Storia di chi fugge.
Il giorno in cui diventai maggiorenne cadde di sabato e alcuni miei compagni di classe ne approfittarono per organizzarmi una festa a sorpresa in spiaggia.
Faceva un po' fresco e c'erano ben due falò accesi a distanza di pochi metri fra loro a riscaldarci.
«Ci pensi che ora sei indipendente, Manu? E' una figata!» mi sorrise Monica, una delle poche con cui ero riuscito a mantenere un rapporto civile senza finirci a letto - come accadde invece con Chicca - in quei cinque anni di scuola.
Avrei voluto dirle che io indipendente lo ero stato dal secondo in cui ero venuto al mondo e che non c'era nulla di figo nell'esserlo se poi sfociava in una solitudine obbligata.
Al massimo ora ho solo un foglio in più a renderlo noto a tutti quanti, avrei aggiunto per chiudere il discorso.
Ma alla fine non dissi proprio nulla.
Proveniva da una famiglia molto benestante Monica e, per quanto non mettesse mai in mostra l'agio che la circondava, certe cose era naturale che non le capisse.
Mi ricordo che in più di un'occasione pensai a come la sua condizione economica in qualche modo la precedesse.
Abitava in un paese un po' più grande del mio, ma sempre di un piccolo borgo si trattava, e ciò significava che la condanna di essere definita prima ancora di formarsi ricadeva pure su di lei, sebbene in maniera completamente diversa da me.
Non provavo invidia, ma non sentivo nemmeno la necessità di compatirla quando aveva i suoi momenti di sconforto.
Uno era per l'altra un appoggio, forse per scelta, forse per mancanza di alternative.
Assieme ai compagni mi regalò un cellulare quella sera e io rimasi particolarmente colpito dal gesto.
Non ne avevo mai posseduto uno, né mi ero mai posto il problema di farlo, eppure lì, circondato dai ragazzi che registravano il mio numero blaterando che avrebbero potuto contattarmi e che pure io finalmente vivevo nel presente, mi assalì un magone terribile, come se stessi prendendo consapevolezza della mia miseria tutt'in una volta.
Non era solo questione di povertà, di un'indigenza che mai avevo celato, ma che comunque gestivo con il contegno tipico di chi non ha altre difese se non l'amor proprio, era più che altro lo scoprirlo così, il rendersi conto che quello era un fatto noto e risaputo da chi mi circondava e che con buone probabilità si era parlato della mia situazione, cercando un modo per portarmi al loro pari, però senza farmi sentire inferiore prima.
Chiaramente quel cazzo di telefonino lo presi ad odio prima ancora di capire come si usasse.
Lo ficcai nella tasca laterale dei pantaloni larghi che indossavo e, dopo un «grazie» strozzato in bocca, iniziai a bere una quantità spropositata di birra.
E più bevevo e più pensavo a Simone e al fatto che davanti a me un cellulare non l'aveva mai tirato fuori.
Mi domandai allora se ce l'avesse, se anche a lui facesse schifo o se c'era qualcuno con cui messaggiava spasmodicamente come vedevo fare a Chicca mentre sbuffava via la frangetta blu e avvampava di tanto in tanto.
L'ultimo dei tre pensieri mi turbò in modo esagerato.
A fine serata, con l'alba che ormai faceva timidamente capolino dall'orizzonte, ero ubriaco perso e stando ai racconti goliardici di Matteo continuavo solo a chiamare il nome di Simone come un disperato.
Quando mi chiese chi diavolo fosse questo Simone scoppiai pure a piangere e lui pensò che stessi parlando di qualche amico morto.
Non credevo comunque che lo fosse, una notizia del genere l'avrei saputa immagino, però piansi lo stesso perché nessuno del paese lo conosceva e la colpa era solo mia che non ne avevo parlato mai.
Divenne per me allora di vitale importanza descriverlo minuziosamente.
Matteo, Chicca, Monica, tutti dovevano sapere come era fatto, era impensabile l'idea che lui esistesse, con la sua bellezza delicata, gli occhi puri e il sorriso dolce, e qualcuno potesse ignorare un evento di tale portata.
«Nun c'hai na foto?» domandò Matteo ad un certo punto e il mio stesso diniego mi fece piangere ancora di più.
