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Epilogo

(Claudia)

Di colpo, apro gli occhi.

Vengono bombardati contemporaneamente da migliaia di dettagli.

Prima un mosaico di mattonelle quadrate bianche, uniforme e continuo, dritto di fronte a me. Capisco rapidamente che è un soffitto.

Poi, al centro del campo visivo, qualcosa di nero e lineare. Lo analizzo meglio, ma l'immagine è come sfuggente: come mi soffermo su un dettaglio sembra sfocarsi e cambiare posizione. Poi la collego ad una leggera sensazione di pressione sul mio naso.

È un tubo. Che, se seguo con lo sguardo, conduce ad una mascherina. Posata sulla mia bocca.

Ho un colpo. Il mio braccio si avventa sulla plastica e l'allontana.

Atterra da qualche parte dietro alla mia testa con un rumore secco. Nel mentre, comincio a guardare al di là del mio naso.

I miei cristallini, scendendo lungo il monotono soffitto piastrellato, trovano ad un certo punto una figura lineare. Una sottile pedana di ferro, probabilmente un marciapiede od una piattaforma.

Ed io?

Davanti al mio braccio destro, a cui il mio occhi passa rapidamente, non posso non inorridire. Cinque aghi rivestiti di plastica verde penetrano nella mia pelle. Realizzandone la presenza, mi accorgo di un formicolio in quei punti.

Tubicini scuri si arriciolano impiantandosi in una superficie grigia, color ghiaia.

Infatti è pietra.

Il braccio sinistro corre in soccorso di suo fratello, sfilando con brutalità un ago dopo l'altro. Ci sono fitte di dolore residue, ma l'accelerazione cardiaca prende finalmente a scemare. Già, mi era venuto un cuore a tamburo vedendoli.

Ora l'arto, liberato dalle loro prese, può tastare la parete in esplorazione.

È proprio pietra, liscia e fredda. Sento però un fluido scorrermi sui polpastrelli; così, avendo già aderito alla mia pelle, lo sottopongo ad un dovuto esame oculare. È una goccia traballante, azzurra. Sembra acqua, ma ha un non so che di innaturale.

Ma dove sono adesso? La vista sembra andare disordinatamente. Sarà che sono ancora scioccata per il brusco risveglio? Questo, teoricamente, è il mondo reale. Almeno spero. Ed essendone assente da sei anni, non me ne meraviglierei.

Guardando bene, mi rendo subito conto che in realtà sono in una specie di vasca da bagno di pietra. Quella striscia di ferro che vedevo prima si rivela essere proprio al di sopra di quello che, dal mio punto di vista, è il bordo di questo contenitorone.

Guardo un pochino intorno, appurando che il mio corpo è libero da qualsiasi altra cinghia o tubo. La cosa già mi fa rilassare.

Così faccio scattare il dorso dalla roccia, passando ad una posizione seduta.

Oltre alla passerella, vedo solo due cose.

Altre passerelle parallele, perfettamente uguali, fino ad un muro con lo stesso motivo del soffitto.

Ed altre vasconi, ad intervallarle. Pieni di un liquido azzurro, lo stesso che ho esaminato prima sulla mia pelle.

Il mio sguardo viene brevemente attirato dal luccichio di una targhetta d'ottone. Riporta il numero 480.

E capisco immediatamente che queste stesse vasche devono essere di tutti gli altri soggetti. Non può essere altrimenti.

Mi guardo di sfuggita a destra, poi a sinistra: intravedo i numeri 479 e 481. Non mi curo di vedere chi ci sia dentro. Perché appena intuisco che la disposizione dei numeri è progressiva, so cosa devo fare.

Usando una certa dose di destrezza per non scivolare sulle curve levigate della vasca, mi adopero per alzarmi in piedi. Da qui posso vedere meglio tutto. Per esempio, scopro che la passerella è a grata, col ferro intrecciato in una griglia; sotto però si vede solo nero. Inoltre, trovo anche qualche finestra in certi punti del soffitto. Probabilmente ci si voleva garantire la luce solare, che però adesso sta cambiando gradazione. Sta assumendo una sfumatura rossa. Segno dell'arrivo del tramonto.

Zompo sulla passerella con un passo alto, facendo tintinnare il metallo.

