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30. Love You Goodbye

*Se volete farvi del male, vi consiglio di ascoltare la canzone mentre leggete*

"It's inevitable, everything that's good
Comes to an end. It's impossible to know
If after this we can still be friends.

I know you're saying you don't wanna
Hurt me.
Well, maybe you should show
A little mercy".

"Mi manchi. A pranzo ci sei?".

Sorrisi come un'idiota alla vista di quel messaggio, e lo sbattere delle ali delle farfalle nel mio stomaco mi fece il solletico alla pancia. Ritenevo quantomeno assurdo e incredibile che fosse capace di farmi quell'effetto addirittura attraverso uno schermo, ma ormai stavo imparando a farci l'abitudine, e stavo capendo che, per quanto un essere umano, il più delle volte, cerchi una spiegazione logica a ogni cosa che gli capita o ha attorno, arrivato a un certo punto dovrebbe semplicemente arrendersi alla consapevolezza che non tutto si può interpretare razionalmente. Avevo smesso da tempo di scervellarmi, e mi ero lasciata avvincere dalla potenza di quello che sentivo per lui. Era solo dalla sera prima che non ci vedevamo. Eravamo rientrati da Boston quella domenica pomeriggio, e avevamo trascorso il resto della giornata insieme, fino poi a doverci salutare - non senza qualche (molte) difficoltà - la sera tardi. Diciamo che non fu molto facile passare dal vedersi ventiquattro ore su ventiquattro a niente. Appena era giunto in camera sua, aveva iniziato a tempestarmi di messaggi, tanto che, dopo un po', mi aveva direttamente telefonata, scatenando non poche proteste da parte di Lindsay, che lamentava di voler dormire sonni tranquilli. Cosa che la mia "voce da cornacchia", stando alle sue parole, non le permetteva di fare. Sarebbe superfluo specificare che quella era una delle "giornate no", in cui litigava con Mike in continuazione. Quella mattina non eravamo riusciti proprio a vederci, perché eravamo dovuti scappare a lezione - anche se fu molto traumatico tornare a studiare dopo quel weekend lungo passato a fare letteralmente niente. Non avevo neppure fatto colazione, e non potevo nascondere, dai borbottii del mio stomaco, che stavo risentendo non poco di quella decisione avventata. La professoressa O' Neil si era cimentata in un interminabile monologo su un argomento che adesso mi sfugge. Ma non penso fosse nulla di così importante da essere ricordato, se metà aula stava ancora dormendo. Io ero stata concentrata sulla velocità con cui si muoveva - tutt'altro che sinuosamente - il suo corpo dalla massa non indifferente, e sul modo in cui i suoi capelli biondo acceso sembravano sempre aver preso la scossa, per come erano sparati in tutte le direzioni possibili e immaginabili, fino a quando la vibrazione del cellulare non mi aveva distratto e fatto abbassare lo sguardo sul banco. Chissà per quanto tempo rimasi effettivamente in quella posizione. Dovette essere veramente molto, se, quando risollevai gli occhi, sentendomi osservata, notai che tutti mi stavano fissando, a metà tra l'incuriosito e il divertito, e che la professoressa era in piedi accanto a me. Mi stava a dir poco incenerendo con lo sguardo e "inebriando" con il suo "profumo" sgradevolissimo.

"Signorina, le ho chiesto ben cinque minuti fa se voleva anche che le portassi un caffè per fare salotto, già che c'era, dato che sta a dormendo. Se la lezione non le interessa, è pregata di abbandonare l'aula. Non è obbligatorio seguire i corsi, lo sa? E poi sono le dieci di mattina. Avrei capito se fossero state le otto..." mi rinfacciò, con le mani sui fianchi, e in volto un'espressione che non ammetteva repliche.

Risucchiai un respiro, perché il tutto si era svolto solo nell'arco di qualche secondo, lasciandomi interdetta, e aprii bocca per ribattere, seppure non sapessi cosa dire per giustificarmi. Lei, però, con un gesto tempestivo, mi strappò il telefono di mano.

"Questo lo prendo io, e lo riavrà alla fine delle lezioni. Sempre se mi sentirò benevola nei suoi confronti. Presti attenzione, piuttosto, perché, se la becco distratta di nuovo, non la passerà così liscia" decretò poi, fulminando con un'occhiataccia tutti quelli che si erano permessi di ridacchiare per la sua sfuriata, tornandosene poi da dov'era venuta.

Non avevo neanche potuto rispondere all'SMS di Peter, e, senza più quella distrazione, potevo solo rivolgere tutte le mie forze, attenzioni ed energie alla lezione di quella vecchia megera. Cosa che non mi fu per niente semplice, visto che me n'ero persa un pezzo, e quindi non capivo niente di quello che stesse dicendo.

×××

Ero in super, mega, ultra ritardo. Quell'odiosa aveva fatto non poche storie, per restituirmi il cellulare prima della pausa pranzo, ma alla fine aveva ceduto. Avevo disgraziatamente saltato anche il pasto, per colpa sua, e speravo soltanto che Peter fosse ancora in caffetteria, perché, come se non bastasse, la batteria aveva dato forfait, perciò non avevo avuto modo di avvisare nessuno di loro del mio ritardo. Quando raggiunsi la sala, era quasi vuota. Scorsi, però, Mike e Abigail in lontananza, così mi avvicinai a loro rapidamente, accaldata e affannata per la corsa.

"Sulley! Ma che cavolo di fine avevi fatto?" mi rimbeccò Mike, togliendo lo zaino dalla sedia al suo fianco per farmici accomodare.

Scossi la testa e chiusi gli occhi, buttandomi a peso morto su di essa e prendendo profondi respiri, perché ero a dir poco senza fiato. Abigail mi sorrise, quando incrociai i suoi occhi, e Mike rise leggermente nel vedere come ero ridotta. Dovevo sicuramente avere un aspetto orribile.

