CAPITOLO 40-Più del dolore
(Yeela)
È una sensazione di fastidio generale ad aprirmi le palpebre.
La mia visione non si sfoca immediatamente. La mente inquadra tutto con lentezza estrema, offrendo inizialmente ai miei occhi la sola immagine di una tinta unita blu, senza contorni.
Tra le sensazioni, arriva prima quel fastidio. Una sorta di formicolio, che dopo qualche secondo capisco disporsi in una sorta di linea. Anzi, è più una croce. Parte dai polsi, e sulle braccia ha un sapore più intenso. All'altezza delle clavicole, tutto si attenua, anche se continuo a percepire una specie di lieve vibrazione che attraversa tutto il busto formando appunto una croce. Soltanto un punto sulla pancia prova lo stesso fastidio, e più forte di quanto lo sia sulle braccia.
Tutta la sua intensità ricompare però a partire dalla coscia: da lì tutta la gamba sente lo stesso del braccio, e tutto si ferma alle caviglie. La cosa è speculare, come se sulla pancia avessi uno specchio che cattura il dolore delle braccia e lo riflette sulle gambe.
Sotto, il mio tatto, evidentemente ancora attutito dallo stato in cui sono e dal tessuto della camicia, percepisce una superficie ruvida e rocciosa.
Tento di muovermi alzando un braccio, ma non accade nulla: la mia pelle è come bloccata.
Con quell'attimo di panico, la vista si rischiara, e posso guardarmi intorno.
La prima cosa che noto è un'abbagliante luce azzurra, che sembra venirmi da sotto gli occhi. Con la mente ancora un po' confusa ed intorpidita dal fastidio aguzzo la vista, trovando al centro del mio sguardo un quadrato scuro. Un quadrato perfetto. Anche se la luce azzurra misteriosa offusca l'aria, capisco che quello è cielo, di un colore notturno. Nonostante questo, non scorgo alcuna stella. Sposto un pochino la testa perché il mio sguardo cambi obiettivo, vedendo invece una parete strana. Ricorda molto Minecraft. Ci sono quattro muri: ognuno è della stessa sfumatura azzurra ed hanno un motivo a griglie, fatte da linee di un grigio molto sottile. Tutte si gettano verso il basso con una linearità e precisione geometrica.
Solo guardando bene capisco di essere in fondo ad un pozzo quadrato.
Mentre realizzo tutto questo, il fastidio generale che dominava sui miei arti comincia a trasformarsi in dolore.
Non è un dolore acuto, insopportabile ed improvviso. È quel dolore lento e basso, che però conquista ogni singola cellula. Le fa soffrire, le tortura, promettendo non solo un disagio, ma uno stato in cui la mente viene accecata, lasciandoti a macerare in quelle fiamme interne ostinate a non estinguersi.
Volgo la testa verso sinistra, scrutando il mio braccio. Ridotto in condizioni da orrore.
Il palmo della mano è rivolto verso l'alto. Ma il polso è incatenato, da uno stretto anello di ferro nero. Sembra fissato direttamente alla superficie su cui sono sdraiata, cioè la stessa dei muri, anche se intravedo qualche scabrosità che appunto sui muri non c'era.
Provo a muovere le gambe. Dato che avverto una resistenza anche contro quelle, presumo siano nella stessa condizione.
Il resto del mio braccio, invece, è tagliato esattamente al centro. Parecchio sangue viene effuso, tanto che riveste l'intera semicirconferenza dell'arto. Una parte già è colata verso terra e minaccia di venirmi a macchiare i capelli.
Il dolore comincia a diffondersi ed insediarsi, mentre il mio cuore non sa se indebolirsi per la rassegnazione od accelerare per la paura. Diventa una sensazione statica e stabile, di malessere. Anzi, malessere è un termine troppo medico: è sofferenza. Ogni mio membro chiama, implora che tutto smetta con grida deboli. Deboli come il dolore, che però nella sua debolezza riesce a distruggermi lentamente.
Non riesco a trovare subito la forza per alzare la testa e vedere meglio.
Quando ci riesco, vedo con la visione periferica le due fascette nere, gli anelli, attorno alle gambe.
Poi, di fronte a me, vedo la sorgente della luce azzurra. Non appena lo elaboro, lo shock congiunto al dolore mi provoca quasi uno svenimento. Non ci riesco, ma riesce a farmi abbassare la testa riportandomi a quella posizione di quiete dolorosa. In cui resto fissa, impotente.
Era un ago, un bastone azzurro, di vetro. Piantato dritto nella mia pancia.
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