Guardo la vasca antistante, contrassegnata dal numero 580, in cui giace un uomo. Ma molto giovane, sulla ventina, abbastanza magro e quasi albino. Ogni parte del corpo tende al bianco. Gli occhi sono chiusi nel sonno informatico, e la bocca piegata in un'espressione neutra. Anche lui ha degli aghi nel braccio. Non posso non notare che indossa solo un unico abito bianco pergamena lungo fino ai piedi, da donna. Logico: se, come ci era stato detto, veniamo (io non più) usati come dispensatori energetici, i vestiti sarebbero un ostacolo. Sicuramente il liquido deve sfruttarci al meglio raggiungendoci ogni parte del corpo. Forse è una fortuna che non sia nudo.

Un momento.

Una prima sensazione di freddo, che si accompagna al mio sempre maggiore controllo della percezione dell'ambiente, mi fa abbassare lo sguardo.

Anche io indosso lo stesso abito. Qualche tremolio sulla pelle del busto mi informa che qualche goccia del liquido persiste, mentre le punture gelide mi rivelano che sotto l'abito, che termina senza chiusure come fosse un tubo aperto, non c'è nulla.

L'idea di tirare Stefano fuori in queste condizioni mi fa bruciare dalla vergogna. Non solo quest'abito è praticamente aperto, è pure abbastanza ridicolo. Leggero e volatile. Ma va be', sopravviverò.

Mi dirigo verso i lati della stanza, verso la passerella quadrata esterna che connette i diversi filari.

Poi vado verso l'altro lato della stanza, contando le postazioni. 600, 700, 800. 1000. 1500. 2000. 2200. 2201.

Stefano, prevedibilmente in abitino bianco, è immerso nel liquido azzurro, con gli aghi infilati. È esattamente uguale, a posizione e sistemazione, ad ogni altro soggetto.

Appena mi dispongo di lato alla sua vasca, sento un rumore secco, come di una bottiglia che si stappi. Ma questa bottiglia sembra metallica.

Il mio sguardo, ancora puntato su di lui, non registra tutto subito. Ma poi vedo che il livello del liquido sta cominciando a calare.

Tutto resta in una tacita quiete finché il liquido non viene completamente risucchiato da chissà cosa.

Poi Stefano apre gli occhi di scatto, esattamente come ho fatto io.

-Yeela?

Soltanto perché si è risvegliato così bruscamente gli perdono di avermi chiamato col vecchio nome.

Si siede rapidamente, e si accorge degli aghi. Od almeno, questo mi dice la sua espressione facciale.

In ogni caso, li afferra uno per uno con nonchalance, quasi stia stuzzicando un aperitivo, e li lancia via alla rinfusa. Mentre lo fa, noto una sorta di cerchio nero incastonato nella pietra, dove stava la sua testa. Pare fatto di vetro, eppure una sagoma sfuggente si staglia al di sotto. Che quel dispositivo connetta il cervello alla Datospiana?

Pensandolo, mi viene una scarica di adrenalina. Siamo usciti.

Potrei esprimere la mia felicità a parole?

No, anche perché nel frattempo Stefano ha fatto rimbombare la grata su cui sto, ridestandomi.

Riesco ad incontrare i suoi occhi un momento prima che dica: -Non c'è tempo da perdere.

Mi ha già afferrato per un braccio e preso a scattare nella direzione opposta, da dove sono venuta. La sua stretta è forte, selvaggia, quando i piedi mi si trascinano rovinosamente, incespicando e graffiandosi, sul ferro incrociato linearmente a griglia.

Mentre il suo passo corre verso il muro dell'uscita, analizzo come sia tutto.

Le sensazioni, come il contatto con la sua pelle, hanno qualcosa di familiare e sconosciuto, sepolto. Sono uguali a quelle della Datospiana, sento la stessa cosa. Eppure resta un fondo di ignoto, perché sembrano più... vere. Percepisco che è davvero la mia pelle a riceverle, che mi percorrono tutto il corpo, senza che siano ristrette solo al cervello. Tutto questa porta però con sé una conferma: nel momento in cui ci fermiamo ed i nostri visi quasi si scontrano, non posso negare di voler allungare le labbra.

È una fermata brusca, e siamo davanti ad una porta.

Completamente bianca, ma vuota e liscia. Solo una normalissima maniglia dello stesso colore ne interrompe la monotonia.

-Tutto qui? - chiedo, più a me stessa che a lui.

-Perché mettere una seconda difesa se la prima è infallibile? Sicuramente è chiusa solo dall'esterno - ragiona, abbassandola e spingendo.

Quando viene spalancata mi aspetto di veder comparire un'orda di sorveglianti pronta a sgozzarci, eppure non c'è nulla.