"Comunque non ti sei persa niente di che. A parte Peter che quasi si strozzava con il pasticcio di carne, in cui c'era tutto fuorché carne. Per tua immensa sfortuna, credo che non sia avanzato" mi informò Abigail, incominciando poi a ridere, probabilmente immaginando la scena di Peter che tossiva convulsamente a causa di quel rivoltante sformato di carne.

Scoppiai a ridere anch'io, perché lo spettacolo doveva essere stato esilarante, ma subito dopo mi rabbuiai, realizzando che se n'era andato, e che non c'era anche lui al tavolo. Mike dovette accorgersene, perché si offrì di andarmi a prendere qualcosa di commestibile da mangiare, mentre lanciò ad Abigail una strana occhiata, che non mi fece presagire niente di buono. Lei si schiarì la gola, quando lui si fu allontanato, e accartocciò la lattina di Coca Cola terminata che era accanto al suo vassoio, prima di prendere parola.

"Allora..." esclamò, con un tono di voce troppo stridulo, che chiarì il suo evidente imbarazzo e nervosismo.

Sapevo che lei non era solita fare quelle cose: impicciarsi, intrattenere una conversazione con qualcuno senza che le fosse stato esplicitamente richiesto. Era timida a modo suo, quando le faceva comodo, ma pensai che quella dovesse essere una cosa seria, se aveva preso lei l'iniziativa. E infatti era così. A saperlo, mi sarei fatta cogliere meno impreparata.

"Mi chiedevo... Beh, veramente ce lo chiediamo un po' tutti... Tu... Insomma... - sbuffò, perché si stava incatricchiando, e se n'era resa conto - Oh, al diavolo. Tu e Peter state insieme?" mi domandò di getto, facendomi soffocare con la mia stessa saliva.

Tossicchiai per qualche minuto, portandomi una mano davanti alla bocca, per poi scavare nel mio cervello alla disperata ricerca di qualcosa di sensato da rispondere. Hai presente quando nei film il protagonista si trova a fronteggiare un momento critico, ma viene salvato in calcio d'angolo dall'arrivo di qualcun altro? Ecco. A me non andò così, purtroppo, perché Mike si era apparentemente perso nei meandri della minuscola caffetteria. Distolsi lo sguardo da Abigail, che mi stava fissando a metà tra il dubbioso e l'interessato, e cercai Mike con gli occhi, vedendolo con un vassoio blu in mano, davanti al bancone di pietanze, mentre discorreva amabilmente con la cuoca. Con tutta la calma del mondo. Nell'ambiente circostante si sentiva solo il suono delle posate che cozzavano contro i piatti di ceramica, e del chiacchiericcio delle poche persone che, come me, si erano attardate, assieme all'odore di fritto diffusosi ovunque. Nervosa, mi riconcentrai su Abigail, che aveva le labbra pressate in una linea dura e le sopracciglia corrugate.

"No. Ovviamente no. Siamo solo amici" proferii, con tutta la naturalezza di cui ero in possesso, mentre dentro di me ogni cellula si stava inginocchiando e stava pregando che se la sarebbe bevuta.

Non era proprio una bugia, quella, in realtà, e, quando lo realizzai, mi tranquillizzai e mi rilassai visibilmente. Quell'espressione non abbandonò il suo viso, però. Anzi, se possibile, si intensificò. Pensai quasi di leggerle la mente. Aveva la faccia di una che stava sicuramente ponderando: "Non mi freghi, sai?". Al che si schiarì di nuovo la voce, e spostò la lattina dentro il suo vassoio, vicino al piatto vuoto e alle posate sporche.

"Oh. Beh, buono a sapersi" attestò, raccogliendo i capelli castani in un'unica coda, che si posizionò poi su una spalla.

Si spettinò la frangetta sulla fronte e mi esaminò a lungo con quei suoi occhi scuri, che mai come quel giorno mi avevano incusso tanto timore. Non sapevo come interpretare quella sua affermazione, ed ero combattuta tra il chiederglielo - e sembrare, così, palesemente interessata -, o fare finta di nulla e corrodermi il fegato dalla curiosità. Non capivo perché non le avessi voluto dire di me e Peter. E non sapevo neanche se stessimo effettivamente insieme o meno. Aveva detto di amarmi, avevamo fatto l'amore, ed eravamo diventati praticamente inseparabili. Però nessuno dei due aveva mai ufficializzato la cosa. Ma io non ne sentivo la necessità. Stare insieme a lui nel vero senso del verbo mi bastava, non avevo bisogno di etichette per stare meglio e in pace con me stessa. E poi non mi andava di condividere con qualcun altro che non fosse lui quello che accadeva tra noi e quelle piccole cose che erano solo nostre. Stavo per darla vinta alla parte curiosa e avida di informazioni di me stessa, quando Mike riemerse dalle profondità del Tartaro con il mio pranzo, che non volle sentire ragioni di farmi pagare. Abigail ci lasciò presto da soli, congedandosi dicendo che aveva delle ricerche da portare a termine, dando a me un bacio su una guancia e sussurrando a Mike in un orecchio qualcosa che non riuscii a carpire. Detestavo il fatto che ci fosse qualcosa che mi stavano tenendo nascosto, ma Mike fu rapidamente capace di distrarmi, incominciando a parlare dei recenti sviluppi della sua neo-relazione con Lindsay. Quello, fortunatamente per loro e sfortunatamente per me, era uno dei giorni "sanguisughe".

