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29. Training Wheels

"Love everything you do, when you call
Me fucking dumb for the stupid shit I do.
Wanna ride my bike with you fully
Undressed, no training wheels left for you".

Quella notte, inutile dirlo, non riuscii a chiudere occhio. Le tue parole seguitavano a fluttuare nella mia mente senza darmi tregua. Era estenuante, e mi sembrava di impazzire. Parigi. Avevo fatto una ricerca, mi ero documentata: distava cinquemilacinquecento e trentatré chilometri da Boston. Al solo pensiero mi si stringeva lo stomaco. Avevo osservato così a lungo il soffitto della mia stanza - seppure fosse buio pesto, e l'unica luce che illuminava la camera fosse quella dei lampioni in strada, che si rinfrangeva sui vetri delle finestre, e quella dell'orologio digitale sul mio comodino (che, per l'esattezza, segnava le tre di mattina) -, che avevo addirittura contato le stelle della galassia che vi avevo disegnato sopra. Solo che, arrivata a duecento, mi ero scocciata e ci avevo rinunciato. Nella casa regnava il silenzio. Tu ronfavi beatamente, al mio fianco, persa in chissà quale fantasia onirica di cui non potevo entrare a far parte. La porta era chiusa, ma non facevo altro che pensare che Peter distava solo un corridoio da me. E un corridoio era tutt'altra cosa, rispetto a cinquemila e passa chilometri. E, poi, cavolo, Peter. Qualche ora prima ci avevo fatto l'amore per la prima volta, mannaggia. E, sebbene sospettassi che quella fosse stata davvero la sua prima volta in assoluto, a dispetto di quello che lui e Mike ci avevano voluto far credere la sera di Halloween, era stata perfetta nella sua imperfezione. Non mi ero mai sentita in quel modo in vita mia, e non posso non ammettere che la cosa mi terrorizzava. Parecchio. Sbuffai e decisi di alzarmi, perché non ne potevo più di scervellarmi, e dovevo trovare un modo per zittire il mio cervello iperattivo, quindi decretai di prepararmi una schifosa tisana, che, se non altro, mi avrebbe aiutata a prender sonno. Infilai i calzini antiscivolo, che avevo per qualche strano motivo lasciato sul mio comodino, e mi diressi con cautela alla porta, tentando in tutti i modi di non fare rumore. La suddetta porta non era della stessa idea, però, e scricchiolò quando la spalancai per imboccare il corridoio. Tu mugolasti e ti rigirasti, occupando anche la mia parte di letto, ma non me ne preoccupai, sospirando per il sollievo e richiudendomi l'anta alle spalle, una volta fuori (scricchiolò anche quando la chiusi, e non potei che maledirla mentalmente, mentre mi avviavo verso le scale di legno e scendevo al piano inferiore). Sbadigliai, quando raggiunsi la cucina, che era leggermente più illuminata della mia camera, grazie alle lucine della cappa che erano rimaste accese. Mi procurai una teiera dallo scolapiatti e la riempii d'acqua sotto il lavandino. Dopodiché accesi uno dei fornelli e ve la posi sopra, aspettando che fischiasse. Mi massaggiai gli occhi e sbadigliai per la seconda volta, prendendo poi uno sgabello adiacente all'isola di marmo e avvicinandolo all'angolo cottura, così da non dover rimanere in piedi ad aspettare che l'acqua si scaldasse. Mi si chiudevano gli occhi - cosa assurda, perché fino a qualche secondo prima, a letto, non avevano voluto saperne di lasciarmi dormire in santa pace -, ma mi imposi di rimanere sveglia almeno il tempo necessario per la tisana. Mi munii già della confezione cartonata dal mobiletto sopra il lavabo, e la poggiai accanto ai fornelli, assieme a una tazza e a un cucchiaino qualunque che raccapezzai sempre dallo scolapiatti.

"Non riesci a dormire?" mi domandò qualcuno, all'improvviso, sbucando dal nulla, facendomi volare il cuore per aria e compiere un piccolo salto sulla sedia.

Avevo riconosciuto immediatamente quella voce, ma il sentirla così, senza preavviso, mi aveva lasciata qualche attimo interdetta. Scossi la testa, in risposta alla sua domanda, ancora di spalle.

"Nemmeno io" convenne, e sentii che spostava un altro sgabello, per poi posizionarlo di fronte al mio.

Non fui capace di sostenere il suo sguardo, quindi focalizzai il mio sul fumo che stava uscendo dalla bocchetta della teiera, codarda com'ero.

"Quando eri piccola, e non riuscivi a dormire, ti intrufolavi sempre nel letto di me e tuo padre, ti ricordi? Prendevi posto proprio al centro. Allora io mi giravo verso di te, ti sorridevo per rassicurarti, e tu mi pregavi di raccontarti una storia per farti addormentare. Non arrivavi mai sveglia a sentirne la fine, perciò ti facevi ripetere sempre la stessa tutte le notti, nella speranza di udirne il finale. E, nonostante i borbottii di tuo padre, che ci incitava a dormire, io te la narravo lo stesso. Eppure non sono mai riuscita a dirti come andava a finire..." assodò, pensierosa, cercando i miei occhi, che le permisi presto di trovare.

