lamento. Lo sguardo di Kore che prima era di affetto per la sorella si tramutò in triste disprezzo:«Non comprendi che anche il nostro popolo non avrà alcun benessere da tutto ciò! Se i due mondi tornassero a essere uno solo...».
«Ciò non accadrà mai!», la interruppe Neraida, «hanno compiuto una scelta e ora ne prendano le conseguenze.» Battè forte le mani e tutto si placò,«ascolta l'indovinello che ho per te.»
«Questo popolo non ha colpa delle tue speranze infrante, non ho colpa di essermi innamorata e diversamente da ciò che è accaduto a te sono ricambiata.»
Costanza ebbe l'impressione di vedere il dolore negli occhi di Neraida, ma fu subito sostituito dall'odio, la fata avvicinò le labbra all'orecchio della sorella e gli sussurrò l'indovinello.
«Tra un anno mi troverai qui sorella.»
Tornò a sedersi sul trono e tutto si placò. Costanza si congedò dalla regina delle fate con un inchino e la morte nel cuore.
Costanza tornò all'alba e svegliò il re con un bacio sulle labbra che presto diventò esigente e famelico, si mise a cavalcioni su di lui così le loro intimità furono separate solo da un lembo di stoffa, cominciò a muoversi lentamente, liberandosi intanto della leggera camicia. Le mani di Guglielmo accarezzavano i fianchi, indugiarono sui teneri capezzoli che divennero turgidi come boccioli sorpresi dalla brina del mattino, scese lungo i fianchi e la accompagnò nel suo ritmico movimento, il fremito nel basso ventre lo scuoteva, l'esigenza di possederla era un bisogno prepotente, allora la fece stendere. In ginocchio sul letto fra le sue gambe ammirò i capelli sparsi sul cuscino e quelle labbra appena rosse che sapevano come baciarlo, le sfiorò con il pollice e lei lo accolse succhiandolo appena, gli sfuggì un gemito e quando lo lasciò andare le mani di lui scesero piano indugiando e tracciando dei piccoli cerchi sul ventre fino ad arrivare a quel lembo di stoffa che era come un naufrago attaccato disperatamente ad un legno. Guglielmo lo strappò e accarezzò con l'indice il monte di Venere e poi pian piano scese nel luogo più intimo e poi la assaggiò, la sentì inarcarsi verso di lui e un sospiro misto a un gemito che fu prima un invito e poi divenne esigenza, lo afferrò per i capelli e cominciò a muoversi ritmicamente e lui la seguì assaporandola, mordicchiando la sua parte più tenera. Quando Guglielmo sentì che Costanza era vicina all'orgasmo, le si adagiò sopra e lei lo avvolse con le sue morbide gambe, lo accolse dentro con un urlo liberatorio. I due amanti divennero mareggiata, lei assecondava il suo movimento, gli baciava il collo e i capezzoli, gli accarezzava con le unghie il petto e le bocche si cercavano incontrandosi e scontrandosi in un gioco di lingue e labbra aggrappati l'una all'altro trascinati dal piacere, una tempesta perfetta che si acquietò quando Guglielmo dopo essere arrivato all'apice, la baciò donandole l'ultimo sospiro di voluttà che lei accolse e ricambiò. In quell'istante in cui per i due amanti l'universo si fermò, Costanza sussurrò all'orecchio del re:«Mio amore, abbiamo concepito una bimba che chiameremo Rosaspina perché sarà bella come una rosa, ma diversamente da tutte le rose avrà solo una spina che solo il vero amore non pungerà.»