×××

Quella giornata era stata incredibilmente estenuante e infinita. Quasi non mi parve vero, quando potei finalmente raggiungere tutti in biblioteca, al finire delle lezioni pomeridiane. Avrei rivisto Peter dopo quasi ventiquattr'ore che avevamo trascorso distanti. Non mi ero mai sentita in quel modo: non mi era mai battuto così forte il cuore in petto solo al pensiero di vederlo e di saperlo lì, e non mi si era mai attorcigliato in quella maniera lo stomaco in pancia solamente immaginando le attenzioni che mi avrebbe rivolto e delle quali saremmo stati consapevoli solo noi due. Con quello scenario in mente, le mie gambe accelerarono automaticamente il passo, e giunsi in biblioteca prima di quanto avrei potuto prevedere. Li cercai con lo sguardo, scannerizzando ogni gruppo di ragazzi che si trovava sulla mia visuale, fin quando non riconobbi una chioma biondo rame leggermente riccia che mi dava le spalle, affiancata da Lindsay e Abigail, che invece potei vedere chiaramente in faccia. Quando lo avvistai, il mio cuore smise per un secondo di battere, per poi riprendere ancora più veloce di prima. Mi presi qualche momento per recuperare il fiato e per aggiustarmi i capelli (giusto per non sembrare una pazza), e, sistemandomi lo zaino in spalla, mi avvicinai. Mi salutarono tutti con un sorriso, ma il suo fu quello che mi colpì e fece sciogliere il cuore più di tutti. Feci per accomodarmi al suo fianco, ma, all'improvviso, Mike spuntò fuori da un corridoio di scaffali, con una miriade di libri in mano. Li poggiò sulla scrivania, e prese posto accanto a Peter.

"Oh, Sulley, ciao! Non ti avevo vista" si giustificò, quando si fu seduto, alzando il viso per guardarmi negli occhi, e rivolgendomi un sorrisetto a dir poco compiaciuto.

Oh, sì che mi aveva vista. E l'aveva fatto apposta. Avevo capito che quella era la loro piccola vendetta, perché nessuno di noi due - o, almeno, io - voleva ammettere che tra noi ci fosse decisamente qualcosa di più che una semplice amicizia. E li odiavo per questo. Ma la cosa mi faceva anche ridere tra me e me, perché si erano ridotti ad adoperare quei piccoli e immaturi sotterfugi per farci cantare come uccellini. Mi sedei a capotavola, tra Lindsay e Mike, senza nemmeno togliere il giubbino di dosso, e sospirai. Non avevo avuto il tempo di mettere in carica il telefono, quindi non potevo perdere tempo e giocarci, mentre loro studiavano. Per cui mi toccò tirare fuori libri e quaderni - totalmente bianchi, naturalmente, a parte gli scarabocchi di disegni che ogni tanto avevo realizzato durante le lezioni - dallo zaino e mettermi a studiare come loro. O, quantomeno, a fare finta di studiare. Aprii uno dei libri a una pagina a caso, e iniziai a girare i fogli senza neppure leggere cosa ci fosse scritto, giusto per passare il tempo. Quando quell'occupazione mi risultò troppo noiosa, presi a scribacchiare disegnini sul foglio di uno dei quaderni che avevo cacciato dallo zainetto. All'improvviso sentii una gamba sfiorarne una mia, ma pensai che fosse stata una casualità, di conseguenza non diedi troppo peso all'accaduto. In seguito, un piede, che presupposi appartenere alla stessa gamba di poco prima, mi sfiorò nuovamente. Allora sollevai gli occhi dal quaderno, per capire chi fosse, anche se avevo già una mezza idea. Peter, di fronte a me, mi stava guardando, ma abbassò subito lo sguardo, sorridendo, sul libro che stava leggendo, non appena io alzai il mio. Mi morsi il labbro inferiore per non sorridere a mia volta, e ripresi a fare quello che stavo facendo, senza però prestare particolare interesse a quello che stavo disegnando. Qualche attimo dopo mi lanciò una pallina di carta, che atterrò dritta sul mio quaderno. Ridacchiai il più silenziosamente possibile, e srotolai il foglietto, aspettandomi che ci fosse scritto qualcosa. Ma, no, voleva solamente infastidirmi. Lo ignorai. Ormai la mia mano procedeva da sola, riproducendo sulla carta pensieri confusi tradotti in disegni. Quando mi diede un calcio da sotto al tavolo e lo guardai torva, pronta a sbraitargli contro, Lindsay intervenne, spiazzando sia me che lui per la domanda che mi porse.

"Celeste, ma con Dave non ti vedi più?".

L'aveva detto con finto tono dispiaciuto, e, cavolo, si vedeva tale e quale che lo stava facendo di proposito. Mi chiesi quando avrebbero messo fine a quel dannato teatrino per farci confessare. Gli occhi di tutti saettarono dai loro libri a lei, e poi a me. Il sorriso di Peter gli sparì dal volto nel giro di qualche secondo. Mi si seccò la gola, al suono di quel nome, anche se erano passati già sei giorni dall'accaduto, ma il ricordo era ancora vivido nella mia mente come se fosse successo il giorno precedente. Negai, scuotendo la testa, e ricominciai ad abbozzare linee sconnesse, ma lei non demorse.

"Peccato. Mi stava simpatico. E poi, diciamocelo, era un gran bel pezzo di manzo" sostenne, guadagnandosi un'occhiataccia da Mike, probabilmente perché aveva esagerato nel descrivere le caratteristiche fisiche di Dave.

Sapevamo tutti che Dave non le era mai, mai, andato a genio. Perciò quella considerazione suonò a dir poco ambigua, detta da lei. Abigail si mise una mano davanti alla bocca per non ridere, mentre ognuno di loro lanciava occhiatine furtive a Peter, che li stava a dir poco assecondando involontariamente, perché si stava fingendo indifferente, e aveva iniziato a guardare di nuovo il libro. Mike tossì per coprire una risata, prima di ficcare il dito nella piaga.

"Sì, infatti: vi ci vedevo proprio bene, insieme..." confessò, sporgendo il labbro inferiore all'infuori, lagnandosi, mentre assumeva un'espressione accigliata.

Bastardi. Erano dei grandissimi bastardi. Peter sbuffò e roteò teatralmente gli occhi al cielo, chiaramente seccato. Io schiusi le labbra per ribattere, ma Abigail mi batté sul tempo.