Aveva il codino, in cui aveva raccolto i capelli, tutto sfatto, le tracce di mascara - segno che non si era struccata bene - ancora sulle palpebre, e quella vestaglia di seta rosa che le fasciava perfettamente il corpo, lasciando intravedere le sue forme giuste nei punti giusti. Aveva gli occhi stanchi, ma dedussi che anche i miei dovessero esserlo. La fissai confusa, non capendo dove volesse andare a parare con quell'affermazione, e aprii la bocca per dire qualcosa, ma il fischio della teiera mi mise a tacere in partenza. Stavo per spegnere il fornello, ma fece tutto lei, precedendomi, chiudendo la fiamma e prendendo l'oggetto con una presina, per poi versare l'acqua calda nella tazza - che avevo precedentemente preparato - e miscelarla con la tisana, dopo che ebbe posato la teiera nel lavello. Vi mise un cucchiaino di zucchero, come sa che preferisco, e mi porse il contenitore fumante, per poi risiedersi di fronte a me. Il calore del recipiente mi scaldò le mani, perennemente ghiacciate, e il fumo che vi fuoriusciva mi fece intendere che la bevanda fosse ancora troppo calda per berla evitando di scottarmi la lingua. Per cui sospirai nuovamente e guardai mamma, che aveva già gli occhi puntati su di me.

"Mamma, io..." volevo dirle che mi dispiaceva, più di quanto sarei mai stata capace di esprimere e riconoscere, ma lei mi interruppe sul nascere.

"Vorrei raccontarti un'ultima volta quella storia, assicurandomi che tu la capisca a fondo e, soprattutto, che senta il finale. Credi che sarebbe possibile?" mi chiese, con la voce ferma e decisa, ma con gli occhi e il modo in cui si torturava le mani che mi fecero intendere che fosse un po' nervosa.

Assentii, interdetta, ma troppo egoisticamente felice che mi stesse rivolgendo la parola dopo tanto tempo per bloccarla e chiederle cosa stesse succedendo. Prese un respiro profondo, prima di iniziare a parlare. Io, intanto, sorseggiai oculatamente la tisana bollente, attenta a non ustionarmi la lingua. Non ricordavo per niente quella storia: ero così piccola a quel tempo, quando mi rifugiavo nel loro letto per degli incubi che avevo avuto. Era impossibile che ne rammentassi il contenuto.

"C'era una volta una ragazza della tua età, che i genitori avevano costretto ad andare al college, ma che lei non voleva frequentare per niente. Però ci andò ugualmente, pensando che, con tutte le feste e gli svaghi che c'erano, si sarebbe potuta divertire, e avrebbe potuto trarre vantaggio da quell'esperienza per lei apparentemente nociva. Non era una ragazza facile, quella: era incontentabile, a lei non andava bene nessuno. Per questo era spesso da sola. Era sola, eppure le piaceva divertirsi come poteva. Aveva molti ragazzi ai suoi piedi, a cui lei cedeva molto volentieri, perché era tutto un gioco, per lei. La sua unica regola era: 'Non passare assolutamente più di una sola notte con lo stesso ragazzo'. Ebbene, lei si attenne a quel precetto... Per i primi mesi. Poi, un giorno, si recò a una festa che si prospettava come grandiosa, ma che, in verità, si rivelò essere una noia mortale. Lei rimase tutto il tempo seduta su un divanetto, in disparte, a guardare gli altri divertirsi ballando scompostamente e strusciandosi gli uni sugli altri. A un certo punto, un ragazzo moro e dagli occhi scuri prese posto al suo fianco. Era davvero bello, e lei se ne accorse subito. Solo che era un po' impacciato, e non trovava il modo di approcciarsi a lei, benché lo volesse con tutto se stesso. Così lei prese l'iniziativa e si presentò. Parlarono, bevvero - bevvero tanto -, e finirono per passare la notte insieme. Ecco, questa era la parte in cui ti addormentavi sempre, di solito - ridacchiò, stoppandosi per qualche secondo, aggiustandosi una ciocca di capelli sfuggita alla presa dell'elastico dietro l'orecchio e facendomi sorridere contro il bordo della tazza - Come dicevo, passarono la notte insieme, ma il giorno dopo nessuno dei due ricordava nulla, prevedibilmente. Ci risero su e si salutarono, pensando che non si sarebbero rivisti più. Ma non avevano fatto i conti con il fatto che non avevano usato precauzioni, e lei rimase incinta. Era molto combattuta sul dirglielo o meno, ma alla fine lo fece. Non si è mai pentita di quella scelta, perché lui si assunse le sue responsabilità, e fece di tutto per non farla sentire in colpa. Lei abbandonò i corsi e tornò a vivere dai suoi genitori, che, dopo un primo momento di riluttanza, non esitarono a darle tutto l'appoggio e l'affetto che potevano. I genitori di lui erano più severi, e sdegnarono immediatamente la ragazza, facendo di tutto per ostacolare quel rapporto 'malsano'. In un primo momento si rifiutarono addirittura di riconoscere come nipote il futuro nascituro. Ma lui non si scoraggiò, e continuò a studiare, per garantire un futuro a lei e a quella che sarebbe stata sua figlia. Lei riprese gli studi solo quando la bambina ebbe l'età giusta per andare a scuola. Ormai erano una coppia molto rinomata, in quel campus, e non c'era anima vivente che non li conoscesse e non si congratulasse con loro in ogni momento, per la loro forza di volontà e la potenza del loro amore. Perché, sì, alla fine si erano innamorati, senza averlo previsto o predetto: era semplicemente successo, ed era stato inevitabile. Quando anche lei si laureò, si stabilirono in una casetta vicino a quella dei genitori di lei, e proseguirono la loro vita in serenità e armonia. Dieci anni dopo la nascita della loro primogenita, il cielo volle premiarli concedendo loro in dono anche un'altra nascita, la loro secondogenita. Con lei ci furono - relativamente - un po' più di problemi, perché somigliava terribilmente tanto a sua madre - anche se aveva ereditato gli occhi di sua nonna -, e sua madre era così turbata, perché, per quanto benevola era stata la vita con lei, non voleva in alcun modo che sua figlia seguisse il suo stesso, tortuoso percorso. Ecco perché i genitori sono rimasti tanto sorpresi e sconvolti, quando l'hanno trovata in una situazione che ha fatto rivivere loro un flashback di quando erano anche loro adolescenti e avevano concepito la loro prima figlia" terminò il suo discorso congiungendo in grembo le mani che aveva usato per gesticolare fino a poco prima, e mi osservò con attenzione.

