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Il paese.

Era particolarmente accecante il sole di luglio contro il quale conducevo una faticosa battaglia di sguardi fino a bruciarmi gli occhi.

Una mano accoppata sulle sopracciglia, unico riparo a disposizione, e la testa dritta per seguire il bagliore che si allontanava man mano verso est costringendomi a fare lo stesso.
Nel mio incedere convinto, avvertivo i ritorni dell'acqua di mare a riva lambirmi con forza i piedi, ma non me ne curavo affatto.

Capitava spesso che mi incantassi ad osservare il cielo illuminato, arrancando sul bagnasciuga soffice e farinoso e imprimendovi le orme per pochi secondi, come a posare una breve traccia che durava il tempo di un'altra onda.

Ne ero più o meno consapevole che non ci fosse niente di permanente nei gesti che facevo, nessuna impronta lasciata o rivoluzione compiuta nella stasi delle cose che toccavo.
E nel mentre che macinavo riflessioni acerbe al riguardo e inseguivo la palla di fuoco ormai discendente, non mi accorgevo proprio del passo che con precisione meccanica puntavo su un abbondante rilievo di sabbia davanti a me.

A rendermi partecipe del disastro che avevo appena compiuto, però, non ci volle molto: nell'ordine, una protesta flebile, poi dei lamenti mormorati e infine un'inaspettata morsa a stringermi la caviglia sottile.

Distrarmi dal Sole che fuggiva via diventava allora una costrizione dovuta.

Sopra il viso più dolce che i miei piccoli occhi avessero mai visto, si formava un broncio innaturale che in un attimo mi incatenava sul posto.

«Ehi! Quello era il mio castello!»

Avevo dieci anni e mezzo in quella stagione concitata e torrida del 1994.
Per le strade sfrecciavano dei terribili Ciao a pedali e alla tv un giovane Baggio tirava rigori decisivi cancellando con un calcio infiniti sogni di gloria.

E io - anche a ripensarci anni dopo - di tutta un'intera estate ricordo solo il momento in cui posai per la prima volta gli occhi su Simone.

«Tu sei nuovo qui.»

Glielo dissi dopo un po', quando ormai - anziché scusarmi della distruzione involontariamente compiuta - mi ero già impegnato per ruotare ben tre secchielli a terra e alzare altrettanti piani di sabbia sotto l'attenzione di un bambino che, dal basso dei suoi otto anni e con dei denti mancanti a svuotargli la bocca spalancata, mi fissava assorto.

Quanto volte poi, crescendo, mi avrebbe riservato quello sguardo ammirato.

Era piacevole riceverlo, anche se mi creava un vuoto al centro dello stomaco cui ero costretto a dare tregua portando una mano a premere sopra.
All'epoca non sapevo ancora spiegarmene i motivi.

Simone intanto continuava ad osservarmi senza proferire parola e allora mi ripetevo di nuovo, sempre con il medesimo tono fermo, di quelli che si riservano quando non si sta facendo una domanda, piuttosto una constatazione.

Che del Circeo sapevo tutto io, mica ero uno di quelli che ci andava solo venti giorni l'anno per affollarla di ombrelloni fino a riva e arieggiare abitazioni altrimenti dimenticate.

Quella era sempre stata casa mia da che avevo memoria, per la precisione da quando mamma Anita aveva cominciato a lavorare come cameriera in un piccolo locale a conduzione familiare e mi aveva iscritto in una scuola dove c'era questa singola classe che univa bambini di tre fasce d'età diverse pur di tenerla in funzione.

Erano anni ormai che catalogavo volti e voci in testa senza aver mai saltato nessuno.
Conoscevo ogni pietra e angolo del paesello, dedicandomi ad un'analisi metodica, fatta senza quasi accorgermene e che nel tempo mi aveva portato a sviluppare una mania per qualunque cosa lo riguardasse.

Ecco perché quel Simone, arrivato come un piccolo alieno ad invadere la spiaggia, ai miei occhi accorti e sospettosi, appariva chiaramente bugiardo.

Lui comunque non sembrava notare i tormenti interiori che mi attanagliavano, ma concentrato com'era a spiaccicare conchiglie deformi o sbeccate sui bordi della fortezza appena realizzata, faceva solo dondolare piano la testa da un lato all'altro.

«Senti io qui conosco tutti e a te non ti ho mai visto!» insistetti allora in un modo talmente convinto, arrabbiato, che me ne resi conto a scoppio ritardato di quanto, per quel mancato novero nei miei tutti, fosse rimasto male.

«Mi dispiace» bofonchiò infatti a testa bassa «non volevo mica darti fastidio.»

