28. Somethin' Stupid
"I practice every day to find some
Clever lines to say to make the
Meaning come through. But then I
Think I'll wait until the evening
Gets late and I'm alone with you".
Dicono che il primo amore non si scordi mai. Che, quando qualcuno ti entra fin sotto la pelle, sia impossibile scalzarlo da lì. Dicono che, se il suo nome ti si cuce sul cuore, non potrai mai scucirlo. E dicono anche che, se una persona è la tua casa, il tuo rifugio, il tuo porto sicuro, sia quantomeno improbabile annullare un legame così indissolubile. E quella era la situazione in cui mi trovavo io allora, incapacitata nello sradicare Peter da dentro di me. Sei anni. Erano passati sei anni dall'ultima volta che l'avevo visto e udito il suo nome. Ed eravamo solo dei bambini ingenui all'epoca. Sei anni tremendi, in cui avevo cercato con tutte le mie forze di rompere le catene apparentemente indistruttibili che mi univano immancabilmente e inscindibilmente a lui. E credevo di esserci riuscita, ma non avevo fatto i conti con la parte più recondita di me, nella quale lui avrebbe dimorato fino alla fine dei mie giorni, volente o nolente. Quel pomeriggio eravamo tutti riuniti in caffetteria, durante la pausa pranzo. E io mi ero persa, completamente e totalmente, a guardare Peter gesticolare e parlare a raffica con Mike dei risultati di una partita di baseball che si era tenuta di recente. Era tutto concentrato e infervorato, con le maniche della maglia azzurra tirate fin sui gomiti - lasciando intravedere la miriade di braccialetti colorati sul polso destro, mentre muoveva le mani da una parte all'altra -, e l'anello argentato sul dito medio sinistro che si illuminava, quando rifletteva la luce debole e fioca delle lampade al neon sopra le nostre teste. Aveva un sorriso perenne ad aleggiargli sul viso; i capelli biondo rame - più lunghi di quanto lo erano quando lo avevo incontrato, arricciati alle punte - che ogni tanto gli cadevano davanti agli occhi, e che lui prontamente si aggiustava dietro con un rapido movimento di mani; gli occhi vivaci e scintillanti, ed era così bello, maledizione. Non mi accorsi neppure di averlo fissato tanto a lungo, almeno fino a quando non smise di parlare, si voltò verso di me e mi sorrise, e il mio cuore si squagliò in pochi secondi. Ricambiai il sorriso, e focalizzai la mia attenzione sul sandwich al pomodoro e insalata quasi terminato che era ancora nel piatto sul mio vassoio. Ripresi a mangiare, e loro a discorrere, ma quella volta posò la mano sinistra sulla mia coscia destra, accarezzandomi la pelle, che si infiammò immediatamente, sebbene il denim dei miei jeans fungesse da ostacolo al contatto. Nessuno sembrò notare quel gesto intimo e all'apparenza insignificante. Nessuno, tranne il mio cuore, che aveva già cominciato a battere all'impazzata.
"Celeste, tu devi andare a lavorare stasera?" si informò Lindsay, risvegliandomi dallo stato di meditazione trascendentale in cui ero ricaduta.
Spostai lo sguardo su di lei, di fronte a me, che era accoccolata a Mike, stretta a un suo braccio, con la testa sulla sua spalla destra, mentre la rispettiva mano di lui era sulla gamba sinistra di lei. Avevano deciso di provarci, e avevano fatto "pace", alla fine. All'inizio era stato alquanto strano, sia per noi che per loro: fino ad allora non avevano fatto altro che insultarsi, e ogni volta che si erano rivolti la parola era stato per litigare. Perciò era chiaro a tutti che non sarebbero mai stati una di quelle coppie tutte "sole, cuore e amore". Andavano a momenti: c'erano giorni in cui per poco non si prendevano per i capelli, e altri in cui, invece, erano talmente affiatati da sembrare due sanguisughe. E quello era il secondo tipo di giornata. Fino a quella prima si stavano scannando solo perché Lindsay aveva mangiato l'ultima fetta di pizza, dopo che gli aveva in realtà promesso che l'avrebbero divisa. Stavano "insieme" solo da due settimane circa, e già sembravano una di quelle vecchie coppiette sposate da anni e anni. Tanto per far capire la gravità della situazione. No, non so se stiano ancora insieme, adesso, onestamente... È un po' che non ho loro notizie, sai.