"Che c'è, Peter? Ti vedo pensieroso..." constatò, con un finto tono innocente.

Non si era mai mostrata così stronza in mia presenza, e la cosa mi sconvolse non poco. Peter sembrò risvegliarsi dal suo stato di trance momentanea, e connetté i suoi occhi a quelli di lei. Passarono svariati secondi, prima che si decidesse a parlare. E non mi ero neanche resa conto di quanto il mio cuore stesse battendo speditamente, prima di quel momento.

"Ma perché dobbiamo discutere proprio di questo, adesso?" inquisì, con un notevole fastidio malcelato nella voce, sbuffando per la seconda volta.

Quei tre piccoli esseri malvagi sorrisero, appagati, e si scambiarono sguardi d'intesa forse per la centesima volta.

"Qual è il problema? Non capisco..." lo provocò Lindsay, fingendosi ancora innocente.

Non sarei rimasta con le mani in mano ancora a lungo, mentre loro si prendevano gioco di lui. O di me. Di entrambi, in verità. Pertanto raccolsi la mia roba e la riposi celermente nello zaino, sotto i loro sguardi confusi e interdetti. Dopodiché mi alzai in piedi e li osservai tutti dall'alto.

"Io vado a lavoro. Peter, mi accompagni alla fermata?" proposi, anche se il mio era più un ordine mascherato da invito.

Lui acconsentì immediatamente, senza farselo ripetere due volte, e, dopo aver messo a posto le sue cose, essersi infilato il cappotto ed essersi messo lo zaino in spalla, si alzò e mi fece segno con il capo di andare. Non mi ero accorta, prima di allora, che stesse indossando una di quelle bandane che tanto adoravo vedergli addosso. In realtà le portava molto più spesso, da quando gli avevo confidato che mi piacevano. Quella era verde, e si intonava alla maglietta che aveva quel giorno, che gli metteva ancora più in risalto gli occhi chiari. Annuii al suo gesto e salutai tutti di fretta, lasciandoli storditi a quel tavolo, mentre io e lui ci avviavamo fuori. Era una scusa - quella che avevo usato -, ovviamente: non dovevo lavorare quella sera, ma loro non lo sapevano. Lui lo sapeva bene, invece, perché quella prima non aveva fatto altro che chiedermelo, per essere sicuro che avremmo potuto passare un po' di tempo insieme, da soli, poiché per quella sera il Billy & Denny's sarebbe stato chiuso, e non avrebbe dovuto lavorare manco lui. Cominciammo a vagare per il campus senza una meta precisa. Camminavamo fianco a fianco. A un tratto, fece scivolare una mano nella mia, e intrecciò le nostre dita. Il cuore mi sprofondò in pancia e mi si mozzò il respiro.

"Grazie" ruppe il silenzio dopo un po', girandosi verso di me e sorridendomi, rafforzando di poco la stretta tra le nostre dita.

"Figurati" esclamai, ricambiando il sorriso, mentre lui faceva dondolare avanti e indietro le nostre mani.

Mi guardò a lungo negli occhi, con uno sguardo che ultimamente assumeva spesso, e che non sapevo come interpretare, poi sorrise di nuovo. Non mi ero resa neanche conto del fatto che ci fossimo fermati. Eravamo l'uno di fronte all'altra, e le nostre mani erano ancora legate.

"Voglio farti vedere una cosa" mi comunicò poi, dandomi un piccolo bacio sulla fronte e riprendendo a camminare.

L'aria frizzantina mi pizzicava e faceva arrossare le guance, e mi faceva rabbrividire, portandomi anche a capire che il giubbino che indossavo era troppo leggero. Le giornate si stavano accorciando sempre di più. Tanto che a quell'ora, verso più o meno le sei di pomeriggio, era già buio. I lampioni disseminati per il campus erano tutti accesi, ed era come se ci stessero guidando verso la nostra meta, a me ancora sconosciuta. Lo attraversammo tutto a piedi, e non potevo negare che mi facessero male per la camminata, e che il mio respiro fosse più accelerato del normale. Avevo la fronte e il corpo - surriscaldato - imperlati di sudore, quando arrivammo davanti a un grande edificio in mattoni rossi. Riportava la scritta "De Nunzio Pool" sulla facciata anteriore. Già solo la parola "piscina" non mi fece pronosticare nulla di buono. Peter mi condusse attorno alla struttura, circoscrivendola, per poi raggiungere un ingresso sul retro. Aprì la porta in vetro con dei procedimenti che non riuscii a seguire, e mi scortò all'interno. Premette un interruttore sul muro alla sua destra, e l'ambiente si illuminò velocemente, quando le luci si accesero una per volta sopra le nostre teste, emettendo anche un suono simile a un tonfo. Ponemmo gli zaini a terra e ci guardammo intorno. Davanti ai nostri occhi si presentò un'immensa piscina, con pedane per i tuffi da entrambi i lati, con le mattonelle azzurre sul fondale intervallate da strisce intere di mattonelle blu, e con delle gradinate sui toni del rosso-nero sulla sinistra. Non sapevo che il college disponesse anche di una piscina, prima di quel giorno. Eppure c'era, ed era veramente enorme.

"Mi chiedo come cavolo sia possibile che tu sia a conoscenza di tutti questi trucchetti: l'ascensore di servizio, questo posto... Come hai fatto ad aprire la porta, a proposito?" indagai, sciogliendo l'intreccio delle nostre mani e avvicinandomi al bordo vasca, estasiata.

"La domanda è un'altra: - preluse, facendo poi una pausa, forse aspettandosi che lo incitassi a continuare - l'acqua sarà calda?" chiese retoricamente, divertito.