Guglielmo fu colto da una gioia immensa, ma subito dopo il cuore perse un battito e un terribile pensiero si fece strada, Costanza gli appoggiò la mano sul petto, «Cosa ti spaventa?». Il re portò l'esile mano di lei alle labbra e la baciò, si girò su un fianco e la attirò a sé così che i due corpi aderissero, «E se il patto fatto con le fate valesse anche per noi?». La regina chiuse gli occhi l'idea di avere una bimba non l'aveva mai sfiorata, anzi pensava che non fosse possibile, invece già la sentiva crescere dentro di sé. Si strinse ancor più vicina a Guglielmo e più per rassicurare se stessa che il suo sposo:«Non penso che Neraida mi darebbe tale dolore, anche perché non avrei il dono dell'oblio come voi umani.» Sospirò e fu chiaro che in quel momento era tormentata dal dubbio, «cerchiamo di mantenere il più a lungo possibile il segreto, anche perché dopo domani avremo un anno per decidere quale sia il miglior modo per proteggere Rosaspina.»
La regina osservò per qualche minuto i presenti, in quel momento rivisse ciò che era accaduto la notte prima, istintivamente appoggiò le mani sul ventre e intrecciò le dita su di esso, poi proferì l'indovinello:«Sparisco al minimo rumore, chi sono?». Nello stesso istante gli occhi di Costanza caddero su quella macchia nera che spiccava tra gli abiti colorati dei presenti ed ebbe l'improvvisa consapevolezza di chi si celava sotto quel manto nero ed era di vitale importanza parlarle subito, la sensazione cresceva prepotente dentro di lei, mise una mano sul collo perchè sentiva che doveva chiamarla, ma in coscienza non poteva pronunciare il suo nome. Intanto il suddito disse qualcosa, forse la risposta, ma lei non riusciva a comprendere le sue parole perché nella sua testa ciò che all'inizio era un bisbiglio era diventato un imperioso ordine, non voleva, non poteva, ma ascoltò la sua voce come se fosse qualcosa al di fuori di sé, come se gliel'avesse strappato :«Neraida!».
Nella sala calò il silenzio, Guglielmo trasecolò guardando la consorte atterrita, i suoi occhi erano spalancati e la bocca ancora aperta come se il suono della parola le continuasse a uscire dalla bocca come un'eco e poi vide due lacrime luccicare ai lati degli occhi per poi scendere lenta lungo le guance.
La vecchia avanzò e due ali di folla si aprirono davanti a lei, non si trascinava più e il rumore del bastone, sormontato dal lapislazzulo che fino a poco prima non era visibile, rimbombava sul pavimento. Il re si affiancò alla sua sposa e riconobbe la regina delle fate anche se l'aveva vista solo quando aveva sposato Kore, la sua Costanza.
Neraida era al cospetto dei sovrani o si poteva affermare il contrario, i sudditi assistevano alla scena ammutoliti, forse perché non comprendevano ciò che stava accadendo o perché dentro di loro si risvegliò un'antica paura. Guardò l'uomo che aveva fallito la prova:«Non è questa la risposta,» la sua voce aveva un suono ipnotico, «cosa hai di più caro della vita?».
L'uomo sembrò non comprendere la domanda e la guardava inebetito,«Mio figlio è vostro.» Pronunciò la frase con un filo di voce, ma i suoi occhi erano spalancati tanto che potevano uscire fuori dalle orbite da un momento all'altro.
«Presentalo al mio cospetto.»
L'uomo scrutò fra la folla e fece un cenno a un bambino che lo raggiunse, le lacrime solcarono il viso del padre mangiato dal sole e dal sudore dei campi perché in quel momento ebbe il presagio che non avrebbe mai più visto il suo bene più prezioso.
«Neraida, ti prego, no!». La supplica di Costanza irruppe decisa tanto che solo per un attimo i presenti furono scossi e furono liberi dal sortilegio della regina delle fate.