Niente, se non un corridoio blu. Anzi, non blu: le pareti sono schermi, e quel blu non è altro che fasci di stringhe, lettere e numeri, sullo sfondo nero, che corrono spaziando tutti i muri.

Ho una specie di flashback. Sei anni fa, ero con questo stesso abito davanti alla porta, ma era chiusa. Ero dall'altra parte, ad aspettare d'entrare. Qualche minuto prima, ero stata in una stanza dalle pareti uguali. Si era spalancato un portone, ed avevo di fronte una scala. Dietro di me, una donna seduta ad un bancone aveva raccolto due schermi. Che io avevo compilato.

Siamo davvero fuori dalla Datospiana.

-Claudia... guarda lì... - mi indica un angolo tra due pareti dalla parte opposta. La prima è quella lunga alla nostra sinistra, la seconda è probabilmente l'uscita: si vede infatti un cubicolo rettangolare molto simile ad un ascensore.

Lui però mi sta indicando l'angolo, e vicino vedo un cartello incastrato nello schermo. "4-SOGGETTI".

-Ok, siamo al quarto piano. Quindi? C'è l'ascensore, tanto. - commento con sufficienza.

-Non intendevo quello. Guarda più in alto.

Alzo lo sguardo, e, sì, questo mi preoccupa.

Nel punto d'incontro col soffitto è installata una telecamera. Ergo, sapranno non a minuti, a secondi che siamo usciti. -Merda.

-Sbrighiamoci - mi incita. Non mi aveva ancora lasciata, così mi strattona trascinandomi, malgrado i miei piedi che non riescono a seguirlo, fino a quell'ascensore. Avviene tutto davvero in fretta, perché sta correndo. Vorrei esaminare tutto un pochino, ma non posso. Ed ha ragione.

L'ascensore è abbastanza spoglio. Soltanto un cilindro bianco come la porta, ed in punto sul lato destro (scelto evidentemente senza criterio) quattro bottoni rotondi, analogici, numerati da 4 a 0.

Stefano non perde tempo a premere il pulsante 0. Non faccio neppure in tempo a capire che mi ha lasciata.

Non riesco a trattenerlo prima che il suo dito arrivi facendo chiudere due porte bianche, praticamente mimetizzate con le pareti, ma poi gli chiedo con astio: -E se non fosse quello il piano?

-Ma butta meno stronzate - spara a zero mentre sento la velocità trascinarmi giù, ed uno schermetto davanti a me che non avevo notato lampeggia per poi indossare un 3 azzurro. -L'uscita è sempre al piano terra. Quei palloni gonfiati si credono così fighi ed imbattibili che mai s'immaginerebbero di dover confondere un coglione che riesca ad uscire.

Non fa una piega.

Din!

Siamo davvero già arrivati?

Ebbene sì, perché subito le porte rinvengono dalla loro mimesi ponendoci davanti due cose. Prima un corridoio, dall'aspetto asettico, di un colore bianco mescolato all'azzurro. Tutto è fermo se non per un tremolio della lampada, tranne la seconda cosa.

La porta, che è fatta degli stessi schermi delle pareti precedenti. Ci fluttuano forse pure più codici. È incorniciata, e separata dal muro, da un'aura luminosa azzurra.

Una cosa così maestosa, e vicina alla mia libertà, mi riempie di emozioni lente. Eccitazione ed adrenalina per prime, ma poi anche batticuore. Il tutto coniugato ad un'illogica voglia di non accelerare.

Tanto che non farei alcun rimprovero quando vengo di nuovo strattonata in avanti.

Non mi stupisco neanche quando i miei occhi, registrando un altro movimento, interrompono il mio sonno mentale.

Due lastre rettangolari, vitree, che si spalancano, e dietro altri schermi. Sono ovviamente la porta, ma ciò che subito mi salta all'occhio è un bancone.

Il bancone di registrazione, a cui mi "iscrissi" sei anni fa. Sempre sei anni fa, sempre, sempre in quel giorno, quello della peggior decisione della mia vita, che mi ha rinchiuso lì dentro inerte per un tempo incommensurabile.

Eppure non posso non guardare il lato positivo.

Avrei mai trovato Stefano? Avrei mai scoperto come funziona davvero la Datospiana? A cosa serve effettivamente? Avrei qualcuno con cui combatterla?

-Siete usciti?!

Una voce femminile che mi estrae dalla mia cella di beata positività.