Spalancai gli occhi e, prima ancora che il mio cervello assimilasse le sue parole - e che potessi in qualche modo reagire ed evitare l'inevitabile -, mi spinse da dietro la schiena, facendomi perdere l'equilibrio e precipitare in acqua. Strillai e caddi di pancia, ed è inutile dire che mi feci un male cane, e che mi mancò il fiato. Era calda, l'acqua, sì. Andai sott'acqua e ne bevvi un po', perché, genialmente, avevo la bocca aperta. Quando risalii in superficie, percependo i vestiti incollarmisi addosso e i capelli al viso, tossii rumorosamente e sputai la miscela di acqua e cloro che avevo ingoiato. Immaginai di avere anche tutto il trucco sciolto sul viso. Di bene in meglio, insomma. Mi chiesi quanto cavolo di cloro mettessero in quella cavolo di piscina, visto che l'odore era a dir poco prorompente. Mi avvicinai al bordo e mi ci appoggiai, tendendo poi una mano verso di lui, che intanto stava ridendo a crepapelle. Volevo fargli credere che desiderassi un aiuto per uscire dall'acqua, e lui ci cascò in pieno, perché mi prese per mano, ma io lo colsi di sorpresa e lo tirai verso di me, facendo cadere anche lui in piscina. Ride bene chi ride ultimo. E infatti incominciai a ridere fragorosamente, mentre lui riemergeva e mi fissava con sguardo truce, con i capelli azzeccati alla testa e delle goccioline che gli cadevano sul viso, tracciando i suoi lineamenti morbidi. Fece per avvicinarsi a me, ma io iniziai a schizzarlo e tentai di allontanarmi contemporaneamente. Non era facile, però, perché il fondale era abbastanza profondo, e nuotare non mi risultava per niente semplice. Prevedibilmente, dopo qualche secondo ero boccheggiante, senza energie, a qualche centimetro da lui, mentre provavo a rimanere a galla muovendo braccia e gambe. Mi venne vicino e mi posò le mani sulle spalle, poi mi spinse completamente sott'acqua. In quella circostanza chiusi la bocca, così da non bere un'altra volta. Quando riaffiorai in superficie, cercai di far affondare anche lui, ma non avevo abbastanza forza. Lui se la rideva, nel frattempo, e io non potevo che fare altrettanto. Poi andò sotto, cogliendomi alla sprovvista, e posizionò le mie gambe attorno al suo collo, in modo che fossi seduta sulle sue spalle. Successivamente si risollevò, ma solo per lanciarmi poco garbatamente dietro di lui, facendomi cadere di schiena, quella volta.

"Smettila, dannazione!" lo richiamai, seccata del fatto che si stesse prendendo gioco di me in quel modo, ma non riuscendo a non ridere.

Nuotò verso di me, siccome mi aveva fatta cascare un po' più lontano, e aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu preceduto da qualcun altro.

"Ehi, voi! Non potete stare qui!" ci sgridò la voce forte e autoritaria di un uomo anziano - probabilmente il custode -, che sbucò letteralmente dal nulla.

Io e Peter ci fissammo e strabuzzammo gli occhi, per poi nuotare celermente verso il bordo, salire e correre verso l'entrata. Ci lasciammo dietro una scia d'acqua - come le lumache, benché stessimo procedendo con un'andatura molto più rapida -, afferrammo gli zaini da vicino la porta, e sfrecciammo all'esterno come saette. Peter si mise a ridere, mentre, mano nella mano, con i palmi scivolosi a causa dell'acqua che ci bagnava tutti, impregnati dell'odore forte del cloro, correvamo all'esterno della costruzione. La temperatura esterna sembrò abbassarsi, ma era senz'altro un effetto dovuto al fatto che fossimo zuppi fino alle punte dei capelli. Il custode ci inseguì, e sentimmo anche la sua voce inveirci contro per un bel po', fin quando Peter non svoltò un angolo, trascinandomi con sé, e lo seminammo. Quando fummo certi di essere abbastanza lontani, ci fermammo per riprendere fiato. Mi facevano male i muscoli delle cosce, i piedi, e la spalla che portava lo zaino; e il mio cuore andava così veloce, che quasi credevo mi sarebbe potuto scoppiare in petto. Lasciai la sua mano per aggiustarmi i capelli. Li raccolsi con entrambe le mani e li strizzai per far scendere le gocce in eccesso. Poi mi passai le mani sul viso, provando invano a rimuovere le tracce di trucco, che mi facevano senza ombra di dubbio apparire un pagliaccio malriuscito. Il mio calore corporeo si era evidentemente innalzato per la corsa. Mi feci scivolare la spallina dello zaino di dosso e lo gettai a terra, ai miei piedi.

"Ma cosa, diamine, ti passa per quella testa bacata?" lo aggredii, non appena mi si regolarizzò il respiro, a metà tra il divertito e lo scandalizzato.

Puntai gli occhi nei suoi e sollevai un sopracciglio, incrociando le braccia al petto. Lui mi fissò serio, smettendo di scuotersi i capelli con una mano, mentre manteneva la bandana fradicia che si era tolto con l'altra. Dopo qualche secondo riattaccò a ridere, e mi venne vicino, mettendomi la sua bandana in testa come coroncina. Agganciò le mani ai miei fianchi. I nostri nasi si sfioravano, e il suo respiro mi solleticava le labbra. L'odore del cloro non copriva del tutto il suo profumo, che invece trovava sempre il modo di riempirmi i polmoni.

"Ammettilo: è stato esilarante, dai" mi stuzzicò, con voce roca e grave, abbassandosi lentamente all'altezza del mio orecchio sinistro, mordendomi e leccandomi il lobo.

Ormai avevo preso l'abitudine di indossare sempre i tacchi, in sua presenza, così la differenza d'altezza tra noi due sarebbe stata meno accentuata. Presi le sue mani tra le mie e intrecciai le nostre dita, rendendo nulla la distanza tra i nostri corpi. Le sue labbra si mossero su e giù per il mio collo, depositandomi lunghi e dolci baci sulla pelle, che si ricoprì all'istante di brividi.

"Questo sì, ma la broncopolmonite che avrò da domani no" ammisi, inclinando la testa verso destra.