«Non osare intrometterti!», batté il bastone una volta e una vibrazione si espanse nella sala intrappolando nuovamente i presenti nel sortilegio, la regina voleva intervenire, ma non riusciva a muoversi e neanche a parlare. «Tum... tum... tum...», la fata batté tre volte il bastone, sotto i piedi del ragazzino il pavimento cominciò a ondulare e subito dopo le onde divennero mani che gli afferrarono le caviglie. Le sue urla di terrore riempirono la sala, abbracciò il genitore nel vano tentativo di non essere risucchiato, il padre lo teneva forte per la vita e se le mani tentavano di portarlo giù con loro, lui più opponeva resistenza, fino a che alle sue spalle si eresse un'onda che prese forma umana e gli afferrò le braccia e lo strattonò fino a quando non fu costretto a lasciare andare il figlio che fu risucchiato e subito dopo il pavimento tornò normale.
Neraida osservò impassibile il volto dell'uomo devastato dal dolore:«Onoro l'antico patto instaurato tra il mondo umano e quello delle fate. A noi il vostro bene più prezioso e a voi l'oblio.»
Il suddito tornò tra la folla, poi Neraida rivolse la sua attenzione ai sovrani:
«Penso che vi state chiedendo la ragione della mia presenza perché la cerimonia dell'assunzione si svolge ai piedi di Arvelania.»
«Hai avuto ciò che volevi, vattene dal mio regno.» Le intimò il re.
«Non così in fretta Guglielmo, tu e Kore avete qualcosa che appartiene alle fate. La vita che avete concepito renderebbe il mio regno di nuovo prospero come un tempo e ci darebbe la possibilità di spazzarvi via definitivamente.»
Costanza fece un passo in avanti:«Proteggerò Rosaspina fino alla morte e oltre.»
«Non sfidarmi sorella!», la voce di Neraida era stridula e il suo volto si contrasse lasciando vedere i segni della corruzione. Poi le puntò contro il bastone e il lapislazzulo brillò di una luce accecante. «Tu adesso verrai con me e la tua bimba nascerà nel nostro regno e diventerà una sovrana potente sotto la mia guida portando a termine ciò che io ho iniziato: questo regno sarà nostro.»
Costanza si accarezzò il ventre e baciò Guglielmo e fra le labbra gli sussurrò:«Perdonami, ti amo. Forse un giorno ci ricongiungeremo.»
Guglielmo non ebbe il tempo di trattenerla, Costanza si liberò degli abiti assumendo la sua forma di fata. Volò verso Neraida che rimase per un attimo spiazzata dalla sua reazione, le strappò il bastone dalle mani.
«Non avrai nè me nè mia figlia. Ricorda Neraida un giorno Rosaspina tornerà e rivendicherà il trono che le spetta di diritto e tutto questo per sua mano finirà.» Battè a terra il bastone con tutta la forza di cui era capace, il lapislazzulo esplose in un bagliore accecante che investì in un'onda d'urto tutta la sala; quando tutto si acquietò Costanza era svanita e con lei la regina delle fate lasciando la maledizione del dormire e non sognare.
Il soffitto bianco era un candido equoreo che si contrapponeva al parquet di quercia, l'appartamento era minuscolo e con pareti troppo sottili. Aprì gli occhi e rimase immobile sentendo sotto di sé la frescura delle lenzuola e godendo di quegli attimi di pace che avevano il sapore agro della rassegnazione all'inevitabile. Concentrò il suo pensiero sui piedi e poi sulle ginocchia e salendo sulla schiena e poi sulle spalle e infine sulla testa, ne poteva sentire le forme e il peso che avevano sul rigido materasso, strinse gli occhi e immaginò prima ogni singolo osso e i muscoli e poi il sangue fluire e sentirlo pompare dal cuore... il letto ondeggiò, fu dapprima un movimento lento che poi diventò sempre più veloce, afferrò con le mani le lenzuola mentre il suo corpo seguiva le onde bianche e subito dopo un tremito inarrestabile si impadronì di lei. La sensazione di nausea le afferrò lo stomaco e le prime volte non era riuscita a trattenersi, ma