Quella donna, la stessa che mi fece entrare (sempre sei anni fa), è dietro al bancone. Una montatura ovale rossastra cela due occhi sbarrati dallo stupore, incastonati in una faccia rotonda e chiara.

Sento un sussurro: -Parlo io. - È Stefano. Io vorrei gridargli di andarcene, di lasciar perdere quella sudicia traditrice, ma esordisce: -Dobbiamo subito andare via. I computer governano questo luogo. Fuggi con noi.

Resta leggermente attonita. Ma poi esce dal bancone annuendo. -Tanto il mio turno era finito. Vi accompagno alle vostre case, mi spiegherete tutto strada facendo...

Parte alla volta del corridoio d'uscita. Lo ricordo solo adesso, di come vi sia entrata, sempre sei anni fa. La cosa più triste è che scappai di casa. I miei non l'avrebbero mai permesso, così dovetti lasciare un biglietto e venire qui. Da sola. Non so cos'abbiano fatto nel frattempo, né cosa mi dovrò aspettare. Ma certamente il primo passo è raggiungerli.

La seguiamo nel corridoio, mentre io bisbiglio a Stefano: -E se ci stesse ingannando?

-No, fidati. È convinta di lavorare per degli Antinformatici.

-Potrebbe fingere. Magari è stata costretta dai computer, o l'ha fatto di sua sponte.

-Se così fosse tutti conoscerebbero la vera natura della Datospiana. E se i computer vogliono che cretini come noi continuino a portare acqua al loro mulino, non possono permettersi che giri una voce simile. Sai che sono così meccanici da non accettare la possibilità neppure di un minimo pericolo.

Sì, ha ragione.

E con questa, mi ha zittita per la seconda volta in una giornata.

Per il resto del tempo, tergiverso osservando le frotte di numeri che corrono sui muri. Vorrei tanto riuscire a leggerli, ma al momento ho un blocco che m'impedisce di chiedere a Stefano.

Arriviamo così, dopo un mezzo minuto, davanti alla porta. Quella da cui entrai, sempre sei anni fa.

Basta, diamoci un taglio. Ho ricordato troppe volte quel doloroso passato in poco tempo. Ora guardiamo al futuro.

Da qui non si vede nulla. Qualsiasi immagine ci sia dietro viene confusa da un velo bianco-azzurro opaco.

La donna spinge due maniglie d'ottone, molto lucide, e davanti rivediamo, dopo tanto tempo, il mondo.

Mentre facciamo qualche passo in avanti, esamino per bene l'ambiente, gustandolo come un piatto che non mangio da innumerevoli mesi.

Siamo in un bosco. Attraverso le foglie, vedo che è sera inoltrata. I tronchi ed i fogliami scuri degli alberi schermano l'esterno dalla luce sprigionata dalla porta e dal corridoio, probabilmente perché l'edificio non si veda. E d'altra parte, se quest'edificio "è" degli Antinformatici, dovrebbero mostrarsi a tutto il mondo?

Quando la porta viene chiusa rimangono solo le maniglie ad illuminare un breve spiazzo di pavimento in mattonelle grigie, che lascia rapidamente il posto al friabile terreno boschivo.

Indica a me e Stefano una botola di legno, appena visibile. -Ecco, il passaggio sotterraneo. Da lì sbucheremo su una strada, e ci sarà la mia macchina!

-Scusate!

Alziamo tutti e tre, simultaneamente e di scatto, la testa.

Dal bosco, alla nostra destra, emerge un'altra donna. Il sangue mi si gela, ma la lentezza dei suoi passi fa decelerare facilmente il mio cuore. Noto subito che la luce si riflette facendo rilucere una montatura d'occhiali anche su di lei, ma dopo arrivano i suoi capelli neri, quasi invisibili, molto arruffati e ricci. È pure abbastanza bassa, quasi una ragazzina. Anche il suo abito, una camicetta di un viola molto scurito, era quasi invisibile nelle tenebre.

-Stefano e Claudia? - chiede. Non posso non notare un fondo di accento francese.

-Sì - rispondiamo noi due in coro. Ed io -Chi sei?

-Magalie - risponde. Viene più avanti verso di noi, mostrandosi pienamente nella luce. Gli aspetti che avevo individuato si confermano, più accentuati, ed uniti ad un paio di pantaloni dello stesso nero dei suoi capelli, abbastanza aderenti, di calzamaglia. Le scarpe, poi, non ne parliamo. Sembrano esser state dipinte a pece.

-E penso dovremmo scambiarci due parole.

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