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La Luna e i falò.

Simone partì di giovedì mattina.
L'evento mi rimase impresso perché, di tutte le giornate possibili, proprio quella - scelta dal mezzo - non mi pareva adatta.
Fui preso in contropiede, come se il mio ritenere più logico andarsene al limite finale o iniziale della settimana dovesse creare un obbligo anche su di lui che invece quella questione non se la poneva affatto.

«Tanto mi mancherai anche se parto in un giorno diverso» mi disse abbracciandomi e io, con le braccia avviluppate attorno ad un busto sottile come un fuscello e dei ricci neri, neri a solleticarmi il naso, non risposi nulla, ma lo strinsi ancora più forte.

Nemmeno scesi in spiaggia a guardare il tramonto quel pomeriggio, mi coricai prima ancora che facesse buio e quando mamma tornò sfiancata dal lavoro e venne a cercarmi, rifiutai pure di cenare.

Se dormo da qui fino al prossimo anno - pensavo con gli occhi serrati - magari il tempo passa più in fretta.

Alla fine non ho potuto dormire un intero inverno e neanche la primavera successiva, anzi, ho dovuto stare parecchio sveglio, che i compiti della prima media non avevano nulla a che vedere con quelli delle elementari.
I bambini in classe erano gli stessi e c'era sempre la solita divisione in tre gruppi, dove io e altri quattro, due maschi e due femmine, facevamo parte dei più grandi.

Studiavamo i miti e l'epica, ma anche le fiabe e le favole, e io di queste mi cimentavo ad elaborarne in continuazione, anche quando i compiti assegnati erano differenti e veniva richiesto di fare tutt'altro.
La professoressa di lettere fu molto colpita da una in particolare e volle leggerla in classe e poi pure a mia madre.

Era strana da vedere, la storia l'avevo scritta io, ma lei sorrideva e si inorgogliva come se il lavoro la riguardasse.
Mi chiamava il suo alunno e imprimeva su di me una specie di possesso accademico, di dovere di riconoscenza, che non mi piaceva.
Espandendo il suo ego sui miei meriti finiva per togliermi la voglia di scrivere.

Durò a malapena un semestre il talento smisurato che mi rendeva valido ai suoi occhi mangiati da lenti spesse che, oserei definire ora, francamente anacronistiche pure per i tempi che furono.

Come l'avevo scoperta quell'abilità così lo persi, o almeno questo disse lei rammaricata dal mio ritrarmi in modo tanto netto da qualcosa che sembravo padroneggiare superbamente.

La verità è che a me non importava più molto, la scuola stava per finire, l'estate era alle porte e i vari stratagemmi per riempire il tempo adoperati dalla mia testa in continua macchinazione potevano acquietarsi.

Mi comportai nella medesima maniera tutti gli anni fino all'esame di terza media.
Appena giungeva il primo caldo, e con esso qualche sporadico turista, smettevo di affannarmi, rallentavo tutte le attività e attendevo placidamente l'arrivo di Simone.

E da lì poi mi inventavo la vita per non sentirmi da meno rispetto ai suoi racconti sempre avvincenti.
Che lui veniva dalla città, grande e caotica, e aveva quasi ogni giorno un costume diverso, io invece c'avevo avuto dieci mesi e passa di silenzio o delle solite parole reiterate dalle stesse facce e il costume nuovo me lo trovavo solo perché dopo quattro stagioni quello vecchio proprio non mi stava più.

L'estate dei miei quattordici anni la attesi più delle altre.

Fremevo dalla voglia di rivedere Simone e parlargli della nuova scuola.
Mi ero iscritto ad un istituto alberghiero ad un chilometro di strada dal paese, per buona pace di quella professoressa che tanto aveva insistito per vedermi fra i banchi di un liceo classico e pure di mia madre che mi sognava letterato.

Per lei specialmente fu difficile da accettare, vide in quella decisione una sorta di rinuncia da parte mia, come se tutto il lavoro nel quale si consumava pur di darmi un futuro migliore, io l'avessi preso e buttato all'aria con una lucidità tendente al diabolico.

«Che ce devi fa con sta scola» mi ripeteva «devi finire come me? Guarda che il cameriere è un lavoro di merda!»

Adoperava sempre questi termini per rivolgersi a se stessa, finire, ridurre, e altri sinonimi volutamente denigratori che mi dovevano in qualche modo spaventare, portarmi a fare pensieri del tipo «io così non ci devo diventare» e che invece mi restavano indifferenti.

Non mi era mai interessato cosa avrei fatto da grande, era come se il problema riguardasse un altro Manuel, uno che ancora doveva arrivare e che sicuramente avrebbe affrontato al meglio una situazione che io invece procedevo ad ignorare.