ora dopo così tante e tante volte aveva capito come gestire quel momento. Poi come era iniziato tutto si fermò, improvvisamente, soffiò fuori l'aria che aveva trattenuto e rilassò il corpo, ma sapeva che non era finita, infatti percepì il soffio delle parole sussurrate da voci sottili e penetranti, avvertì la pelle d'oca sulla nuca, le presenze riempivano la stanza degli odori del sottobosco che sapevano di mirtilli e felce e subito dopo si trasformavano in puzzo di putrefatto:«Sparisco al minimo rumore, chi sono?». Conosceva la risposta, ma non riusciva a pronunciarla, era lì, nella sua testa, apriva la bocca volendola urlare quella maledetta fottuta risposta! Niente, urlava non articolando le parole e ne usciva un suono stridulo e affannato, poi il silenzio. La stanza era prigioniera di quell'attesa che sapeva di angoscia, dal materasso sbucarono delle mani che la afferrarono, lei si ribellò tentando di sfuggire alla presa, ma quelle la graffiavano, le coprirono la bocca e gli occhi, le tiravano i capelli; lei battagliava, ma alla fine fu tutto inutile perché le mani riuscirono a saldare la presa e lentamente la portarono giù con loro. Quando ormai tutto il corpo era avviluppato ed era rimasto appena fuori parte della bocca e il naso, le urla rimbombarono nella piccola stanza, saltò dal letto ritrovandosi a terra in una posizione scomposta e non capiva per quale straordinaria ragione riusciva a salvare tutte le ossa, «Maledizione!» digrignò i denti:«Io non sono pazza come mia madre! Tu non esisti! Sei solo uno schifoso incubo!».
Dall'appartamento vicino una voce imprecò e poi batté sulla parete comunicante:«Vuoi stare zitta! Tutte le notti la stessa storia!».
La ragazza si alzò come una furia e batté i pugni sulla parete:«Vattene al diavolo! Torna a grugnire mentre guardi quei filmetti da quattro soldi.»
L'uomo cominciò a battere sulla parete e seguitò a urlare con il solito repertorio di improperi, lei gli fece un gestaccio e poi il suo sguardo cadde sul letto sfatto e in quel momento si sentì come quel letto: confusa, persa, non poteva più reggere alla mancanza di sonno. La stanza piombò nel silenzio, anche il vicino sembrava aver trovato pace e la stanchezza si impadronì del suo corpo, si sedette nell'angolo più lontano della stanza, aveva troppa paura di tornare a letto, appoggiò la testa sulle ginocchia e si addormentò.
Lo smartphone squillò, la ragazza ne avvertì il suono come un'eco lontano che penetrava nel suo sonno senza sogni. Aprì gli occhi smarrita, in un attimo le tornò alla mente ciò che era accaduto la sera precedente, si chiedeva per quale assurda ragione aveva lasciato come suoneria "La fata confetto". Scattò come una molla e raggiunse con due falcate il comodino:«Pronto?!», poi le sembrò stupido dirlo visto che la suoneria in questione corrispondeva al numero di telefono della clinica psichiatrica dove era ricoverata la madre, che aveva scelto e insistito per quella "musichetta" che a lei dava i nervi, ma era l'unico legame che aveva con la mamma e le dava quel senso di realtà che aveva smarrito, alla fine la custodiva gelosamente. La voce dall'altro capo del telefono le stava dicendo qualcosa, ma non aveva ben capito:«Mi scusi può ripetere.» La sua interlocutrice si fermò un attimo e assunse un tono leggermente spazientito:«Parlo con Rosaspina d'Ein?».
«Sì.» La sua voce era tremante.
«Sono la dottoressa Stille, La chiamo perché sua madre stanotte ha avuto una forte crisi. Deve venire subito in clinica...» fece una pausa e Rosaspina con voce incrinata chiese:«Mia madre è...», la dottoressa si affrettò a rassicurarla:«No, no, è stata molto male, ma siamo riusciti a calmarla. Ora riposa, ma vorrei parlare con lei,» poi aggiunse con fare accorato, «al più presto.»
«Sarò lì entro mezz'ora.» Chiuse la comunicazione.