"Mm, sì" mugolai, con l'ultimo boccone ancora tra i denti, ingoiandolo subito dopo.
Quella sera avrei dovuto anticipare il turno da Babs', che, in verità, avrei dovuto coprire il giorno dopo. Solo che mancavano solamente due giorni al Ringraziamento, e quello successivo sarei dovuta partire per Boston per tornare a casa. Lindsay annuì, pressando le labbra, pensierosa, per poi cominciare a borbottare qualcosa, che non riuscii a carpire, ad Abigail. Peter - che, a differenza mia, che sono sempre stata lentissima a mangiare, aveva già finito da un po' - aveva ancora la mano poggiata lì, e mi stava fissando insistentemente, mentre mi passavo un tovagliolo sulle labbra. Dopodiché mi girai verso di lui e gli sorrisi. Lui ricambiò il gesto, e iniziò a muovere la mano su e giù, coccolandomi la gamba. Lo stomaco mi si stava contorcendo in pancia. Un po' per quel suo movimento intimo e dolce. Un po' per il modo penetrante e senza maschere in cui i suoi occhi mi stavano perforando l'anima. Schiuse le labbra, ancora sorridenti, probabilmente con l'intenzione di dirmi qualcosa, ma non ho mai saputo cosa volesse dirmi, perché la bolla in cui ci eravamo rinchiusi fu brutalmente scoppiata da una voce che si intromise a infrangerla.
"Celeste, posso parlarti un secondo?" mi domandò Dave, teso e palesemente impaziente, comparendo come un fantasma al mio fianco sinistro.
Alternava a tratti il peso da una gamba all'altra, a disagio, e, quando incrociai i suoi occhi, li trovai incerti e insicuri. Aggrottai le sopracciglia. Il chiacchiericcio tra Lindsay, Abigail e Mike si placò. La presa di Peter sulla mia coscia si fece impercettibilmente più stretta. Dave mi fece segno con gli occhi e con il capo di voler andare a parlare da un'altra parte. Sembrava avesse una certa urgenza, come se si fosse voluto liberare di un peso, e avevo già una mezza idea di cosa avrebbe voluto dirmi. Assentii, sfregai le mani tra loro per far cadere le briciole di pane che mi ci si erano attaccate, e mi alzai, percependo subito la mancanza del calore che la mano di Peter mi infondeva. Tutti si accigliarono, e vidi con la coda dell'occhio Lindsay e Mike riprendere a parlottare, mentre io e Dave ce ne andavamo un po' più in disparte. Ci fermammo accanto a un tavolo libero lì vicino, e mi parve indeciso sul sedersi o meno. Presi io l'iniziativa e mi accomodai. Lui fece altrettanto, sedendosi sulla sedia alla mia sinistra, a lato della piccola tavola quadrata. Fece scivolare lo zaino da una sua spalla e lo posò sulla sedia libera alla sua sinistra. Appoggiò i gomiti sulla superficie di plastica bianca del tavolo e affondò la testa tra le mani, sospirando. Mi feci più vicina a lui spostando di poco la sedia, e sentii gli occhi di quei quattro, a qualche metro da noi, fissarci. Gli misi una mano sulla spalla destra, e lui issò il viso, inchiodando gli occhi blu oltremare ai miei. Erano afflitti, tormentati, e mi fece una tenerezza assurda, seppure non avessi dimenticato tutto quello che mi aveva fatto passare. Il suo sguardo si trasferì dai miei occhi al mio collo, e si concentrò sulla collana con il ciondolo a forma di farfalla rosa, che portavo sempre, da quando me l'aveva regalata. Emise un altro sospiro e serrò gli occhi. Poi iniziò a osservare un punto indefinito davanti a sé, con i gomiti ancora sul tavolo e le braccia conserte.