Rise contro il mio collo, e il mio battito cardiaco somigliava tanto allo sbattere delle ali di un colibrì, per quanto era veloce.

"Anche se hai cambiato espressione la prima volta che te l'ho detto, ed è sembrato che da un momento all'altro avresti impacchettato tutta la tua roba e saresti fuggita in Antartide, e anche se forse l'hai fatto inconsciamente, io sento il bisogno di ripetertelo, sebbene credo che tu lo sappia già. Quindi, posso dirlo senza vederti impallidire come un cencio?" mi scongiurò poi, dopo un po', risollevandosi e incastrando gli occhi nei miei, senza lasciarmi via di fuga.

Avevo capito benissimo cosa volesse dirmi, e, stranamente, annuii, perché volevo sentirglielo dire. Chissà, forse dentro di me avevo il sentore che sarebbe stata l'ultima volta che lo avrei udito pronunciare quelle parole, e forse fu per questo che glielo lasciai fare. E sorrisi come un'ebete quando lui fece altrettanto.

"Ti amo, Celeste" confessò, guardandomi negli occhi e sorridendo come mai l'avevo visto sorridere, con una sincerità, che risultò a dir poco disarmante, che traspariva dalla sua espressione.

"Così o così?" lo interrogai io, ridacchiando, mimando con le mani prima una piccola e poi una grande quantità - dopo averle separate dalle sue -, come quando eravamo bambini e gli chiedevo quanto mi volesse bene.

Rise a sua volta, azzerando quasi la lontananza tra i nostri volti.

"Così" rispose, baciandomi all'improvviso, invece di assecondare il mio giochino stupido.

Ma mi andava bene. Mi andava più che bene. Le nostre labbra si diedero a una danza tutta loro, le sue mani mi avvolsero il viso, e anche le mie furono presto sul suo. Chiusi gli occhi, quando la sua lingua venne in contatto con la mia, e mi si torse lo stomaco. Una folata di vento ci fece distanziare e rammentare che eravamo ancora gocciolanti all'aria aperta. Poggiò la fronte alla mia, con il respiro corto a causa del bacio approfondito, e mi cinse il busto con le braccia.

"Sai che mi piace tantissimo vederti con indosso questa collana e questa bandana?" mi rivelò, mantenendo gli occhi chiusi e facendo scontrare giocosamente il naso con il mio.

"Immagina come sarebbe vedermi con solo questa collana e questa bandana indosso" lo sfidai, senza rifletterci, realizzandolo solamente quando sbarrò gli occhi e deglutì a fatica.

Mi morsi il labbro inferiore, pensando di aver detto la cretinata del secolo, ma lui mi stupì, riprendendosi dallo sconcerto pochi attimi dopo e sorridendo maliziosamente.

"Perché accontentarsi di immaginarlo soltanto?" replicò a tono, sogghignando.

E scoppiai a ridere quando raccolse il mio zaino da terra, se lo mise sulla spalla libera che non ospitava il suo, mi prese per mano e mi trascinò di peso lontano da lì, verso la mia stanza.

×××

Con non poca fatica, distratta dai numerosi baci che mi stava lasciando sulla nuca e dalle sue mani sui miei fianchi, ero riuscita a trovare le chiavi della mia camera nello zaino - che gli avevo strappato di mano - e a infilarle nella toppa. Il problema sorse dopo, quando non mi diede nemmeno il tempo di sistemare lo zainetto e il cappotto da qualche parte, che si fiondò immediatamente sulle mie labbra, posandovi baci lenti e strazianti. Riuscii ad allontanarlo con non pochi sforzi, imponendogli di porre lo zaino da qualche parte e di togliersi quantomeno il soprabito. Lasciai il mio sacco ai piedi del letto, e buttai il giubbotto su una delle due sedie accanto alla scrivania. Dopodiché presi il cellulare dallo zaino e lo misi in carica, procurandomi il caricabatteria dal cassetto del mio comodino, che sembrava sempre la borsa di Mary Poppins. Quando mi girai verso di lui, si era già tolto di dosso il giubbino e lo zaino dalle spalle. Mi sorrise con finta innocenza, e mi si avvicinò, spingendomi a indietreggiare fino a farmi tastare il materasso del mio letto con il retro delle ginocchia. Mi ci sedetti sopra e lui fece per abbassarsi, ma colpì il bordo del letto di Lindsay con la fronte.

"Ahia, cazzo. Stupido letto a castello" si lamentò, scattando nuovamente in posizione eretta e massaggiandosi la fronte con una mano.

Non potei fare a meno di ridere a crepapelle, perché era una scena a dir poco comica. Lui si imbronciò e, attento a non sbattere ancora contro il legno del letto della mia coinquilina, si chinò e mi si lanciò addosso, facendomi stendere di schiena, mentre cercavo disperatamente di allontanare le sue mani dal mio corpo, perché stava tentando di farmi il solletico.

"Ah, sì? Ti piace ridere di me?" scherzò, racchiudendo entrambi i miei polsi in una mano per tenermi ferma, e facendomi il solletico con l'altra.

Non sapevo se ridere, o piangere e pregarlo di smetterla. Però, nel dubbio, continuai a ridere implorandolo di darci un taglio.

"Ti arrendi?" indagò, con un sorrisetto vittorioso in viso, che distava solo qualche centimetro dal mio.

"No" dissi soltanto, impuntandomi.

Liberai con un gesto repentino le mani dalla sua presa, e le misi ai lati del suo volto, volendo fargli credere di volerlo accarezzare, ma prendendolo in realtà per le guance e deformandogliele per fargli fare delle smorfie, come quando rincontro delle prozie che non mi vedono da tanto e si divertono a pizzicarmele. Esattamente: come zia Betty! Risi, e lui pure. Poco dopo congiunse le nostre labbra in un bacio appassionato e intenso. A un certo punto, la suoneria del mio telefono colmò il silenzio che aveva regnato sovrano fino a quel momento, e lui ridacchiò, distaccandosi da me e mettendo fine, mio malgrado, a quel bacio, che mi aveva lasciata letteralmente scombussolata. Giuro che, se avessi saputo che sarebbe stato l'ultimo, avrei fatto in modo che fosse il più indimenticabile possibile.