Rosaspina fece una doccia veloce, dopo infilò un paio di jeans e una T-shirt, davanti allo specchio legò i lunghi capelli neri che spiccavano con il blu degli occhi. Si fermò un attimo e si osservò, disegnò il contorno del viso con l'indice, quando era piccola sua madre le spazzolava i capelli e le ripeteva che i suoi capelli erano neri come quelli del padre che non aveva mai conosciuto. Ricordò con tenerezza quando le raccontava le avventure della fata Kore che si era innamorata di un re e della terribile maledizione che Neraida aveva lanciato sul regno. La favola si concludeva di come un giorno lei, Rosaspina, era la principessa destinata a tornare nel regno e a spezzare la maledizione. In un gesto di stizza mise il palmo della mano sullo specchio per coprire il suo riflesso, poi sentì due lacrime solcarle il viso pensando che non aveva potuto evitare che la follia come un morbo lento e letale attaccasse la mente di Costanza fino a rendere necessario il ricovero. Non aveva mai creduto che la madre fosse pericolosa per sé, tutto era iniziato quando una notte si svegliò e la trovò sanguinante, disse che Neraida l'aveva trovata e voleva riportarla nel regno di Galimia, eventi violenti in cui la donna si feriva diventarono sempre più frequenti allora dovette intervenire. Ora però era assillata dai dubbi se fosse anche lei affetta da pazzia o le favole che le raccontava avessero un qualche fondamento, era ormai un anno che c'era qualcosa di inspiegabile che la perseguitava, forse parlare con questa dottoressa Stille l'avrebbe aiutata a capire; indossò il giubbotto di pelle, prese le chiavi della moto e il casco.
Rosaspina uscì dall'ascensore guardando nella borsa se aveva portato tutto ciò che le era necessario, l'impatto con l'uomo la fece vacillare all'indietro, ma le mani di lui la afferrarono rimettendola in piedi.
«Ros, tutto bene?».
«Diciamo di sì,» guardò i suoi occhi verdi e sentì quella morsa che le stringeva il petto,«Ciao Filippo, arrivederci Filippo!». Si infilò tra lui e la porta e a passo veloce voleva guadagnare l'uscita al più presto, aveva già la mano sulla maniglia che se lo ritrovò alle spalle.
«Rosaspina, aspetta!».
«Filippo, devo andare, non è il momento.»
«Per te non è mai il momento, ma prima o poi dovrai affrontare la realtà.»
Lei si irrigidì e lentamente si girò e dovette alzare la testa per guardarlo in faccia e in quel momento si sentì tanto piccola, fermò il suo sguardo sulle labbra sottili e poi sul naso imperfetto, certo Filippo non si poteva definire un principe azzurro, ma di certo lei non era una principessa.
Aveva sempre avuto un carattere ribelle, ma il suo ex aveva qualcosa in lui che riusciva a farle fare pace con il mondo e ora non se lo poteva permettere. Quando si era resa conto che con Filippo poteva essere felice come bastion contrario aveva preso la strada opposta o per meglio dire era corsa il più lontano possibile da lui e dai suoi sentimenti.
«E allora? Che senso ha tornare a parlare sempre degli stessi argomenti!», lo disse in un sibilo caricando il più possibile quella frustrazione che sentiva nello stomaco, «ora devo andare,» voleva aprire il portone, ma aveva i muscoli delle braccia doloranti e fece una smorfia sofferente.
«Ancora ti tormentano quegli incubi?», chiese lui e appoggiò la mano sulla sua.
Rosaspina in quel momento si sentì nuda e vulnerabile ai suoi occhi, «Filippo, ti prego, lasciami andare, mia madre non sta bene e devo andare in clinica.»
L'uomo per la prima volta dopo tanto tempo ebbe la consapevolezza di aver fatto breccia in quella corazza dietro cui si nascondeva e allora come un guerriero fece l'ultimo assalto per farla capitolare:«Ti accompagno,» lo disse con un tono che non ammetteva repliche.