"Ti è mai capitato di sentirti una merda per una piccola bugia bianca che hai detto, che, a quel tempo, ti è sembrata un'idea geniale? Ma poi, ripensandoci, ti sei accorta di aver fatto una cazzata enorme?" inquisì, senza guardarmi.
Ebbi allora la conferma che le mie supposizioni erano fondate, e feci un piccolo sorriso a quel pensiero.
"Se è stata una bugia bianca, le conseguenze non dovrebbero essere tanto irreparabili..." constatai, togliendo la mano dalla sua spalla e rilassandomi contro lo schienale blu della sedia.
Impensierito, si voltò finalmente a guardarmi.
"Allora non era così innocente come credevo sarebbe stata..." convenne, parlando più con se stesso che con me, e posandosi a sua volta con la schiena contro la sedia.
Decisi di non dire più niente - anche perché era lui quello che voleva parlarmi -, perciò me ne stetti in silenzio, a giocherellare con il ciondolo e a chiedermi se, forse, non avrei dovuto rendergli le cose più facili, facendogli presente che già sapevo tutto. Poi rammentai di essere una stronza, e che lui non lo meritava, per cui la parte più crudele di me mi impose di tacere. Cosa che, poi, effettivamente feci.
"Io..." mormorò, esitante, non trovando le parole.
Sembrava molto frustrato e combattuto, quasi angosciato. Mi prese una mano fra le sue e sospirò un'ennesima volta.
"È così difficile, dannazione..." si lamentò.
"Sei tu che la rendi difficile, Dave. Sono solo io..." provai a rassicurarlo, guardando Peter osservarci crucciato da lontano.
"Celeste... Mi dispiace così tanto. Io non pensavo che sarebbe andata in questo modo. Veramente non ho pensato proprio alle conseguenze. Sono un idiota. Cazzo, se sono un idiota. Se avessi saputo che ci tenevi così tanto, io non avrei mai... Cazzo. Tu mi piaci, okay? Mi sei piaciuta da subito, per questo ti ho invitata a quella fottuta festa. Ma non avrei mai previsto che le cose sarebbero andate così, e io ero incazzato nero con te per quello che mi hai detto qualche giorno dopo e..." lasciò la frase in sospeso, chiudendo gli occhi e passandosi tra i capelli la mano che non era stretta alla mia, irritato con se stesso.
"E mi hai mentito fingendo di essere quel bambino per vendicarti" completai io il discorso per lui, semplificandogli le cose.
Sbiancò, probabilmente non aspettandoselo da parte mia, e deglutì, per poi annuire, sconsolato.
"Sai già chi è quel bambino, non è vero?" indagò, dopo qualche attimo di silenzio, guardandomi negli occhi.
Non mi chiese come avessi fatto a capire che mi aveva mentito. Ma penso che non ce ne sarebbe stato bisogno, perché suppongo che avesse intuito che non ci sarebbe voluto un arco di scienza per arrivare a quella conclusione.
"Credo di averlo sempre saputo, in realtà" gli confidai, con un piccolo sorriso malinconico a incorniciarmi le labbra.
"E lui sa che tu sai?" azzardò, facendomi accelerare leggermente il battito cardiaco, e intendere che c'era evidentemente stato quel dialogo tra lui e Peter che ipotizzavo fosse avvenuto.
Scossi la testa, distogliendo lo sguardo e focalizzandolo sulla plastica bianca del tavolo.