Di buono ci fu che baciai tre ragazze diverse quell'anno, una addirittura in procinto di prendere la maturità.
Lei cercò anche di mettermi una mano nelle mutande, ma poi ci ripensò e da una parte le fui grato.
Mi dava fastidio il modo in cui si poneva, come se mi stesse facendo un favore, continuando a dire "non raccontarlo a nessuno" con il tono di chi invece vuole solo che il fattaccio commesso si sappia.

Spifferai tutto a Simone il giorno del suo arrivo.
Non fece una piega, anzi, con mio sommo stupore, non sembrò proprio capire il passaggio rituale celato dietro ad eventi del genere.

Continuava a fissarmi perplesso con i suoi occhioni enormi, un dito a scavare cerchi nella sabbia e ogni tanto aggiungendo un «mh» alla conversazione che portavo avanti in soliloquio, giusto per dare un contributo, presumo più d'educazione che di sincero interesse.

Ad un certo punto iniziò a portare dei libri in spiaggia e un pomeriggio se ne venne con uno di Cesare Pavese, all'epoca per me nome assolutamente anonimo, che lascio precipitare sul mio addome umido.

«Che ci devo fare?» gli chiesi recuperandolo e sollevandomi di scatto dal telo.
«Quello che ti pare Manu, è un regalo... magari però non buttarlo a mare» rise, ma si vedeva che era un po' preoccupato.

Cominciai a leggerlo subito, lì sotto i suoi occhi, forse per dimostrargli che lo avevo gradito, con ancora l'incubo del gelato a tormentarmi dietro le palpebre.

«Che ne pensi?» mi interrogò dopo un po' e quella domanda mi lasciò senza parole.

Fu la prima volta in cui capii che a volte si può parlare non solo per farlo, ma anche per farsi un'idea, per comprendere e discutere.

Ero talmente assorto che mi ritrovai a metà storia in un paio d'ore e quasi dimenticai di averlo ricevuto in dono quel libro.
Mi sembrava un bene mio personale, nel senso che lo avvertivo sotto pelle, era un qualcosa che mi apparteneva e che ci aveva messo quasi quindici anni per raggiungermi.

La Luna e i Falò si intitola e mentre scrivo e lo osservo riposare sulla mensola piena zeppa di altri libri mischiati fra loro, penso che quello saprei individuarlo subito, come fosse diverso e si distinguesse da tutti gli altri.

Circa due giorni più tardi andai al locale dove lavorava mamma e la informai che l'anno venturo mi sarei iscritto al liceo classico a mezz'ora da casa.

Lei pianse sulla mia spalla per qualche minuto mentre la vivace proprietaria si congratulava con entrambi dicendo che era bello che cominciavo ad allontanarmi piano piano dal paese.
Mi dette pure più caramelle del solito e io tornai da Simone con le tasche piene di quei confetti terribili che però venne fuori a lui piacevano tantissimo.

Da allora non ci fu mattina in cui prima di andare in spiaggia non passassi dalla signora a farmene lasciare una manciata.
«Piglia Manué!» sorrideva rovesciando una confezione intera sulle mie mani unite a giumella «e comm so contenta che ti piacciono!»

Io invece ero solo contento che piacessero a Simone.

Anche alla fine di quell'estate comunque lui ripartì, ma prima di farlo mi lasciò l'ennesimo regalo: una collanina in caucciù con un pendente bianco a forma di goccia e all'interno un piccolo cerchietto nero.
Ne avevo già viste un paio in giro di quelle, ma non mi ero mai chiesto cosa rappresentassero.

Simone rise appena quando gli chiesi perché proprio una goccia e mi spiegò che era un simbolo della filosofia cinese del quale gli aveva parlato il padre davanti ad una bancarella di chincaglierie varie.

«Mi ha fatto pensare a te» disse sfiorando il ciondolo prima di passarmelo «lo yang è il bianco, il sole che dà luce al nero e al buio dello yin e pure se sembrano opposti, in verità sono uguali perché tutti e due non possono vivere senza l'altro.»
«E il mio yin dove sta allora?» domandai confuso mentre lui già si allontanava.
«Ce l'ho io Manu, ovvio!» e il pendente nero legato ad un braccialetto che - sventolando la mano - mi mostrava fiero, fu tutto quello a cui riuscì a pensare per diverse settimane a venire.


                              













                                  *
Una mattina, avrò avuto sedici anni, scesi in cucina e spaventai mia madre intenta a preparare la colazione.