Possibile che non mi è mai passato per la mente di immortalarlo?, ragionavo incredulo fra me e me.
Il lunedì successivo a scuola fu abbastanza imbarazzante, ma in verità ero pure sollevato, che almeno mi sembrava Simone non fosse più solo un tarlo nella mia testa o un ricordo sbiadito di cui mi rimaneva un laccetto sdrucito.
Potevo parlarne liberamente e alla fine - con una certa ritrosia - mi decisi a farlo pure con mamma che accolse la notizia come se le stessi comunicando di aver trovato l'anima gemella.
«Simone non l'hai perso» mi consolò quando le spiegai che l'estate successiva al bacio non s'era fatto vivo e «vedrai che quest'anno torna... per te, torna.» concluse convinta lasciandomi una carezza in fronte.
Simone però non tornò.
Io nel frattempo presi la maturità - un dignitosissimo 80 strappato con i denti fra gli elogi del prof di filosofia e gli sguardi velenosi di quello di matematica - feci la prima vacanza della mia giovane esistenza, uscendo dal paese e sentendone una nostalgia fastidiosa, e agli sgoccioli di agosto mi iscrissi a Roma alla facoltà di lettere classiche.
I soldi per trasferirmi non c'erano quindi mi ammazzavo ogni giorno con la vita da pendolare, ripetendo a bassa voce nel treno pieno zeppo di persone e creando amicizie in aula che però non avevo modo di coltivare al di fuori.
Mi piaceva quello che studiavo ed era un bene perché il poco che potevo permettermi di fare dipendeva da una borsa di studio che un sacco di altra gente avrebbe voluto prendere al posto mio.
Nel mese di aprile del secondo anno poi, fui inaspettatamente preso per un semestre all'estero.
Io che non avevo mai visto mondo stavo per imbarcarmi verso la Spagna.
Mia madre mi salutò con una serenità che a dire il vero trovai offensiva.
Con il senno di poi capisco che la sua era solo la manifestazione di un sollievo sperato, covato dentro quasi con vergogna, quella di scoprire che tutta la propria vita sacrificata non fosse servita a niente.
Non avevo mai ragionato su come sarebbe stato lasciare la mia terra, mi sembrava impossibile anche solo l'idea, ma quando arrivò il momento provai una certa euforia.
Lontano dal paese - pensavo arrotolandomi il ciondolino dello Yang fra le mani nervose - potrò essere libero.
Andai a finire in una minuscola città dell'Andalusia e mi bastarono appena due settimane per ambientarmi e parlare con praticamente chiunque.
Era come se tutta l'esperienza maturata in vent'anni sempre nello stesso posto fosse finalmente utile a qualcosa.
Fu strano, ma anche gratificante, scoprire che dappertutto ci sono tanti piccoli paesi come il mio e che in ognuno di essi si conservano con la stessa gelosia usanze e abitudini.
Mi chiesi persino se ci fosse un mio omologo spagnolo, se esistesse anche lì un Manuel pronto a fare da vedetta cauta sulla vita degli altri e se di me - nuovo arrivato che già si cullava nell'abbaglio della conoscenza - avesse avuto una brutta impressione.
Nei giorni a seguire poi, mentre giravo per le viuzze storiche, immaginai che pure per questo fantomatico Manuel ad un certo punto dovesse essere arrivato un altrettanto fantomatico Simone a rovesciargli la vita, un qualcuno insomma che entrava nella sua terra come nella sua testa, monopolizzandogli i pensieri e logorando un'estate alla volta tutta la quotidianità confortevole che aveva faticosamente costruito.
Quasi caddi nel centro della piazza principale quando realizzai che quel viaggio non era - come ingenuamente credevo - una fuga dal paese tanto vituperato, ma da quello che lo stesso era divenuto per me dopo l'arrivo di Simone.
Ricordo di aver provato una furia selvaggia.
Ma più di ogni altra cosa mi sentivo ridicolo: ero stato preso in giro da un ragazzino dal quale non ero riuscito a staccarmi neanche scappando a migliaia di chilometri da casa.
Alla prima festa utile tra studenti del campus mi presentai con un'ostinazione e sfacciataggine superiore a quella che già mi apparteneva.
Volevo ad ogni costo fare colpo su qualcuno, dimostrare che io una vita potevo averla a prescindere da quello schifo di paese e pure da quel coglione di Simone.