"Era questo che volevo dirti, in verità, quella notte che sono piombato sbronzo nella tua stanza. Di solito, quando voglio ubriacarmi e voglio stare solo, vado in biblioteca, perché lì non c'è mai nessuno, di sera. E là ho per sbaglio ascoltato degli stralci di una conversazione tra lui e un altro tizio, che stavano discutendo tutt'altro che discretamente, e ho capito che ti stavano nascondendo qualcosa. Poi sono venuto da te, ma tu non mi hai fatto parlare, e il giorno dopo ho cambiato idea, decidendo di sfruttare la cosa a mio favore. Dio, Celeste, mi sento una merda" gemette, con la voce incrinata, mollando la presa sulla mia mano e rimettendo i gomiti sul tavolo e il capo tra le mani.
In un moto di compassione che mi sopraffece in quel momento, gli scostai una mano dalla faccia, facendolo voltare verso di me, e lo abbracciai, di slancio, sussurrandogli in un orecchio un "Ti perdono" che lui dovette sentire per forza, perché rafforzò la sua stretta e sommerse il viso nel mio collo. Sospirò ancora, ed esalò un piccolo singhiozzo, incominciando a bagnarmi la pelle scoperta con delle lacrime che gli erano sfuggite. Gli accarezzai la schiena con una mano, mentre lui mi stringeva a sé come se non avesse mai voluto lasciarmi andar via. Ma sapevamo entrambi che era un addio, quello. Quando ci distaccammo, gli asciugai con i pollici le lacrime ribelli che gli avevano bagnato il viso. Mi sorrise, ma era un sorriso triste, il suo, perché un'altra cosa di cui eravamo entrambi consapevoli era che non sarebbe stato per niente facile alzarsi da quel tavolo e far finta di niente. Benché mi avesse fatto patire le pene dell'inferno, e si fosse comportato in modo a dir poco deplorevole, gli dovevo molto. Se lui non mi avesse mentito, Peter non si sarebbe mai esposto a quel modo. Se lui non mi avesse mentito, non avrei fatto quelle ricerche, a casa, e non avrei mai scoperto che quel bambino era Peter. Non avrei passato sicuramente gli esami e non avrei avuto un lavoro da Babs'. Niente sarebbe andato com'è realmente andato poi, e io non sarei, senza ombra di dubbio, la persona che sono adesso. Mi portai le dita sulla nuca e sganciai la chiusura della catenina, per poi impugnare la collanina e depositargliela in una mano, che gli chiusi poi a pugno con le mie. Mi guardò confuso, con gli occhi rossi e lucidi.
"Così avrai sempre un ricordo di me" esclamai, con convinzione, prendendogli il mento tra le dita di una mano e depositandogli un veloce bacio su una guancia.
Dopodiché feci per mettermi in piedi e tornare al tavolo dove mi stavano aspettando gli altri, ma la sua voce mi bloccò prima ancora che potessi essere troppo lontana da lui.
"Avresti amato me, se non ci fosse stato lui?" mi chiese, a voce bassa, per assicurarsi che lo sentissi solo io, con il pugno ancora chiuso, osservandomi con attenzione e con gli occhi ancora velati di lacrime.
Rimasi per qualche secondo interdetta, non sapendo come rispondere a quella domanda.
"Un giorno troverai qualcuno che ti ami come meriti e come io non ho saputo fare, Dave. Credimi" gli assicurai, evitando accuratamente di rispondere negativamente a quel suo quesito.
Non avevo mai riflettuto su cosa sarebbe successo se Peter non fosse mai esistito, ma sapevo che l'avrei comunque cercato ovunque. Avrei cercato qualcuno che gli somigliasse, che avesse i suoi stessi modi di fare o di comportarsi, il suo sorriso, i suoi occhi, il suo modo di parlare... perché il mio cuore lo avrebbe amato a prescindere, ne ero più che sicura. Mi rigirai e proseguii verso il luogo in cui ero diretta prima che mi fermasse, lasciandomi alle spalle un Dave sbigottito e una parte di me che gli avevo inevitabilmente donato, e che non avrei riavuto indietro mai.
"Tutto a posto?" indagò Mike, una volta che mi risiedetti accanto a Peter, il quale mi stava esaminando con circospezione per capire cosa fosse successo.