Avevo finito la tisana, e avevo poggiato la tazza nel lavandino, assieme alla teiera e al cucchiaino. Sgranai gli occhi, quando il mio cervello assimilò tutte le nozioni appena apprese e fece mente locale. Mi si mozzò il respiro e il cuore mi cadde nello stomaco per un nanosecondo.

"Io ero quella ragazza, Celeste. E quel ragazzo era tuo padre. Ora capisci perché abbiamo reagito in quel modo apparentemente esagerato e spropositato?" mi chiese retoricamente, mentre io ero ancora incapacitata nello spiccicare anche una sola parola.

Non riuscivo a credere che mia madre - quella che reputavo una suora/santa - in verità mi somigliasse così tanto. E che la storia tra lei e mio padre fosse stata così confusionaria e contorta. E che fosse quella la giustificazione alla notevole differenza d'età tra me e Milah. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che quella che avevo reputato un'attenzione ossessiva e opprimente nei miei confronti fosse in realtà una malcelata preoccupazione, che, in qualche modo, avrei potuto imboccare la strada sbagliata che avevano preso loro. Mai avrei pensato a una cosa simile, e mai me lo sarei aspettato da parte loro. Ero allibita e sconcertata, e, se anche la tisana avesse sortito qualche effetto su di me, svanì nel giro di qualche secondo, dopo quella rivelazione da parte sua e concretizzazione da parte mia. Non sapevo cosa dire. Forse non c'erano e non esistevano parole giuste che avrei potuto adoperare in quel frangente. Così mi alzai e mi sedetti sulle sue cosce, per poi stringerla a me con un affetto e sentimento che non avevo mai provato davvero. E il "Mi dispiace, mamma. Mi dispiace tanto" che le mormorai in un orecchio fu probabilmente il più sincero e sentito che le avessi mai rivolto. Mi abbracciò a sua volta, e tra le sue braccia mi sentii al sicuro, protetta. Perché era la mia mamma, perché avevamo commesso entrambe un'infinità di errori, ma l'amore reciproco che provavamo l'una nei confronti dell'altra e il legame che ci univa sarebbero rimasti inscindibili per sempre.

"Non sei più leggera come una volta" sdrammatizzò, ridacchiando sommessamente, quando ci distanziammo.

Feci per mettermi in piedi e ritornare al mio posto, ma lei mi afferrò per un polso e mi trattenne.

"Non ho detto che non avrei sopportato lo sforzo" mi comunicò, sorridente; io le avvolsi le braccia al collo - subito dopo averle lasciato un leggero bacio su una guancia - e lei mi cinse il busto con le sue.

Rimanemmo per un po' così, mentre mi lasciavo avviluppare dal suo profumo e mi facevo cullare dal ritmo regolare dei suoi respiri.

"Quindi... Questo Peter..." alluse lei, dopo svariati attimi di silenzio, facendomi riaprire gli occhi, che non mi ero accorta di aver chiuso.

"È complicato..." mi ritrovai a risponderle, sospirando.

Sì, era complicato, ma non mi astenni dal raccontarle tutto per filo e per segno, senza tralasciare neanche un dettaglio. Okay, omisi ciò che era successo poco prima che loro rincasassero. Quindi, sì, qualche dettaglio lo sorvolai. Ma quel "Ti amo" che gli era sfuggito dalle labbra con l'innocenza di un "ciao" e l'impetuosità di un uragano, no, non lo trascurai. Le raccontai di Dave, di quello che era accaduto. Delle scuse che mi aveva rivolto il giorno prima. Della ricerca che avevamo compiuto io e Colin e di come si era conclusa. Di quella maledetta canzone che era ormai diventata la mia fissazione. E poi le raccontai di quello che provavo per lui. Del fatto che, in un certo senso, mi sentissi in gabbia, imprigionata da quello che mi faceva provare e dalle emozioni che suscitava in me. E, perché no, infilai anche la proposta che mi avevi fatto tu solo qualche ora prima, ma che sembrava ormai lontana anni luce. Erano secoli che non parlavo così apertamente con la mamma. O forse non l'avevamo mai fatto realmente prima di quella sera. Ma era una bella sensazione. Davvero una bella sensazione. Lei mi ascoltò, senza interrompere, senza fare null'altro se non annuire e guardarmi con un'espressione seria, riflessiva, che assume sempre quando le si parla di qualcosa che le interessa particolarmente. Quando mi bruciò la gola e mi mancò il fiato per quanto a lungo avevo parlato, presi un respiro profondo e feci una pausa, osservandola attentamente, perché l'ultima cosa che avevo fatto prima di fermarmi era stato chiederle un parere su tutta la faccenda. Stette qualche minuto in silenzio, con le labbra arricciate, con un braccio ancora avvolto attorno al mio corpo e la mano dell'altro a sorreggersi il mento, taciturna.