Lei scrutò silenziosa la sua espressione come a studiare la sincerità dell'offerta, intanto una vocina maligna dentro di lei la canzonava: "Dai! Accetta, tanto lo sai che hai una voglia pazza di stargli vicino, te lo ricordi il suo profumo? Ma certo che te lo ricordi, quando sei sola non fai altro che pensare a lui e poi..." sentì un calore che partiva da dentro. Lo sguardo di Filippo era indagatore ed ebbe paura che le si leggesse in faccia ciò che stava pensando. «Va bene, puoi accompagnarmi.» La sua voce si era ammorbidita e probabilmente anche lui aveva colto la sfumatura perché fece un sorrisino e vide nei suoi occhi un lampo di soddisfazione.
Era un fresco mattino nonostante fosse giugno inoltrato perché la clinica che in realtà era una villa in stile Liberty attorniata da un bosco di querce. Il rombo della moto guidata da Rosaspina disturbò quell'aria di tranquillità che era un manto che proteggeva quell'angolo di mondo.
«Puoi aprire gli occhi. Siamo arrivati,» Ros non riuscì a trattenere il tono canzonatorio.
«Non ho mai chiuso gli occhi e ti lascio guidare volentieri, sai, fare il passeggero ha i suoi vantaggi,» Filippo le fece uno sguardo malizioso.
La ragazza aprì la bocca e subito la richiuse, voleva rispondere a tono, ma sapeva che avrebbe scatenato quello che un tempo sarebbe stato un battibecco ironico e divertente che finiva sempre nel peggiore dei modi con un bacio e nel migliore dei modi, vide di nuovo quel lampo di soddisfazione negli occhi di lui, «Andiamo,» gli girò le spalle e si avviò con passo deciso verso l'entrata della clinica e sentì dietro di lei il passo veloce di Filippo che subito dopo le si affiancò.
La stanza dove la segretaria della dottoressa Stille aveva fatto accomodare i due visitatori dava l'impressione di essere un salotto piuttosto che uno studio medico. Rosaspina era nervosa mentre Filippo era seduto con un'espressione granitica, lei si mise a osservare gli oggetti e i quadri che arredavano la stanza che ritraevano fate e paesaggi irreali.
«Non comprendo questa fissazione che hanno molti per le fate.» Lo disse tra sé e sé, almeno così credeva.
«Forse perché si racconta che nel bosco di querce vivessero le fate.» La voce di Filippo la scosse da quella sensazione di familiarità che quei dipinti le infondevano. Lo osservò mentre andava alla finestra:«Guarda,» le indicò il bosco poco lontano, Rosaspina guardò dove lui le indicava e rimase interdetta, gli strinse il braccio, «li vedi?».
«Chi?», lui si avvicinò al vetro e concentrò lo sguardo dove lei indicava, «non vedo nulla!»
«Ma come?! Come fai a non vederli?», Rosaspina si stava agitando e passava ora lo sguardo a Filippo ora alle figure che erano piantate davanti al bosco e la fissavano inamovibili, «mi stanno chiamando.»
Filippo la guardò e cercò di capire se lei non avesse un qualche tipo di allucinazione:«Non c'è nessuno. Vieni andiamo a sederci.» La allontanò quasi a forza da quella finestra, lei si lasciò andare sulla poltrona e mise la testa fra le mani:«Non ci capisco più nulla, sto diventando pazza come mia madre.»
Filippo le tolse le mani dal viso e le baciò gli angoli della bocca, aspettò la sua reazione, lei gli tracciò con l'indice il contorno delle labbra e lo baciò a sua volta. Fu un bacio lento per soddisfare quel bisogno che avevano uno dell'altro, come un assetato che finalmente riesce ad assaporare l'acqua. «Non sei pazza, ne sono sicuro, qualsiasi cosa ti stia succedendo la affronteremo insieme. Rosaspina, hai una sola spina che non mi ha mai punto perché so che mi ami.» Lei rimase un momento a contare i battiti del suo cuore:«Io...», la porta della stanza si aprì ed entrò la dottoressa Stille.