Annuii, sorridendo per rassicurarli, e poi iniziai, senza un apparente motivo, a fissare un punto indefinito davanti a me, oltre le teste di Lindsay, Abigail e Mike, che mi guardavano ancora poco convinti. Qualche istante dopo sentii qualcosa sfiorarmi una guancia, e, quando fissai Peter, stranita, stava ridendo, insieme a tutti gli altri. In un secondo momento mi resi anche conto del fatto che stesse impugnando un piccolo evidenziatore rosa.
"Mi hai colorato la faccia? Ma che diamine, Peter!" lo rimproverai, tentando di celare un sorriso, cominciando a sfregarmi compulsivamente la pelle per cancellare il segno.
Tutti presero a ridere fragorosamente, mentre Peter mi lasciava un'altra scritta sulla fronte.
"Ma la finisci, cavolo?" lo sgridai, strofinandomi la fronte con una mano e la guancia con l'altra.
Si guardarono e risero ancora più calorosamente.
"Ma perché ti lamenti tanto? Ora hai la faccia in tinta con i capelli" si giustificò quell'imbecille, incapace di astenersi dal ridere come un ritardato.
Mi morsi il labbro inferiore per non ridere alla sua battuta, e mi leccai un dito, per poi riprendere a sfregarmi la pelle, mentre loro ancora ridevano, e mentre io mi domandavo da dove diamine fosse uscito quel dannato evidenziatore. Mi arresi, visto che continuavano a ridere come degli idioti e non sapevo spiegarmi il perché, e aprii lo zaino, che avevo lasciato ai piedi della sedia, tirandone fuori il tubetto di rossetto color corallo che mi portavo sempre dietro.
"Vuoi la guerra?" lo minacciai, sfilando il tappo, pronta a contrattaccare.
Sgranò gli occhi e smisero immediatamente di ridere tutti quanti.
"No, no, Celeste, aspetta. Non scrive, vedi? È finito" mi spiegò, vigliaccamente, dimostrandomi che il pennarello era scarico passandoselo sul dorso di una mano, e provandomi che, in effetti, non scriveva.
Si rimisero a ridacchiare, mentre lui mi fissava timoroso, indeciso sul se ridere anche lui o preoccuparsi.
"Non mi interessa, stronzo, ora me la paghi lo stesso" gli annunciai, prima di segnargli una guancia con il rossetto.
"Oh-oh!" proruppe Mike, iniziando a ridere con ancora più entusiasmo.
Peter sbarrò nuovamente gli occhi e si strofinò la guancia con una mano, mentre io richiudevo il tubetto e lo riponevo al suo posto. Mi misi a ridere anch'io, notando che, invece di cancellarlo, lo stava espandendo, quel segno, e lui poggiò con molta poca grazia l'evidenziatore sul tavolo, per poi gettarmisi addosso e incominciare a farmi il solletico sui fianchi e sulla pancia. Il bastardo sapeva che erano sempre stati i miei punti deboli. Le mie risate si alternarono a lamenti e gemiti di dolore, fino a quando non lo supplicai di smettere.
"Ti risparmio solo perché siamo in compagnia, e perché non sono ammessi atti osceni in luogo pubblico" mi comunicò, sussurrandomi quelle parole in un orecchio, facendomi accelerare la frequenza dei battiti cardiaci.
Ammiccò, con un sorrisetto furbo, e tornò al suo posto. Io, dal mio canto, ero del tutto allarmata e accaldata per la sua considerazione, che non mi aveva per niente lasciata indifferente.
×××
"Ti ricordi tutto quello che ti ho detto? Mi raccomando, Peter, non..." prelusi, nervosa e agitata, aggiustandomi per l'ennesima volta una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
"Sì, Celeste, ho capito: me l'hai ripetuto fino alla nausea. Devi stare tranquilla. Andrà tutto bene" mi rassicurò, interrompendomi, lasciandomi un bacio su una tempia e rafforzando la presa sull'intreccio delle nostre mani.