"Credo che tu debba parlargliene, Celeste. So che hai paura, so che è una cosa enorme da affrontare con la leggerezza di una chiacchierata fra amici, ma, per l'amor del cielo, non sai neppure se state effettivamente insieme o meno" decretò, senza mezze misure e mezzi termini, colpendomi con la violenza di uno schiaffo in piena faccia, con la sincerità delle sue parole.

"Ma a te non stava antipatico?" la presi in giro, sogghignando, mentre mi accarezzava il viso e mi portava una ciocca di capelli dietro un orecchio, com'è sempre solita fare.

Aggrottò le sopracciglia alla mia affermazione, frastornata, e la sua reazione non fece che far accigliare anche me.

"Assolutamente no. Io non sopportavo la madre, perché sapevo che andava zoccolando da una parte all'altra" si difese, con naturalezza, facendomi fuoriuscire gli occhi dalle orbite per quello che aveva detto e per come l'aveva espresso.

Scoppiai a ridere di gusto, poco prima di rendermi conto di quanto fossi ingenua da bambina, e di quante cose mi fossi persa e avessi frainteso. Lei si unì alla mia risata, enfatizzando il tutto con un "È vero!" che mi fece ridere ancora più fragorosamente.

"Però, certo, poteva essere quantomeno un po' più indulgente, e importi un colore meno ambiguo di questo, quel piccolo diavoletto" aggiunse poi, in riferimento ai miei capelli.

Se ne ricordava. E la cosa mi fece ridere ancora di più, come non ridevo da tempo. Mi era mancata così tanto, ed ero felicissima che le cose si fossero finalmente appianate. È proprio vero che non ti accorgi di quanto la presenza di una persona sia significativa nella tua vita, fin quando non ne senti la mancanza. E con ciò non mi riferisco solo alla mamma, ma immagino che tu l'avessi già intuito.

×××

"Celeste..." sussurrò una voce che non riuscii a identificare sul momento.

Era ovattata e lontana. Qualcuno mi stava accarezzando i capelli. Mugolai, infastidita, e la persona rise dolcemente. Dopodiché percepii delle labbra umide posarsi a lungo su una mia tempia, poi sul naso, all'angolo sinistro della bocca e sulla corrispettiva guancia. Allora ebbi la certezza di chi si trattasse. Sorrisi istintivamente, ma non aprii gli occhi, troppo stanca per la nottata trascorsa e per il peso del viaggio del giorno precedente sulle mie spalle.

"Devi alzarti, altrimenti faremo tardi. Ci stanno già aspettando tutti a casa dei tuoi nonni" mi avvertì, con velata ilarità.

Mugolai nuovamente, perché davvero non avevo la forza di muovermi. Peter rise ancora, e mi tappò il naso con le dita di una mano, in modo che non potessi respirare e che dovessi per forza controbattere in qualche maniera, per ribellarmi. Doveva essere la mano sinistra, perché l'anello argentato che portava sempre era freddissimo, a contatto con la mia pelle già accaldata di per sé. Sbuffai sonoramente e agitai una mano in aria, nel vano tentativo di trovare il suo braccio e schiaffeggiarlo. Inutile dire che non riuscii nel mio intento. Lui rise, e io iniziai a respirare dalla bocca. Ma mai avrei potuto prevedere che avrebbe agito così subdolamente, e che mi avrebbe baciata per otturarmi anche quella. Fu un bacio lungo e approfondito, che mi lasciò, letteralmente, senza fiato.

"Cretino, non mi sono neanche lavata i denti" lo ripresi, quando si allontanò, aprendo gli occhi e incastrandoli nei suoi.

La luce solare che rischiarava tutto il salotto mi accecò per qualche secondo, facendomeli socchiudere e poi stropicciare. Mi ero addormentata sul divano, perché, quando ero tornata in camera, dopo la chiacchiera con la mamma, avevo tristemente constatato che ti eri appropriata di tutto il letto, quindi ero stata costretta a tornare giù e ad appisolarmi sul sofà. Non so chi fosse stato tanto premuroso da coprirmi con un plaid per farmi stare al caldo, ma probabilmente era stata la mamma.

"Non importa. Mi andava di baciarti e l'ho fatto" ammise, scrollando le spalle, sorridente.

Forse era il suo sorriso a illuminare tutta quella stanza, non la luce esterna che penetrava dalle finestre. Aveva i capelli spettinati, e indossava una T-shirt blu scuro a righe bianche sottili e orizzontali, e dei pantaloni di cotone della stessa tonalità di blu. Doveva essere il suo pigiama. Perciò dedussi che mi aveva mentito, e che non eravamo in ritardo. Altrimenti sarebbe stato vestito. Oppure eravamo in ritardo lo stesso e lui si era svegliato da poco a sua volta. La casa era impregnata del dolcissimo profumo di pancake appena sfornati e uova fritte.

"Tu sei matto" deliberai, ridacchiando, sollevandomi a sedere e lasciandogli un bacio sulla punta del naso.

Era inginocchiato ai piedi del divano, quindi approfittai di quella poca differenza di altezza, visto che già sapevo che sarebbe stata molto più evidente, una volta che mi fossi messa in piedi.

"Assumiti le tue responsabilità" disse soltanto, ridendo a sua volta e alzandosi, porgendomi una mano per aiutarmi a fare altrettanto.

"E questo cosa vorrebbe dire?" lo provocai, afferrandogli la mano e permettendogli di tirarmi su.