Portava un terribile brillocco all'orecchio e una montagna di gel sui capelli biondi cenere, il figurino che da almeno mezz'ora continuava a versarmi sangria e dirmi parole attorcigliate fra loro in un inglese stretto che nemmeno capivo.
Si strusciava addosso con veemenza e mi chiamava Maniuel, infilando una i in mezzo al nome che non c'entrava niente e non aveva proprio a che vedere con il modo dolce di Simone di pigolare Manu, Manu con il suo tono cantilenante e sempre urgente.
Non glielo diedi il tempo al mio stupido cervello monotematico di pensare di nuovo a come sarebbe stata più profonda ora quella voce che avevo lasciato adolescente, ma puntai invece alle labbra sottili difronte alle mie con una violenza inaudita che sul momento sorprese anche il tipo.
Ci baciammo per pochi minuti, lo stretto necessario per dire di aver fatto i convenevoli, per distinguerci dalle bestie che diventammo nell'istante in cui la porta della mia camera si chiuse alle sue spalle.
Ero in ginocchio prima ancora che me lo domandasse, volevo starci faccia a faccia il meno possibile.
Mi affannai a slacciargli la discutibile cintura pitonata e socchiusi gli occhi per ripararmi dalla luce che aveva acceso contro la mia volontà.
Non ero abbastanza andato per tralasciare il disgusto che prendeva forma alla bocca dello stomaco, l'olezzo pungente della sua colonia ad invadere la stanza e quel sapore acre avvertito sin da subito in gola a mischiarsi con la saliva che continuavo a produrre sotto sforzo.
«I wanna get fucked sooo bad» biascicò con tutto il romanticismo che un ubriaco in procinto di ricevere una fellatio può avere in corpo e io non glielo feci ripetere due volte.
Lo preparai con attenzione, ma anche con una freddezza che rasentava forse l'analisi clinica più che il desiderio di un rapporto carnale e lui di questo distacco se ne accorse perché prese a mugolare dei suoni sconnessi fino a riuscire a formulare il mio nome, sorprendentemente ancora presente nella sua memoria annebbiata, seguito da un lamentoso «give us a kiss.»
Io non mi ci volevo avvicinare, figuriamoci baciarlo di nuovo, mi bastava solo scopare e liberarmi il prima possibile di un'erezione che nemmeno per un secondo mi ero indotto pensando a chi avevo steso fra le gambe al momento.
Ignorai la richiesta e cominciai a farmi strada nelle sue carni e dondolare con delicatezza il bacino lasciando che si abituasse a me.
Non facevo caso a nulla nel frattempo, solo all'incedere delle mie stesse spinte, contate per darmi un ritmo, un appiglio, per non precipitare in qualche tunnel mentale dal quale ero terrorizzato.
Avevo i pantaloni calati sotto il sedere e la camicia aperta ancora a coprirmi braccia e schiena, a dare prova - se ce ne fosse bisogno - che quell'amplesso per me meritava a stento il minimo dell'impegno.
Sulle prime comunque non diedi peso alle mani che appiccicose mi percorrevano il bacino fino ad arrivare all'addome.
Lo lasciai fare continuando a spingere come se la mia fosse diventata una missione da portare a compimento.
Bastò una presa tanto decisa da incurvarmi il collo in avanti per cancellare tutta quell'illusione che mi ero cucito addosso.
Le sentii prima di vederle le dita affusolate e strette sul ciondolo sospeso fra i nostri corpi.
In un attimo ogni sinapsi si rimise in funzione ad una velocità che quasi mi accecò.
Nessuno oltre me e Simone aveva mai toccato il pendente e lì, paralizzato sul letto, quella morsa così convinta mi sembrò una violenza insopportabile, ma soprattutto cercata.
Ma che cazzo mi è venuto in mente?, pensavo sconvolto mentre con movimenti meccanici prendevo il polso dello stronzo per staccarlo con forza e mi buttavo giù dal letto neanche fosse in fiamme.
Mi sentivo schifoso e le docce che feci dopo averlo mandato via fra improperi e singhiozzi intrisi di vino parevano non bastare mai.