Scese un silenzio imbarazzante, Filippo inginocchiato davanti a Rosaspina si alzò di scatto, ma lei rimase a fissare la dottoressa fino a che non le fu di fronte e le porse le mano:«Buongiorno, sono la dottoressa Stille.»
«Rosaspina d'Ein.» Si strinsero la mano per un secondo in più e la sensazione fu quella che si stessero valutando.
«Rosaspina,» esordì la dottoressa scandendo il nome come ad assaporarne il suono, «mi consente di chiamarla Rosaspina e darle del tu?», non aspettò il suo consenso, «ti ho convocata per una ragione molto importante che riguarda tua madre, ma soprattutto te.»
Rosaspina osservò gli occhi blu e i lineamenti perfetti della Stille, ciò che la colpì furono i capelli color cenere che erano raccolti in una coda di cavallo, ma il suo profumo le ricordava qualcosa, ma cosa? Intanto avvertì la voce di Filippo che le parlava, ma non riusciva a concretizzare ciò che diceva, fece leva sulla sua volontà e spostò la sua attenzione dalla dottoressa per vederlo agitarsi. In quel momento ci fu come un'esplosione nella sua testa, avvertì il pavimento ondeggiare sotto di loro, l'odore del muschio di bosco fu il preludio della comparsa delle mani che afferrarono Filippo ingoiandolo senza che riuscisse ad avere alcuna reazione. Le mani le afferrarono le caviglie e cominciarono ad avanzare lungo le gambe, Rosaspina guardava la Stille che era un'impassibile osservatrice, le mani le erano arrivate al collo e non poteva liberarsi, poi la dottoressa alzò la mano e tutto si fermò.
«Non sai per quanto tempo ti ho cercato. Pensavo che tua madre ti avesse cresciuta preparandoti a usurpare il mio trono e invece mi ritrovo una ragazzina innamorata e piagnucolosa.» Le prese una ciocca di capelli e se la passò fra le dita:«Sembri più un'umana che una fata.»
«Ma chi diavolo sei?», le urlò in faccia Rosaspina.
«Sono Neraida, la regina delle fate del regno di Galimia.»
«Tu non esisti, sei una fantasia di mia madre!».
Neraida la guardò con disprezzo:«Stupida principessina, ora ti farò vedere se io sono una fantasia.»
Lentamente le pareti della stanza furono invase dai rami, un vento di sussurri riempirono l'aria, vide gli alberi aprirsi la strada nel pavimento, sfondare il soffitto e crescere altissimi fino a coprire il cielo. Guardò Neraida che cambiò il suo aspetto davanti a una Rosaspina scioccata che rimase a guardare ipnotizzata le sue ali scintillanti.
«Benvenuta in Galimia!».
Rosaspina si guardava attorno, «Era tutto vero!», un pensiero terribile si fece strada, «dov'è mia madre?».
«Dorme e non sogna, una maledizione per ogni fata e anche per ogni essere umano.» Un fiore crebbe velocemente e quando si aprì, mostrò Costanza.
«Ma vediamo le tue ali, sei umana per metà e hanno bisogno di essere aiutate.» La regina si pose alle sue spalle, «ti prometto che sarà molto doloroso.»
Rosaspina sentì una lama che le penetrò le spalle dall'alto verso il basso per poi tornare indietro una alla volta con estrema lentezza, sentì l'incisione sulla pelle che si apriva e un fuoco divorarla fino al cuore, poi un fruscio ed ebbe la consapevolezza che lei era una fata e capì l'intento della madre raccontandole quelle che lei credeva favole era un modo per insegnarle cosa fare quando sarebbe arrivato il momento di affrontare Neraida.