I capelli ricci, ancora umidi alle punte, gli ricadevano sul viso imbronciato e li spostava via usando una manina insabbiata che peggiorava solo la situazione, prima di alzare un braccio paffutello verso la fila di sdraio alle spalle e, con un «quello è il mio ombrellone» intimorito, indicarmi un uomo intento a prendere il sole.

Lo riconobbi subito.
Era il marito di quella coppia di Roma che avevo visto scendere solo ad agosto per rintanarsi poi in una casa grande col giardino sempre in fiore.

Ricordo che guardandolo mi montò in corpo una rabbia esagerata.
Pensai a quanto meschino fosse il figlio che aveva cercato di imbrogliarmi presentandosi solo con il padre, ma per sfortuna sua io ero attento, l'avevo capito lo stesso chi era e la prossima volta gli conveniva elaborare uno stratagemma migliore per fregarmi.

Ero già lì pronto ad inveire per questo affronto, con le parole intrise di bile nella bocca e un indice accusatorio puntato come un fucile verso la sua faccia lievemente abbrustolita, quando lui sembrò ridestarsi dal cruccio che lo aveva avvolto e con un candore disarmante «vado a prendere il pallone!» mi comunicò entusiasta.

Ripensando a quel periodo, riavvicinandomi mentalmente a quegli anni, non saprei dire nemmeno io come mi ritrovai poi, nei giorni successivi alla conoscenza del nuovo arrivato, ad inseguire un Super Santos sgonfio sul bagnasciuga e ad usare vecchie ciabattine di plastica come pali per una porta immaginaria.

Ciò che so per certo è che le ore spese al mare in attesa che mamma finisse il turno al ristorante diventarono di colpo meno solitarie e più tollerabili.

Simone in questo aveva grandi meriti.
Mi attirava nelle sue attività con un'euforia pura che mai avevo visto nella condivisione di un qualcosa di proprio.

Io ero sempre stato un figlio unico e, alla solitudine che ne conseguiva, dilagante a volte in un'esclusività tossica di premure e attenzioni, mi ci ero abituato sin dall'infanzia.

Lui invece, che con me perdeva a calcio, ma era comunque contento di poter finalmente usare anche i giochi che si fanno in due, sembrava venire da una di quelle famiglia sovraffollate dove si tramandano tradizioni e abiti con lo stesso senso del dovere.

Simone era generoso e questa sua nobiltà d'animo tanto evidente in certi frangenti mi infastidiva.
Io così non ci sapevo essere, e anziché sforzarmi per diventarlo, trovavo più semplice creare motivazioni artificiose e fini secondari per la sua gentilezza.

Un pomeriggio in cui faceva particolarmente caldo, mentre boccheggiavamo a riva dopo l'ennesimo bagno al mare, ricordo che sparì per tornare poco dopo con un sorriso enorme a spaccargli la faccia e un Cucciolone bigusto a sciogliersi fra le dita.

«L'ha comprato papà. E' per noi.»

Rimasi incredulo difronte alla sua capacità di rendere comunitario qualsiasi cosa, anche quelle evidentemente non destinate a tale sorte.
Spesso, ad esempio, quando era stanco del troppo sole o se richiamato dal padre, Dante, mi aveva invitato a raggiungerlo sotto l'ombrellone.
Rifiutavo sempre.

Non mi sentivo a mio agio ad entrare così vicino alla sua realtà.
Incontrare chi l'aveva messo al mondo significava instaurare un legame d'affetto che andasse oltre la semplice conoscenza estiva, l'unica che tutti i bambini in vacanza si erano sempre limitati ad offrirmi.

Non ero predisposto ad altre forme di rapporto sociale con loro, nessuno si era mai interessato a garantirmi un ruolo che non fosse di passaggio.
Ero la breve eccezione nelle abitudini comuni, una figura a margine nelle esistenze frenetiche degli altri, con un tempo di rilevanza non più ampio di un paio di mesi l'anno.

C'è uno stato di abbandono ancestrale che si insinua in chi abita nelle piccole località di provincia, come una piena coscienza, tracimante nell'arrendevolezza, di dover per forza di cose seguire il ciclo vitale del paesino e non ambire a nulla più di quanto quello è disposto a dare.

Con questa sensazione ci ero praticamente nato e credere di poterla governare era il passatempo preferito che mi concedevo da prima ancora di essere abbastanza grande da rendermene conto.

Il controllo maniacale del borgo, l'attenta veglia sulle anime che lo popolavano e spopolavano, serviva sì a farmi sentire parte delle stesse, ma in qualche modo anche superiore.

Che ergendomi sulle persone che della mia realtà erano membri, un po' diverso da loro alla fine sentivo di esserlo davvero.
Una speranza di futuro differente, fantasticando su tutte le storie che in potenza avrebbero potuto appartenermi, era poi quello che mi consolava nei giorni in cui la monotonia si faceva più opprimente del solito.