Mi girò un po' la testa, quando i miei piedi toccarono il suolo e si ritrovarono a dover sostenere tutto il peso del mio corpo. Mi attirò a sé, approfittandone della mia momentanea instabilità, e mi ritrovai presto con le mani sul suo petto e gli occhi nei suoi. Profumava di bagnoschiuma da uomo e shampoo. E amavo alla follia il suo profumo. Bastò già solo quello a farmi perdere la cognizione di spazio e tempo.

"Che sei tu a farmi questo effetto, stupida. Quindi è colpa tua" attestò, serissimo in volto, per poi sorridermi tutto a un tratto e farmi sciogliere quel briciolo di cuore, ancora intatto, che stava battendo velocissimo.

Uno sciame di farfalle prese il sopravvento del mio stomaco, e io mi maledissi per avergli permesso di entrarmi così tanto sottopelle. Sorrisi, e mi alzai sulle punte per baciarlo di nuovo, perché non avrei mai avuto abbastanza delle sue labbra. Ma qualcuno che tossicchiò, schiarendosi la voce, mi fece desistere e tornare rapidamente con i piedi per terra. Eri tu, naturalmente, ma che lo dico a fare. Ti eri indubbiamente trovata a passare per caso in quel luogo in quel momento preciso, giusto? I tuoi capelli biondi erano tutti arruffati e pieni di nodi, il tuo pigiama rosa shocking con le mucche sopra tutto sgualcito, ma il sorriso malizioso che avevi in viso la diceva lunga. Non so perché arrossii, ma anche Peter ebbe quella reazione, e si passò distrattamente una mano tra i capelli, facendo finta di niente. Lui fece vagare il suo sguardo ovunque pur di non incrociare il tuo, e io alzai gli occhi al cielo, perché la tua espressione parlava chiaro. Scusa, ma perché ci avevi interrotti, allora, se si vedeva da lontano un miglio che volevi assistere alla scena? Lui tossì, e io cercai di mascherare un sorriso. Ci avviammo tutti in cucina in religioso silenzio. Ti ringrazio infinitamente per non aver reso la situazione ancora più imbarazzante facendo una delle tue battutine. Penso che sarebbe collassato a terra in un battibaleno, altrimenti. E che io ti avrei linciata con lo sguardo, per poi ridere a crepapelle fin quando non mi avrebbe fatto male la pancia.

×××

Tacchino ripieno. Pancia piena. Parenti pieni di troppa curiosità. Nonna Trudy e nonno Bart acidi e scontrosi come loro solito. Nonna Beth allegra, giovanile e pimpante come suo solito. Zio Jack e zia Madeleine simpatici ma non troppo invadenti. Mia sprizzava gioia da tutti i pori e, nonostante avesse solo sette anni, a quel tempo, la trovai decisamente più sveglia del normale. Non erano presenti tutti quanti i parenti, come invece mi ero immaginata, ma fu meglio così. In sintesi può essere riassunta in questo modo, quella giornata del Ringraziamento che durò più a lungo del previsto. I genitori di Colin e la piccola peste di Ronan, suo fratello, erano stati molto affettuosi, anche se lui mi era parso più strano del consueto. Guardava Peter in modo indecifrabile, e lui le ricambiava, quelle occhiate curiose e sospettose. Era come se comunicassero con gli occhi in un linguaggio tutto loro, che io non ero capace di interpretare. Avevo anche preso Colin in disparte e gli avevo intimato di smetterla, perché Peter era off-limits per lui. Ma mi aveva spiegato che aveva la sensazione di averlo già visto. Sebbene provai a rassicurarlo e a convincerlo che di sicuro gli risultava familiare a causa dei numerosi filmini e foto che avevamo guardato, non c'era stato verso di persuaderlo.

"Io l'ho già visto da qualche parte, Celeste, te lo giuro. Ha una faccia troppo conosciuta" aveva seguitato a ripetermi, imperterrito.

Tanto che alla fine mi ero arresa. Non avrei dovuto. Avrei dovuto forzarlo a ricordare. Sarebbe stato un enorme vantaggio saperlo da lui, il motivo per cui aveva avuto quella percezione. Perché di certo non fu bello saperlo da Peter. Ma torniamo a dov'ero rimasta... Quando avevamo lasciato la casa dei nonni, mi ero preoccupata di andare nella prima farmacia di turno (da sola: non avrei retto l'imbarazzo nei confronti di Peter o chiunque altro, altrimenti) per procurarmi una di quelle pillole dal sapore orribile, per evitare di fare la fine della mamma. Era la prima volta che avevo avuto un rapporto con qualcuno senza usare precauzioni, quindi non sapevo che quella cosa avrebbe avuto un saporaccio del genere. Per cui, sì, si può dire che avevo avuto anch'io la mia prima volta, la sera precedente. Il venerdì mattina che aveva seguito quella giornata, ero comodamente seduta a bere l'inimitabile cappuccino preparato dalla nuova macchina del caffè che aveva comprato la mamma, quando lui comparve sulla mia visuale in sneakers nere tutte consumate, jeans, felpa nera senza cappuccio né cerniera con una stampa bianca sul davanti, giacca di pelle nera, zaino nero in spalla, e capelli sorretti da una bandana nera. Una di quelle che adoravo vedergli addosso. Anch'io ero già vestita, siccome quel giorno mamma aveva stabilito che non voleva che rimanessimo a poltrire per troppo tempo, perché non voleva che in cucina rimanesse apparecchiato per la colazione troppo a lungo. E anche perché non le è mai andato a genio che si girasse per casa con il pigiama. A meno che non fossimo stati ammalati.