Avevo aperto la bocca per richiamarla e mi era venuta fuori una voce profonda, un po' spezzata e roca che impressionò prima lei e poi me.
Non che fosse una cosa strana, intendiamoci, anche i miei compagni di classe stavano cambiando, è solo che io non ci facevo caso perché a vederli tutti i giorni mi parevano sempre i soliti coglioni con cui fare a botte.

Pensavo invece spesso a Simone e a quanto rispetto a me sembrasse piccolo già l'estate precedente e a come la differenza sarebbe stata ancora più evidente in quella a venire.

Non mi dispiaceva saperlo così in realtà, ci trovavo un che di adorabile nel suo aspetto delicato, quasi fiabesco, e ogni volta che mi fermavo a rifletterci ricordo che stringevo forte il pendente che avevo al collo.

Divenne pian piano un'abitudine.

Che fossi alla cattedra a fare un'interrogazione, che dovessi contare fino a dieci per non rompere il muso a qualche borghesotto della scuola o che stessi sotto la doccia a fare conoscenza col mio corpo, finivo sempre per appendere una mano al ciondolo e stringerlo o ruotarlo fino a logorarne il laccio.

Lo torturavo pure mentre, davanti ai quadri esposti sulla parete all'ingresso dell'istituto, scoprivo di aver preso il debito in chimica e matematica.

Era l'estate fra il terzo e il quarto liceo e, tornando a casa sul mio motorino mezzo scassato con il mare a farmi da panorama, capii che quello che più mi pesava era dover sacrificare il già poco tempo disponibile per stare con Simone.

Lui invece si mostrò tranquillo.
C'era una pacatezza nel suo agire quell'anno che infondeva in me un senso di pace mai provato.

Per quanto il volto palesasse ancora un certo candore infantile, dai gesti e dalle parole invece, trapelava una maturità lampante.
Simone era diventato adulto e io me ne resi conto solo perché improvvisamente mi risultò ben più capace di me nel confrontarsi con il mondo.

Per decisione sua infatti, passavamo i pomeriggi sotto il chiosco del lido dove, intanto che lui faceva i compiti di latino, io mi ammazzavo il cervello per memorizzare formule algebriche manco fossero incantesimi.

Suo padre lo conobbi di persona proprio lì verso la fine di agosto.

Con la mano ferma a carezzare i ricci scomposti di Simone mi salutava come se mi conoscesse da sempre e mi parlava con un affetto credo influenzato da quello che il figlio provava per me.
Era evidente che fra i tre l'unico non ancora adulto fossi io, perché tutta la mia pesante inadeguatezza non riuscivo proprio a camuffarla durante la conversazione.

Persino la capacità dialettica, che avevo sempre posseduto e adoperato come scudo sicuro in tante situazioni, in quel momento parve del tutto assente.
Vedevo le parole scivolare via dalla bocca come ammassi informi e prima che arrivassero a compimento cercavo di dar loro una logica che però stentavano a trovare.

Simone però del mio stato d'inquietudine se ne avvide subito e per calmarmi mi portò una mano sul ginocchio che ballava frenetico sotto il tavolo.
Il freddo del ciondolo di metallo stretto al polso si infranse sulla pelle assieme al caldo accogliente del suo palmo che non m'ero mai reso conto essere così grande.

Di colpo l'ansia si dissipò.

Mi pareva di perdere consistenza tanto che mi rilassavo, di sgretolarmi pian piano sulla seggiola in plastica del gazebo.
A mantenermi ancorato alla realtà restava solo il frammento di coscia coperto da quella mano ferma.
Era come avvertire un ferro rovente a insistere sopra e ci mancava solo il «pffff» sfiatato tipico delle presse incandescenti quando marchiano la pelle.

Come facevano gli altri attorno a noi a non rendersi conto di quanto stava succedendo?
Come facevano a non vedere il fuoco che impietoso mi risaliva la gamba e tutto il fumo al seguito?

Pure Dante continuava a parlare sereno e io gli offrivo una smorfia convulsa che doveva rappresentare un sorriso, ma intanto pensavo solo alla mia di mano che volevo posare su quella di Simone col terrore vivo che la togliesse e mi lasciasse ad esplodere definitivamente.

Sfiorai piano il dorso liscio con la punta di indice e medio e lo vidi sussultare appena.
Le gote scarlatte a confondersi con il rossore dell'abbronzatura e gli occhi che per un istante solo puntarono nei miei già pronti a ricambiare.

Restammo così, impietriti dalle nostre stesse azioni, finché il padre per andare via fece il giro del tavolo e venne inaspettatamente ad abbracciarmi.
Lo apprezzai molto, anche se questo mi costrinse a staccarmi da Simone e lasciarlo con la mano a mezz'aria e lo sguardo chino verso il basso.