Continuavo a ripulire ossessivamente pure il ciondolo, ma ce l'avevo sotto pelle quella sporcizia e tanto era radicata in me che aveva finito per contaminare pure l'unica parte di Simone che ancora mi rimaneva addosso.
Non so dire quanti di quei pensieri furono il frutto di un delirio etilico e quanti invece derivassero da un sentimento che ancora adesso non accenna ad attenuarsi, fatto sta che per i mesi successivi mi tenni alla larga dall'alcol e mi limitai a studiare e frequentare alcuni colleghi con cui instaurai un ottimo rapporto.
Per la prima volta fui contento di avere un cellulare, mi dava l'idea che fosse meno dolorosa la partenza se potevo continuare a sentirli ogni tanto.
Tornai in Italia a metà dicembre, con il Natale alle porte e le illusioni estive più lontane che mai.
Mia madre mi accolse come un eroe di guerra e ricordo che anche un paio di anziane dirimpettaie si affacciarono al balcone per vedermi scaricare i bagagli.
Guardandole, tutte strette in mantelle di lana dietro ringhiere foderate da teli frangivento, mi domandai se ai loro occhi giudicanti il mio sembrava un rientro in patria o piuttosto il misero fallimento di un'impresa.
Non avevo tempo per focalizzarmici troppo comunque perché mamma intanto smetteva di stritolarmi e mi trascinava dentro casa per mostrarmi il nuovo televisore, le nuove sedie della cucina e pure il nuovo scarico del cesso finalmente messo a sostituire quello scassato che stava su da anni.
Tanti piccoli miglioramenti che si sommavano fra di loro creando nella mia percezione distorta l'immagine di un posto del tutto diverso.
Mi veniva quasi di chiedere permesso prima di accedere in ogni stanza e anche alcuni oggetti, che erano rimasti intatti e mi avevano accompagnato durante la crescita, più li guardavo e meno mi sembrava di riconoscerli.
In questo contesto poco familiare ricostruii pian piano la vita che in realtà avevo sempre saputo, ma che dopo tanti mesi via non ricordavo più di sapere.
Scrissi la tesi fra le sedute scomode del solito treno e la scrivania della cameretta in cui mamma aveva messo una nuova carta da parati e mi laureai alla prima sessione utile nel mese di luglio.
Nessuno dei miei vecchi amici del liceo si stupì quando chiesi come regalo un viaggio al quale poi ne seguì un altro e infine un altro ancora.
Non mi allontanavo molto in realtà, l'importante per me era non trovarmi mai in paese durante l'estate.
Non concedermi neanche per sbaglio il lusso di passeggiare per le strade assolate e pensare a tutte le volte in cui le avevo percorse con Simone al seguito, incantato da cose che io avevo visto e rivisto, ma che attraverso i suoi occhi meravigliati sembravano nuove e belle pure a me.
Fu proprio in una delle tante trasferte in solitaria di quell'anno che conobbi quello che poi sarebbe diventato il mio editore.
Ci stavo pure per finire a letto, poi in un impeto di lucidità ritornai in me e, aiutato dal suo tono rassicurante e da qualche tiro di canna, presi a raccontargli la storia della mia vita.
«Scrivici un libro» mi disse convinto, come se anziché un perfetto estraneo avesse davanti il cavallo migliore della sua scuderia «butta giù qualche idea che la storia ha del potenziale. E' dalla sofferenza che nasce l'arte più bella.»
Tornato a casa mi misi subito all'opera.
In qualche modo dovevo passare l'inverno mentre aspettavo di venir chiamato per le prime supplenze.
Non mi riusciva di star tranquillo però, di immaginarmi a scrivere e pubblicare o esposto in una libreria magari con la mia faccia di cazzo in copertina o un nome d'arte a celare l'identità che tanto volevo preservar—
"Giovanotto! Ma questo libro lo vogliamo comprare o che vogliamo fare?"
Uh?
"Uh?"
"Sto parlando con te! Sono tre ore che leggi appoggiato alla parete! E mo me la consumi pure!"
Intontito.
Ecco come si sente Simone nel sollevare prima la testa e poi pure gli occhi dalle centottanta pagine che ha consumato in un intero pomeriggio.
Sbatte le palpebre una, due e per sicurezza pure una terza volta mentre fissa l'anziana signora dietro il bancone che a sua volta lo osserva di rimando.