"Ancora il suono delle fatine?" mi schernì, ridacchiando di nuovo, e alzandosi per andare a prendere il cellulare, con l'intenzione di portarmelo, probabilmente.

Peccato che non me lo portò mai. Così come il mio cuore, del quale suppongo custodisca ancora un gran bel pezzo. Stava ridendo, quando lo prese tra le mani e osservò distrattamente lo schermo, ma la sua risata si affievolì di colpo, e la sua espressione cambiò radicalmente. Dacché stavo ridendo con lui, mi bloccai anch'io, stranita per la sua reazione, e mi misi in piedi, per poi raggiungerlo e cercare di leggere a mia volta quello che aveva visto lui, e che l'aveva fino a quel punto sconcertato.

"Che... significa?" spiccicò, con un fil di voce, porgendomi il telefono con mano tremante.

"Ehi, piccolina! Sto prenotando i biglietti per Parigi, e devo sapere con certezza se verrai o meno, perché mi servono i tuoi dati anagrafici, in quel caso. Puoi, se sì, farmeli avere entro domani mattina?

Un bacio".

Spalancai gli occhi e mi si fermò il cuore per qualche secondo. Smisi anche di respirare. Quando mi voltai verso di lui, mi stava fissando con aria interrogativa e dubbiosa, in attesa.

"Io..." prelusi, non sapendo cosa dire.

Non volevo che lo sapesse. Non volevo che lo sapesse in quel modo. Io non intendevo minimamente partire, perché non l'avrei mai fatto. C'era lui, lì, e troppe cose che mi legavano a quella città e a quella realtà, per imballare tutto e andar via. Ma lui, quasi certamente, doveva pensarla diversamente.

"Perché non me l'hai detto?" si informò, in tono accusatorio, inchiodando gli occhi ai miei.

"Vuoi davvero giocarti questa carta? Perché, a questo punto, potrei dire di non essere stata l'unica ad aver tenuto nascosto qualcosa all'altro. O sbaglio?" pretesi, senza neanche rifletterci.

E sgranai gli occhi, e il sangue mi pompò più che velocemente nelle vene, quando mi accorsi di aver detto sul serio una cosa simile. Indietreggiò di un passo, come se l'avessi schiaffeggiato, e spalancò gli occhi solo per un misero secondo, per poi ricomporsi e schiarirsi la voce.

"Non so di cosa tu stia parlando" sostenne, il tono di voce fermo e deciso, l'espressione incerta che diceva tutt'altro.

"Ah no, Peter, davvero? Per quanto ancora vogliamo prenderci in giro? No, dimmelo, così almeno mi regolo di conseguenza. Quando avevi intenzione di dirmi che sei tu quel dannato bambino che conosco da quando ne ho memoria, esattamente?" lo attaccai, sentendomi montare in corpo una rabbia che non mi apparteneva, che mi era estranea, ma che mi sembrava così giusta in quel momento, quando in verità non poteva esserci cosa più sbagliata.

Strinse le mani a pugno e distolse lo sguardo dal mio, roteando gli occhi al cielo.

"Da quanto lo sai?" mi domandò, con voce rotta, senza guardarmi.

"Importa? Davvero è questa la cosa più importante, adesso? Vogliamo parlare del fatto che hai permesso a Dave di prendermi per il culo, e che hai preferito tenerti tutto per te invece di parlarmene?" stavo urlando, mentre, dopo aver rimesso il telefono al suo posto, stringevo le mani a pugno così forte, da sentire le unghie conficcarmisi nella pelle.

"Ci ho provato! Io ci ho provato, cazzo! Tu non me l'hai mai permesso, maledizione! E poi non volevo che lo sapessi, okay? Io... Cazzo - si passò una mano tra i capelli e sbuffò - Vuoi sapere perché non te l'ho detto? Perfetto. La tua festa dei sedici anni. Te la ricordi? No, ovviamente, eri ubriaca marcia, come potresti. Beh, io c'ero, okay? C'ero, cazzo, Celeste. È per questo che ho lasciato l'Inghilterra e ho preferito venire qui in America con papà. Volevo rivederti. E sono venuto a quella dannatissima festa. E tu eri bellissima, ed eri così felice di rivedermi, e mi hai baciato. Quello è stato il nostro primo bacio, Celeste, e non posso credere che tu non lo ricordi! Ti ho lasciata sola per quindici fottutissimi minuti, perché avevo scordato in macchina il tuo regalo, e sai cosa è successo quando sono tornato da te? - stava gesticolando, in preda a un risentimento e a una furia che non avrei mai creduto potesse avere in corpo - Eri avvinghiata a quel Colin del cazzo o come si chiama. Sono tre cazzo di anni che mi porto dietro quella cazzo di collana, porca miseria. Volevo andarmene, dopo aver visto quella scena, ma mio padre mi ha vietato di tornare da mamma, naturalmente. Allora sono rimasto qui come un idiota, e, quando ho ottenuto quella borsa di studio per la Princeton, non riuscivo a essere pienamente felice, perché sapevo che ti avrei rivista. Mi avevi parlato di quella tradizione della tua famiglia di iscrivervi tutti a questo college, e io me la ricordavo, dannazione. E, no, Celeste, non volevo minimamente rivederti. Però è successo, e non sapevo che non ricordavi niente di quella sera. Poi ho capito che avevi completamente rimosso quell'evento dalla tua mente. Così ho pensato che, se ce l'avevi fatta tu, potevo farcela anch'io. Dovevo solo evitarti. Ma ci sono caduto un'altra volta. Mi sono innamorato di te di nuovo, e, cavolo, quei capelli di quel colore assurdo non sono stati per niente d'aiuto, perché non ti ricordavi di me, ma della scommessa sì e... Dave, cazzo, si trovava solo nel posto sbagliato al momento sbagliato, e non sapevo cosa fare, perché smentire quello che affermava significava ammettere di essere io la persona che cercavi e... Maledizione, Celeste, io volevo solo dimenticare quello che era successo, visto che ero l'unico dei due a ricordarlo. E non posso fare a meno di vivere ogni giorno con il terrore che tu fugga via da me, come sei sempre stata tendente a fare. E ora, a quanto pare, è così, no? Te ne vai..." completò il suo monologo tirando su col naso.