«Sono bellissime le tue ali! Ancor più belle di quelle di Kore,» solo per un attimo la regina delle fate sembrò commuoversi, ma subito dopo il suo viso mostrò la corruzione che la vendetta le aveva procurato. «Ora raggiungerai Averlania e così mi nutrirò della tua energia e finalmente la mia vendetta sarà compiuta.»
«Non puoi! L'antico patto ti impone che tu ponga l'indovinello.»
«Cosa hai tu più caro della vita?», chiese indispettita la regina, poi comprese, «non crederai che Filippo ti ricambi?».
«Ponimi l'indovinello! Non hai scelta.»
Neraida lo proferì scandendo le parole:«Sparisco al minimo rumore, chi sono?»
«Il silenzio!».
La terra tremò e si aprì lasciando spazio alle mani che portarono in superficie Filippo.
«Hai ottenuto la sua libertà,» Neraida lo disse con disprezzo poi rivolta a Filippo, «Ora scappa e dimostra a questa sciocca che l'amore non esiste.»
Filippo corse verso Rosaspina e disperatamente cercò di liberarla dalle mani, ma più loro la stritolavano, «non aver paura, non ti lascerò.»
«Voglio solo un ultimo bacio.» Gli sussurrò con l'ultimo respiro.
Filippo pensò che fosse veramente impazzita, ma le prese il viso tra le mani e la baciò.
Un forte vento li avvolse e quelle voci che avevano tormentato per tanto tempo la principessa delle fate ripetevano:«Il silenzio...il silenzio...il silenzio.» Le mani che tenevano chiusa in un morsa Rosaspina si allentarono lasciandola libera di poter ricambiare il bacio.
Neraida si otturò le orecchie con le mani perché le voci dei bambini e delle bambine che aveva imprigionato urlavano ciò che era stato il loro tormento, vide Averlania scuotersi e i prigionieri liberarsi. Il tormento e il dolore si impadronirono del suo corpo consumandolo fino a diventare polvere e il vento la portò via con sé.
«Siamo liberi!» i bambini ridevano e piangevano mentre si abbracciavano mentre Rosaspina e Filippo ancora uno nelle braccia dell'altro guardavano con meraviglia ciò che era intorno a loro: i rami di Averlania frusciavano una dolce melodia e vi era una luce chiarissima che li illuminava e tutto intorno era un tripudio di fiori e piante.
«Rosaspina, figlia mia! Ci hai liberati.» Costanza le andò incontro a braccia aperte.
«Mamma!», le due donne si abbracciarono,«perdonami, non ti ho creduto.»
«Non importa,» poi rivolta a Filippo, «grazie anche a te.»
«E ora?» chiese Rosaspina.
«Ora torniamo a casa.»
Filippo osservava Rosaspina che guardava le nuvole.
«Guarda quella,» lei gliene indicò una proprio sopra le loro testa,«sembra una fata!».
Filippo guardò la nuvola:«Se pensi di assomigliare a un drago, sì, è uguale a te.»
Lei fece una risatina:«Anche se assomiglio a un drago basta che continui ad amarmi.»
Filippo le spostò la ciocca di capelli cenere che la leggera brezza le aveva spostato sugli occhi, era diventata di quel colore dopo aver usato per la prima volta la sua magia con Costanza per liberare il regno di Himmel dalla maledizione del dormire e non sognare.
«Sei pentita di aver lasciato ai tuoi genitori il governo di Galimia?», doveva ancora realizzare che tutti gli avvenimenti a cui aveva assistito erano reali.
Rosaspina lo attirò a sé e gli schioccò un bacio sulle labbra.
«No, non sono pentita, finalmente i due regni sono riuniti e i miei genitori sono finalmente felici e contenti come il finale di ogni favola che si rispetti.»
«E per noi? Come finisce la nostra favola?».
Rosaspina lo strinse forte:«La nostra favola è appena cominciata e chi inizia bene...».
Sul quel prato si baciarono a lungo e (come ogni favola che si rispetti) vissero felici e contenti.
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