"Non ti volevo spaventare figlio mio" sorride lei con un tono più pacato "però noi dobbiamo pure chiuderlo il negozio a una certa ora..."
Simone annuisce, che di più al momento non sa fare e va per lasciare il libro, rimetterlo al suo posto e cercare di capire pure per il tomo di quale esame era entrato in questa libreria fuori mano.
La donna però non pare essere d'accordo.
"E che fai? Arrivi quasi alla fine e poi non lo compri?"
E che lo compro a fare? - pensa sconsolato e scuotendo il capo - tanto il finale già lo conosco.
"No? Non lo vuoi sapere come va a finire?"
"Io-" come spiegarglielo all'insistente commessa senza sembra folle "io già lo so..."
"Ah no! Questo non è possibile!" ribatte tirandosi fuori dalla postazione "il libro è uscito oggi, noi c'abbiamo le prime copie arrivate qua proprio stamattina!"
"...stamattina?"
"Si signore! Allora che vuo' fa? Lo vuoi leggere?"
"Per scoprire poi che Manuel mi ha dimenticato e si è rifatto una vita?? No, grazie!"
Non è arrabbiato Simone, lo sa che non è colpa dell'altro se lui ha dovuto seguire la madre in Scozia per due anni e che, una volta tornato - per buona pace delle convinzioni attaccate al suo braccialetto dello Yin - non l'ha più visto al Circeo.
Ha accettato l'idea che non erano fatti per stare assieme insomma, però adesso mettersi a leggere di come l'amore della sua vita si sia scordato di lui un viaggio alla volta, quello davvero non può farlo.
Disegna allora un sorriso di cortesia sul volto ed elabora in testa una qualsiasi giustificazione che spera sia convincente per scusarsi del mancato acquisto, ma proprio mentre è in procinto di parlare, una domanda arriva a togliergli tutte le parole di bocca.
"E chi è mo sto Manuel scusami?"
"Manuel è- è l'autore..." borbotta più confuso di lei "e io sono Simone... il Simone di cui parla nella storia" aggiunge in un misto fra vergogna e timidezza.
Con un leggero tremolio recupera poi il libro dallo scaffale e lo passa alla donna.
"Vede" dice piano "sta scritto qui: Manuel Ferro"
La signora lo prende e se lo rigira fra le mani, ma dopo un po' rivolge la copertina verso l'esterno, verso Simone, che ancora non capisce, che ancora riflette su quel tipo inglese col quale Manuel è quasi andato a letto e lascia che gli si logori lo stomaco al pensiero.
"Simone..." il richiamo è affettuoso, materno per la dolcezza che porta con sé e il ragazzo quasi si commuove, che forse la signora ha finalmente colto il vero motivo dietro il suo rifiuto e-
"...ma tu sei sicuro che sai leggere, si?"
E non era questo che si aspettava.
"...in che senso, scusi?"
"Figlio mio, io sono vecchia e pur nu poco ciecata, però quello che dici tu non sta scritto da nessuna parte!" attesta battendo un dito sul nome dell'autore che Simone adesso vede davvero.
SAMUEL PIUMA, legge a caratteri cubitali sopra il titolo «Celeste nostalgia» e per poco non gli viene un colpo lì, davanti alla donna che continua a fissarlo come se fosse pazzo, e a questo punto non crede di poterle dare torto.
Le sfila il libro dalle mani, lo riapre, lo sfoglia, legge di Samuel e di Michele e si chiede ripetutamente ma chi cazzo sono questi? mentre arriva all'ultima pagina e scopre che - come immaginava - non sono finiti insieme.
Lei continua a dirgli che si è fatto bianco, bianco e gli offre una caramella che magari gli alza la pressione, ma Simone sta già con la testa al Circeo e alla corsa che deve fare per tornarci, di nuovo, anche se non è estate e dovrebbe stare a casa a preparare gli ultimi esami.
Il libro alla fine lo compra e non ha ancora capito se sto Samuel esiste davvero e gli ha fregato la vita o se è il suo Manuel che pur di arrivare a lui si è scoperto persino autore di romanzi introspettivi.
Comunque ora non gli importa più, non mentre saluta di fretta la simpatica commessa e corre come un forsennato verso la stazione per prendere il primo treno per Priverno, sperando non sia troppo tardi.
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