Aveva la voce incrinata e le lacrime agli occhi, e non riuscivo a vederlo in quello stato. Non riuscivo a credere che ciò che aveva detto si fosse verificato davvero. E non so perché mi astenni dal fargli presente che non avevo per niente intenzione di andarmene, non quando avevo trovato il mio posto felice: lui.

"Avevi detto che mi avresti protetta da me stessa. L'avevi promesso" gli rinfacciai, con voce piccola, non sapendo più cosa dire.

Lo stavo perdendo, lo sapevo, e lo sentivo scivolarmi via dalle mani come sabbia al vento. E non mi sentivo nella posizione di fare niente per impedire che avvenisse.

"E chi proteggerà me da te, allora?" controbatté, affranto, lasciando una lacrima libera di rigargli il viso.

Deglutii a fatica il groppo gigantesco che mi si era formato in gola. E fui assalita da quell'orrenda sensazione di quando si sa di non aver perso qualcosa, perché si è sicuri di averla vista pochi secondi prima in un altro posto, quando quella, in verità, è solo incapacità di ammettere che, in realtà, la si è ormai persa del tutto. Lui era troppo ferito e io troppo sfuggente e immatura perché potesse funzionare. E lo amavo, Dio se lo amavo, ma forse l'amore non bastava.

"È un addio, in pratica? L'ennesimo?" richiesi, con la voce così crepata che quasi non mi riconobbi.

"L'ultimo, direi - stabilì, incerto, durante una breve pausa - Quindi... È finita?" indagò poi, ormai incapace di frenare quelle lacrime che, come un fiume in piena, strariparono dai suoi occhi, e che il mio orgoglio avrebbe fatto traboccare dai miei soltanto quando sarebbe uscito da quella porta.

"Perché, è mai iniziata?" chiesi, stronza ed egoista, perché facevo sempre soffrire gli altri per non permettere loro di far soffrire me.

"Sai una cosa? Non importa. Non importa più. È finita. Qualsiasi cosa fosse, è finita" decretò, con gli occhi rossi e una voce che non gli apparteneva, perché non era sua, era troppo distorta per esserlo.

Si girò e prese le sue cose da terra, per poi lanciarmi un ultimo sguardo, con gli occhi gelidi e il cuore di ghiaccio - passandosi una manica bagnata sotto il naso, mentre cercava di darsi un contegno -, e aprire la porta. Indugiò sulla soglia, con un piede fuori e uno dentro. Il cuore mi batteva così forte, che ormai si era tramutato solo in un suono indistinto nelle mie orecchie, e praticamente non respiravo più. Tremavo. Tremavo soltanto, e non per il freddo o per i vestiti ancora zuppi che avevo addosso, e morivo di paura, perché sapevo che, una volta varcato quel confine, si sarebbe azzerato tutto quanto.

"Addio, Celeste".

Uscì. Da quella porta e dalla mia vita. E la chiuse alle sue spalle, senza aspettare una mia risposta. E io mi accasciai al suolo. E percepii la consapevolezza di averlo respinto e mandato via abbattersi su di me come un cavallone.

"Addio, Pika" mormorai, con gli occhi ormai colmi di lacrime, pronte a uscire e a rigarmi le guance.

E, nella mia immaginazione, lui tornò da me. Lui aprì di nuovo quella cavolo di porta, ripiombò nella stanza, mi prese il viso tra le mani e mi baciò passionalmente, dicendomi che non gliene importava se ero un casino, se ero una stronza, una cretina imbecille e impulsiva dai mille difetti, perché lui mi amava. Peccato che non successe niente di tutto questo, e io rimasi inginocchiata sulla moquette di quella camera a piangere tutte le lacrime che avevo trattenuto fino a quel momento, con la bandana che mi aveva lasciato tra le mani, e con il vuoto, che aveva lasciato il cuore che si era preso, che mi faceva male al petto. Fin quando Lindsay non rientrò e, trovandomi in quello stato, pretese di sapere cosa fosse accaduto. Cercò di consolarmi in tutti i modi. Ma ero apparentemente inconsolabile, e lo scorrere continuo nella mia mente di tutte le immagini dei momenti che io e lui avevamo passato insieme non mi aiutava per niente. Lui non c'era più, e più non ci sarebbe stato. E c'erano troppe cose che mi legavano a lui, in quel luogo. Infinitamente troppe. E non avrei potuto sopportarlo. E, in sua assenza, non c'era più niente che mi impedisse di andarmene da lì. Sono ancora convinta che lui sia stato e sarà sempre la miglior cosa che non ho mai avuto, e che io, come una stupida, ho lasciato che mi sfuggisse dalle mani come una farfalla. Come la farfalla che sarei diventata, abbandonando definitivamente quell'aeroplanino di carta. Perché era lui, il lanciatore che mi ostacolava dal mutar forma e volare via. Perché una parte di me sarebbe stata sua per sempre, e lo sapevo fin troppo bene, ma mi piaceva credere che non sarebbe stato così.

"Unforgettable together, held the
Whole world in our hands.
Unexplainable, a love that
Only we could understand.

I know there's nothing I can
Do to change it, but is it something
That can be negotiated?
My heart's already breaking,
Baby, go on, twist the knife".

N/A

Capitolo revisionato.

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