"Vai da qualche parte?" mi informai, addentando un boccone di pancake dalla forchetta, terminata la bevanda.

"Andiamo da qualche parte. Abbiamo tre cose da fare, oggi" dichiarò, impassibile e irremovibile, facendomi intuire che non avrei potuto contestare.

Alzai un sopracciglio, interessata, e sorrisi, terminando la mia colazione e scendendo dallo sgabello per andare a posare la tazza, il piatto e la forchetta nel lavandino e lavarli.

"Ma davvero?" lo stuzzicai, impregnando la spugna di detersivo per piatti e aprendo il rubinetto per bagnarla e incominciare a strofinare le stoviglie.

"Sì, davvero. E non ammetto obiezioni. Verrà anche tua cugina Mia, perché tua madre e le tue zie oggi vanno alla spa per prendersi un giorno di riposo, dopo lo stress di ieri; tuo padre, tuo zio e tuo nonno vogliono vedere una partita di non so cosa alla Tv; le tue nonne non ho ben capito cos'hanno da fare, e ci hanno affidato la responsabilità della bambina" mi illustrò, svelto e pragmatico, facendomi stupire per tutte le informazioni di cui si era effettivamente munito.

"E tu come fai a sapere tutte queste cose?" gli domandai, sinceramente incuriosita, finendo di lavare gli oggetti e asciugandomi le mani con uno strofinaccio.

"Chi dorme non piglia pesci. Mentre tu facevi la 'Bella addormentata nel bosco', io mi sono organizzato. E siamo già in ritardo sulla tabella di marcia" si lamentò, crucciato, mettendo su un broncio che mi fece sorridere.

Mi avvicinai, non sentendo la necessità di mettermi sulle punte perché indossavo gli stivaletti col tacco, che tanto mi piacevano in quelle situazioni, e presi il suo volto tra le mani, dandogli un piccolo bacio a fior di labbra che lo fece sorridere. Mi prese per i fianchi e accrebbe il contatto tra le nostre labbra, intrecciando la lingua alla mia e facendo automaticamente torcere il mio stomaco e il mio cuore.

"Mm, sai di cappuccino e pancake" commentò, quando ci distanziammo, poggiando la fronte alla mia.

"E tu sai di dentifricio" ribattei, sorridendo, accarezzandogli il retro del collo con le dita e inspirando a pieni polmoni il profumo della sua acqua di colonia, che mi aveva circondata da quando gli ero andata più vicina.

"Mi piace tanto quando metti queste bandane" gli confidai poi, sfiorandogli la fronte con le dita.

Lui chiuse gli occhi sotto il mio tocco, sospirando e sorridendo insieme, ma si riprese quasi subito, riaprendoli e incollandoli ai miei.

"Non mi incanti, sai. Siamo sempre in ritardo" constatò ancora, scuotendo la testa, ma seguitando a sorridere.

Emisi un verso di lamento che lui ignorò appositamente, e mi ordinò di darmi una mossa e di andare a finirmi di preparare. Si rifiutò categoricamente di dirmi quali fossero i suoi piani per quella giornata. Tutto quello che fece fu solo minacciarmi di lasciarmi sola a casa con gli uomini della mia famiglia, che si sarebbero visti la partita, se non mi fossi data una spicciata. A quanto pareva, ricordava anche fin troppo bene la mia avversione per lo sport. Malgrado pensassi che doveva smetterla di avvalersi delle cose che ricordava di me dalla nostra infanzia per ritorcermele contro, una parte di me era immensamente felice che le ricordasse, benché fosse passato così tanto tempo.

×××

"Scordatelo. È l'idea peggiore che potessi avere, Peter. Ma come ti è venuto in mente? E come cavolo facevi a saperlo?!" mi lagnai, battendo i piedi a terra come una bambina, mentre lui se la rideva sotto i baffi.

"E non ci trovo niente di divertente" aggiunsi poi, vedendo che lui e Mia si stavano a dir poco sbellicando.

I capelli scuri di lei, legati in due lunghe trecce, sembravano indiscutibilmente più chiari, rischiarati dal sole, e i suoi occhi avevano assunto una tonalità di castano più luminosa. Lei e Peter sembravano aver stabilito una specie di intesa e, per quanto in quel momento la cosa mi irritasse, in realtà mi rendeva felice. Perché Mia era una bambina molto particolare, e per piacerle dovevi essere o un supereroe o essere un personaggio di un cartone animato della Disney. Sai bene quanto ti sei dovuta dannare per entrare nelle sue grazie, perché ogni volta faceva finta di non ricordarsi di te, solo per avere tutte le tue attenzioni. Chissà che fine ha fatto quel peluche di Stitch formato gigante che le regalasti, a proposito... Invece si era affezionata a lui quasi immediatamente e, dopo i primi attimi di timidezza, gli si era attaccata come una cozza, e lo teneva sempre per mano. La differenza di altezza tra i due, che faceva sì che Peter sembrasse un grattacielo accanto a lei, mi faceva sia ridere che tenerezza.

"Andiamo, Celeste, è solo una bicicletta" la buttò lì lui, come se fosse stata la cosa più semplice del mondo, ridacchiando ancora.

"Ma io non so andarci. E non so tu come cavolo facessi a saperlo!" controbattei, profondamente indignata, perché era il mio ennesimo punto debole che usava contro di me.