Tuttavia, così come mi innalzavo altrettanto mi abbassavo, con i piedi che ritornavano a toccare terra e gli occhi rassegnati che volgevano nuovamente verso il poco a cui ero sempre stato avvezzo.

La lotta fra ciò che sognavo e ciò che invece vedevo - questo molto meno stimolante di quanto mi sarebbe piaciuto fosse - aveva cominciato ad avere come punto d'incontro inedito, come confine valicabile e fruibile, un paio di manine impiastricciate di cioccolato e un sorriso sdentato.

Non so spiegare bene perché quell'ennesimo gesto gratuito parve ai miei occhi di bambino più intollerabile degli altri, fatto sta che del gelato ormai sciolto rimase solo l'odore quando, con un movimento repentino e assestato, lo feci volare in mare seguito da un sonoro «plof».

Quel giorno imparai che Simone piangeva come viveva: senza far rumore, con la paura di disturbare e la voce bassa, bassa che mormorava un dispiacere per azioni delle quali avrebbe dovuto invece essere lui a recriminare delle scuse.

L'esperienza mi turbò più di quanto fossi disposto ad ammettere.
Non era l'idea di aver assunto atteggiamenti da bullo a tormentarmi come forse avrebbe dovuto, quanto più il fatto che li avessi manifestati addosso a Simone.

Mi sembrò improvvisamente violento e ingiusto il mio comportamento, avrei voluto tuffarmi in acqua, nuotare fino al fondo più buio del mare, forse annegarci pure, e il tutto solo per recuperare il gelato e restituirglielo intero.

In uno slancio di affetto estemporaneo, che pareva sormontarmi nel modo in cui insisteva per uscire dal petto, presi a consolarlo come se il torto subìto non glielo avessi fatto io.

«Te lo ricompro... te lo ricompro il gelato così lo mangi» cantilenai carezzandogli goffamente i capelli increspati e tentando di sollevargli la testa incassata nel collo.

Neanche sapevo dove trovare sul momento le 500 lire necessarie e stavo già pensando di scappare al locale da mamma per impietosire lei o la anziana proprietaria che ogni volta mi rifilava senza che io gliele chiedessi delle caramelle tanto forti da farmi lacrimare gli occhi.

Nulla di tutto ciò si rivelò necessario.

Simone, labbro inferiore che tremava e naso arrosato da cui inspirava forte, in risposta alle vuote promesse di risarcimento, scosse la testolina con la mia mano ancora sopra e pigolò un flebile «non me ne frega niente del gelato a me» che faticavo a sentire.

«Come no? E che vuoi allora?»
«Io- io lo volevo mangiare con te» mormorò «siamo amici noi» e c'era una sicurezza nel definirci tali, una convinzione, che rasentava quasi l'ovvio, come fosse evidente che l'unico motivo nascosto dietro quell'offerta rifiutata risiedesse per l'ennesima volta nel desiderio di coinvolgermi a tutti i costi nella sua vita.

D'improvviso, osservando la sconfitta farsi strada sui suoi occhi enormi e le gambette già flesse e pronte a fuggire via, provai una soffocante impellenza.
Volevo dimostrargli che anche io potevo essere gentile, che tutti quei tentativi - alcuni riusciti altri no - dell'intero mese trascorso assieme, avevano sortito un effetto su di me.
Che lui aveva sortito un effetto su di me.

Non c'era mai stata da parte mia fino ad allora una riflessione sul concetto di bene.
L'unica alla quale lo avevo sempre rivolto me lo aveva inculcato senza insegnarmelo, un indottrinamento affettivo il suo che sapevo solo provare senza capirne i meccanismi alla base.
Era mia madre e dovevo amarla per forza, non conoscevo alternative.

Invece, con Simone piangente a pochi passi da me, ricordo che per la prima volta guardai a quel sentimento in modo cosciente, come fosse un bivio di cui però avevo già chiara la direzione.

Gli pizzicai una guancia trovandola morbidissima e mi scusai per ben due volte, adoperando una voce supplichevole che era inedita persino alle mie orecchie.

Mi sembrò quasi pazzo con il sorriso luminoso che mi concesse subito dopo.
Aveva ancora le lacrime a rigargli il volto, eppure erano bastate delle parole malamente acconciate di pentimento sincero a rivoltargli completamente l'umore.

Ammetto a posteriori che fu piuttosto inebriante scoprire di avere tutta quella influenza su una persona.

E mentre riprendevamo a giocare e ridere, godendoci gli ultimi giorni assieme prima del suo rientro, non pensavo proprio a quanto anche lui stesse acquisendo un identico potere su di me.

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