Eravamo da dieci minuti impalati davanti alla porta di casa mia. E io non avevo ancora trovato la forza di entrare. Il mio nervosismo e la mia ansia erano dovuti principalmente a tre fattori: 1. Peter avrebbe rincontrato i miei genitori (ai quali avevo esplicitamente vietato di fare riferimenti alla nostra infanzia, perché, per grandi linee, e sebbene loro non avessero capito un tubo, avevo spiegato loro come stavano le cose); 2. I miei genitori avrebbero rincontrato Peter: più cresciuto, più "uomo", meno bambino, e troppo di buonumore per i miei gusti; 3. Avrei rivisto la mamma. La quale alla mia mail aveva risposto semplicemente con un secco e freddo: "Ne parliamo di persona" a cui non ero riuscita a dare un'interpretazione. E poi il giorno successivo sarebbe stato quello del Ringraziamento, e ci sarebbe stata tutta la mia famiglia. O, almeno, la maggior parte della mia famiglia. E avrebbero fatto così tante domande, supposizioni e constatazioni... Soprattutto tu! E io non ero pronta. Per niente. Non era nei piani che Peter mi accompagnasse, nonostante ci sperassi - e nonostante tu mi avessi praticamente imposto di trovare il modo di portarlo con me. Poi, però, era venuto fuori che non sarebbe tornato a casa, durante quella festività, perché suo padre doveva lavorare anche quel giorno, e sua madre era in Inghilterra, perciò sarebbe rimasto solo. Aveva stranamente accettato senza esitazione la mia proposta, anche se all'ultimo minuto - letteralmente: l'avevamo deciso quella mattina stessa, qualche ora prima di prendere il pullman per Boston -, e io non potevo che esserne felice. Se solo non fossi stata così agitata...
"Ehi, mi hai sentito? Rilassati. Andrà tutto una meraviglia" ripeté, sorridendomi e incitandomi con lo sguardo a suonare il campanello.
Pallina era di nuovo appollaiata in uno dei due vasi di gerani, e ci fissava con interesse e superiorità. Sospirai, abbattuta, e bussai con la mano libera, per poi riafferrare la maniglia del trolley che mi ero portata dietro, e attendere, impazientemente, che ci venissero ad aprire la porta. Avevamo ancora le mani intrecciate, e non lo realizzai fino a quando papà, sorridente, non ci aprì la porta, e il suo sguardo calò presto dai nostri visi alle nostre mani. Sciolsi rapidamente quel legame, quasi come se avessi preso la scossa, e Peter dovette capire perché lo feci, siccome ficcò la mano nella tasca del suo cappotto, e fortificò la stretta sulla maniglia della sua valigia con l'altra, senza scomporsi.
"Siete arrivati, finalmente: ormai non ci speravo più" scherzò papà, che sembrava decisamente allegro, e la cosa mi tranquillizzò, in parte.