Eravamo nel parco dove fino a qualche anno prima andavamo sempre io e Colin di sera, per ubriacarci senza essere visti o anche semplicemente per guardare le stelle. Non sapevo quale persona senza cuore gli avesse prestato quella bicicletta, o dove l'avesse presa in affitto, ma lo stavo detestando tantissimo. Era venuto fuori che il primo punto sulla sua lista era insegnarmi ad andare in bici. Mi ero opposta fin da subito, ma non aveva voluto sentire ragioni, e stavamo discutendo da più di mezz'ora, mentre Mia rideva.

"Sai, dici un sacco di cose molto interessanti, quando sei ubriaca. E comunque dovresti ringraziarmi, invece di lamentarti. Ti rendi conto che tua cugina di sette anni sa andarci e tu no?" rincarò la dose, provando ad apparire serio ma scoppiando a ridere poco dopo.

Lei lo seguì prevedibilmente a ruota. Era una fredda giornata di fine novembre, e si sentiva nell'arietta, che spirava fresca contro le mie guance, che si stava avvicinando l'inverno. Tuttavia il sole era alto nel cielo. E mi dannai anche per quello. Perché, se avesse piovuto, non mi sarei trovata in quella situazione. Mi venne vicino, lasciando momentaneamente la mano di Mia, e prese la bicicletta per il manubrio, per poi appoggiarla sul cavalletto per farla reggere da sola. Tirò una scatolina di cartone fuori da una delle tasche della giacca, e la strinse in un pugno.

"Ti fidi di me?" mi pose la classica domanda a cui era inevitabile dare una risposta negativa.

Annuii, anche se non lo stavo realmente ascoltando, perché il mio cervello stava disperatamente cercando di immaginare cosa ci potesse essere in quella scatola.

"Allora chiudi gli occhi" mi comandò con tono dolce, bisbigliando, in modo che lo sentissi solo io.

Feci come richiesto, e percepii un moto d'aria, che mi fece presentire che si fosse spostato alle mie spalle. Mi trasferì i capelli su una spalla con una mano, poi sentii il suo respiro caldo sul collo. Non capivo cosa stesse facendo, ma, quando mi baciò la pelle sensibile della nuca, dedussi che avesse finito. Aprii gli occhi e lui era di fronte a me, e sorrideva. La scatolina era scomparsa. Mia aveva occhi e bocca spalancati, ma era stupita in senso positivo, perché stava provando a non sorridere. Mi accigliai e seguii il loro sguardo, puntato sul mio petto. Dal mio collo pendeva una collana con una catenina in argento, il cui ciondolo era a forma di aeroplanino di carta. Assunsi la stessa espressione di Mia e riconnettei gli occhi a quelli di Peter, che stava sorridendo ancora più ampliamente, dopo aver visto come avevo reagito. Non riuscivo a parlare, perché non avevo le parole. Ma non c'era bisogno di quelle. Io e lui non avevamo mai avuto bisogno di quelle. Infatti presi la rincorsa e mi gettai tra le sue braccia, stringendolo così forte da farmi male. Da farci male. Ma tanto quello ce lo saremmo fatto ugualmente.

"Grazie! È... bellissimo!" proferii solamente e stupidamente, ma lui non diede troppo peso alle mie parole, e lasciò nuovamente la mano di Mia per abbracciarmi meglio e accarezzarmi la schiena con movimenti circolari.

"Dai, Celeste: ora che hai l'amuleto portafortuna puoi provarci!" mi incitò mia cugina, saltellando, sorridente.

Risi alla sua esortazione e mi distanziai da Peter, che sorrideva a sua volta. I suoi occhi riflettevano la luce del sole, ed erano ancora più belli del solito. Lui era ancora più bello del solito. Quella bandana aveva uno strano potere su di me. Mi lasciai abbindolare da quei due, e alla fine salii su quel dannato attrezzo infernale. Peter giurò di tenermi da dietro e di non lasciarmi nemmeno per un secondo. Ma mi ingannò, perché, quando mi girai per controllare che ci fosse, in realtà era qualche metro più indietro, e mi stava riprendendo col mio cellulare, che gli avevo innocentemente consegnato poco prima. Superfluo dire che, ovviamente, caddi di lato non appena me ne resi conto, scatenando le loro sonore risate.

"Sai che il tuo cellulare fa il suono delle fatine, quando ti arriva un messaggio?" fu invece tutto quello che ottenni da lui, mentre ancora rideva fino alle lacrime insieme alla mia cuginetta.

×××

La seconda cosa da fare consisteva nel recarsi in un luogo sperduto della zona. O, almeno, questo avevo capito inizialmente. In verità mi aveva portata in uno dei quartieri meno popolati della città, davanti al muro di un palazzo totalmente bianco. Aveva tirato fuori dallo zaino una mascherina per naso e bocca e una serie di bombolette di vernice spray e me le aveva messe a disposizione, dicendomi che avrei potuto dipingere su quel muro tutto quello che volevo. Dedussi che il fatto che adorassi dipingere graffiti era un'altra delle cose che gli avevo confessato durante quel mio delirio da ubriaca di cui non ricordavo niente. Realizzai in poche mosse una sua mini caricatura, con la faccia enorme e il corpo minuscolo, mentre faceva la linguaccia a chiunque avrebbe osservato il murales. Mi riprese anche in quel frangente, e ogni tanto si inquadrò addirittura, mentre Mia non faceva altro che ridere per le cose stupide che lui diceva, o per le smorfie che faceva alla telecamera. Quando fu il turno della terza cosa da fare, avevo pittura di tutti i colori un po' ovunque, soprattutto sui palmi delle mani. Ma mi ero premurata di imbrattare anche loro con un po' di colore, non senza essermi sorbita tutte le loro proteste e lamentele.