Non parlammo poi di quel contatto, non parlammo di niente a dire il vero, visto che quando provò a riavvicinarsi mi scostai inquieto e lui, avvilito dal gesto, accatastò in fretta i libri uno sull'altro e scappò, inciampando pure sulla sedia nella foga di alzarsi e dimenticando un paio di penne sul tavolino.

Il giorno dopo non si presentò in spiaggia.

Passai il tempo a studiare senza capirci nulla, scervellandomi sul fatto che il padre di Simone sapesse già tante cose di me e io invece a mia madre non avevo mai raccontato niente.

Forse dovrei parlargliene - riflettevo - ma per dirle cosa? e intanto per il nervoso ingurgitavo un sacco di schifosissime caramelle che non avevo potuto regalare a nessuno fino a scavarmi una voragine nello stomaco.

La sera poi, incazzato come una biscia per il mal di pancia che mi avevano procurato - o forse soltanto preso da un'ansia patologica - mi presentai sotto la villa dei Balestra e cominciai a lanciare quelle che erano avanzate contro la finestra aperta della camera di Simone.

Si affacciò quando ormai stavo terminando le munizioni e dopo un «ma sei impazzito» digrignato fra i denti scese giù calandosi dall'albero di mandarini che costeggiava la parete di casa.

Non c'era neanche lo spettro della solita gentilezza che mi aveva sempre riservato.
Piuttosto mi sembrava invecchiato di vent'anni in una notte e l'espressione contratta del viso non si addiceva proprio ai suoi lineamenti dolci.

«Che cavolo ci fai qua Manuel?»
«Ti ho portato le caramelle» risposi chiaramente sarcastico «oggi non ho potuto dartele.»
Qualunque reazione di rabbia o tedio mi aspettassi di ricevere indietro si modificò invece in un sorriso disteso.

E come spesso accadeva con Simone, prima ancora delle parole, furono i suoi occhi a spiegarsi per lui.
Seguii la traiettoria dello sguardo attento per trovarlo puntato sulle mie dita che nervosamente torturavano il pendaglio stretto al collo.

Ricordo che allora stavo per arrendermi anche io, per offrire una tregua a quella prima litigata incompleta che avevamo vissuto nel nostro rapporto, quando con due semplici parole mi tramortì a bruciapelo.
«Domani riparto» disse solo e all'improvviso il mal di pancia divenne l'ultimo dei problemi.

Lo spintonai, prima con una mano, poi con entrambe, i palmi aperti a colpirgli il petto, gli occhi di brace e lui che indietreggiava preso alla sprovvista.
«E te ne andavi senza salutarmi, eh? Se non venivo io qua stasera che facevi?»

«Ti pensavo» fu la replica lapidaria mentre batteva con la schiena al robusto tronco dietro «ti pensavo come ho fatto per tutto il giorno!»

Possedeva questa abilità terribile Simone, gli bastava una frase in croce per bruciare tutto quello che il mio cervello aveva costruito.
Non riuscivo a portare a compimento un'incazzatura che fosse una quando c'era di mezzo di lui.

Certe volte mi ero soffermato a pensare al mio modo di gestire la rabbia come ad una pianta dalle radici malate e impossibili da recidere: le scazzotate a scuola, i litigi con mamma, tutto perpetrato nei modi più furibondi e anche esagerando volontariamente i lati già tossici del carattere.

Con Simone invece mi veniva di correggermi, di applicare una pazienza che probabilmente sapevo rivolgere solo a lui e che avevo imparato a coltivare fra le estati nelle quali attendevo di rivederlo.

Quella sera comunque, sotto la luna alta e ben in vista come solo di quel periodo capitava e l'albero di mandarini a coprirci, di tutta la storia della pazienza mi scordai totalmente.

Ci perse pure un bottone della camicia di lino nello strattone che diedi per avvicinarlo, ma alla fine - con le teste che a momenti collidevano in uno scontro doloroso e le sue mani tremanti a tenermi la maglietta - un bacio glielo rubai lo stesso.

«Non ti lascio» mi sussurrò all'orecchio poco dopo mentre lo stringevo a me con la paura a logorarmi la carni «non ti lascio Manuel, mi devi credere che torno.»

Non avevo nemmeno fiatato, eppure lui mi aveva inteso lo stesso.

Forse fu per quella sua innegabile predisposizione a guardarmi dentro e leggermi l'anima che decisi di credergli senza remore.

E forse fu per la mia opposta incapacità di fare altrettanto con lui che, quando la promessa non la mantenne, mi crollò il mondo addosso.

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