"Quindi, ora che si fa?" indagai, pulendomi le mani sui jeans, ma non riuscendo comunque a rimuovere le tracce di spray ormai asciutte.

"La terza cosa la scegli tu" esclamò, sorridendo, ma smettendo di fare riprese e consegnandomi il cellulare.

"Mm... Che ne dite della sala giochi a qualche isolato da qui?" proposi allora, constatando che il messaggio di cui mi aveva parlato qualche ora addietro era di Lindsay, che voleva sapere come stessero andando le cose.

"Sì!!" esultò Mia, su di giri.

Dopo che li ebbi costretti a fare prima una serie di autoscatti - tra cui scelsi quello migliore e lo impostai come sfondo del telefono -, ci dirigemmo verso la suddetta sala giochi. Attraversammo la strada saltando sulle strisce pedonali, evitando appositamente le parti che non erano verniciate di bianco, e facendo voltare tutti i passanti, intontiti, nella nostra direzione. Ma la sala giochi, purtroppo, era chiusa. Di conseguenza, Peter raccattò una palla da una bancarella, e Mia propose di fare una partita a "Bomba", un gioco che, a mio parere, aveva inventato lei in quel momento. Dovevamo passarci la palla, e il primo a farla cadere doveva rincorrerla fino ad afferrarla, per poi gridare: "Bomba!". Intanto gli altri dovevano correre in tutte le direzioni, ma fermarsi al grido. In seguito, colui con la palla in mano doveva fare tre passi verso la persona a lui più vicina e doveva cercare di colpirla. Ammirai molto la fantasia della mia cuginetta, in quel momento, anche se non potevo giocare perché avevo i tacchi. Quindi mi ritrovai a dover correre per strada scalza - con delle calze talmente sottili a ricoprirmi i piedi, che era come se non le avessi -, con il pavimento sotto i miei piedi gelato, che mi faceva starnutire ogni cinque secondi e mi provocava brividi ovunque. E Peter non fu affatto clemente nei miei confronti, perché, ogni volta che toccava a lui dire: "Bomba!", cercava sempre di colpire me. A un certo punto mi scocciai e mi misi a correre, nonostante non potessi, secondo le regole del gioco. Lui lasciò perdere la palla e mi inseguì, per poi circondarmi la vita da dietro con le braccia e farmi volteggiare, ruotando su se stesso fino a farmi girare la testa. Risi così tanto, quel giorno, ed ero così spensierata, che mi sembrò di tornare bambina, e che tutti quegli anni non fossero mai passati. Lo catalogherei definitivamente come il giorno più bello della mia vita, quello.

×××

Rientrammo a casa per ora di pranzo. Io ormai starnutivo senza ritegno ogni due e tre, e mi ero beccata un gran bel raffreddore. Quei due sembravano essere diventati inseparabili e migliori amici per la pelle. Naturalmente, in assenza di donne in casa, dovemmo ordinare del cibo da asporto - perché io e la cucina siamo sempre state su due rette parallele che non si incontreranno mai e poi mai. Se hai ancora presente l'episodio di qualche anno fa, sai di cosa sto parlando. Il pomeriggio ci divertimmo a impiastricciare delle sottospecie di biscotti con le gocce di cioccolato, con i vari ingredienti che mamma aveva nella dispensa. Ci avrebbe di sicuro uccisi, una volta rientrata, ma non ce ne preoccupammo più di tanto, sul momento. Peter mi fece il bagno nella farina, praticamente, quantunque sembrassi già un arcobaleno ambulante a causa della pittura che ancora non ne aveva voluto sapere di andar via. In compenso, gli sporcai tutta la faccia con l'impasto per quei fantomatici biscotti. Mia rideva, e ogni tanto aiutava me o lui, ma penso che non stesse dalla parte di nessuno dei due, e che si divertisse solamente a insudiciarci senza essere richiamata. Quando si fece ora di cena, la cucina era un casino, noi eravamo un casino, e i biscotti sembravano più delle piccole cacche giallognole che degli effettivi biscotti. E non avevano per niente un'aria commestibile. Voi zie e la mamma tornaste, per nostra fortuna, quando eravamo riusciti a mettere quantomeno in ordine la cucina. Cosa che non poteva dirsi del nostro aspetto. Mia stava guardando i cartoni animati in Tv; papà, zio e nonno stavano fumando dei sigari nello studio di papà; e Peter stava appena manifestando l'intenzione di pulirmi parte della faccia leccando via la farina, quando mamma fece il suo ingresso in cucina e zia Madeleine annunciò a Mia che era ora di tornare a casa. Prima di andarsene, però, la piccola corse verso di noi e ci abbracciò uno alla volta, ringraziandoci per la giornata bellissima che le avevamo fatto passare. Quando abbracciò me, mi sussurrò in un orecchio una frase che non mi lasciò affatto indifferente.

"Quando sarò grande voglio avere anch'io un fidanzato come il tuo".

Mi baciò una guancia macchiata di farina, ci sorrise, e corse via. Mi astenni dal farle presente che io e lui non stavamo propriamente insieme. Ma forse non esisteva e non è mai esistita una definizione per noi due, perché non ne avevamo bisogno. Ci siamo amati oltre ogni limite, e questo, all'epoca, ci era sufficiente. Peccato che non lo sarebbe stato per sempre.

"I wanna make you mine, but that's
Hard to say. Is this coming off in a
Cheesy way?".

N/A

Scusate se il capitolo risulta noioso o privo di contenuti, ma sono cose che dovevano succedere. E poi mi sono tenuta il meglio per la fine ;)

Capitolo revisionato.

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