Dall'altra continuavo ad avere una paura incredibile e gigantesca che potesse in qualche modo fare una gaffe, da un momento all'altro, e lasciarsi scappare qualcosa che facesse capire a Peter che sapeva, sapevo e sapevamo che era lui quel bambino. Ma avevo indiscutibilmente troppa poca fiducia nelle capacità recitative di papà. Spalancò un po' di più la porta per farci entrare, e io abbassai la maniglia del bagaglio e lo presi in mano, consigliando a Peter di fare lo stesso, memore della fissazione maniacale della mamma per il pavimento in parquet, che non doveva graffiarsi per nessuna ragione al mondo. Pena la morte. Ovvio che non dovrà mai venire a sapere di quel piccolo graffio che hai fatto tu. Piuttosto, è strano che non se ne sia ancora resa conto. In ogni caso - lo vedi che mi interrompi sempre? Poi è logico che ci metto secoli a completare la narrazione! -, una volta nell'ingresso, e che il persistente profumo di cannella ci ebbe inebriato i sensi, posammo le valige sul tappeto e ci liberammo dei giacconi, consegnandoli poi a papà, che li appese all'attaccapanni. Non era in tenuta da casa come l'ultima volta che ero stata lì, anzi, sembrava pronto per uscire da un momento all'altro. Indossava un completo elegante, corredato di giacca, cravatta, pantaloni e scarpe neri e camicia bianca. La cravatta era sciolta, però, e lui ci si stava appiccicando perché, per la fretta, non riusciva a fare un nodo decente. Ridacchiai e mi avvicinai, proponendogli di allacciargliela io. Mi sorrise e acconsentì alla mia proposta, lasciandomi campo libero. Gliela legai velocemente, in poche e semplici mosse, come mi aveva insegnato la mamma una volta, e lui mi ringraziò con un bacio sulla fronte e un sorriso luminosissimo. Poi si guardò allo specchio, posto sopra il mobile su cui poggiava lo svuota-tasche, e si pettinò i capelli. Senza barba sembrava proprio un ragazzino. A un certo punto si colpì la testa con una mano, come se si fosse appena ricordato di qualcosa di cui si era momentaneamente scordato, e si fece più vicino a Peter. Il mio cuore iniziò a battere freneticamente per l'ansia.
"Scusa se non mi sono presentato prima, ragazzo, ma - se non si era notato -, sono un po' di fretta e molto, molto in ritardo. Comunque sono Robert" si scusò papà, ridacchiando e porgendogli una mano, che lui non impiegò molto a stringere.
"Peter. E non si preoccupi, signor Sullivan..." lo confortò, ricambiando il suo sorriso.
Papà mollò velocemente la presa, e arraffò il mazzo di chiavi della sua auto dal suddetto svuota-tasche, per poi infilarsi altrettanto speditamente un cappotto e precipitarsi alla porta.
"Mi dispiace veramente tantissimo non avervi fatto i dovuti onori di casa, ma devo correre a prendere Milah in aeroporto, e sono in ritardo. Celeste, tua madre è andata a prendere zia Flo alla stazione, invece. Penso che tra un'oretta o due saremo di ritorno. Prendiamo le pizze. Tu come la preferisci, Peter? Oh, c'era una cosa che Marylin mi aveva raccomandato di dirvi, ma che in questo momento mi sfugge..." parlò a raffica papà, avviandosi alla porta e aprendola, non lasciando neanche a Peter il tempo di comunicargli il gusto di pizza che avrebbe desiderato.
Risi a quella scena, e papà aggrottò fronte e sopracciglia, alla ricerca di quella cosa che gli era passata di mente. Sai anche tu quanto è buffo quando fa così...
"Ah, sì, giusto! Peter, mia moglie ti ha preparato la stanza per gli ospiti. Celeste, poi fagli vedere tu dov'è e dagli la biancheria per il bagno e tutte quelle cose lì. Il letto è già stato fatto. Tu, invece, dormirai in camera tua, ma, visto che quella per gli ospiti sarà occupata, tua zia dividerà il letto con te, tanto è abbastanza grande e ci state entrambe. Io scappo, ché sono già troppo in ritardo" sottolineò per la milionesima volta, per poi uscire affannosamente e chiudersi la porta alle spalle con un tonfo sordo, che fece sobbalzare sia me che Peter.
"Chissà chi mi ricorda, sempre in ritardo e sempre di fretta..." alluse lui, quando rimanemmo soli, venendomi vicino e agganciando le mani ai miei fianchi.
"Mm, chissà..." gli ressi il gioco io, pur consapevole che si stesse riferendo a me, portando le mani ai lati del suo collo.
"Ti faccio vedere la tua stanza" sentenziai poi, quando sentii che il suo sguardo intenso e profondo stava quasi per bucarmi l'anima.
Assentì e si distanziò da me, prendendo in mano il suo bagaglio e seguendomi, mentre gli facevo strada verso il piano superiore, riuscendo a trasportare a fatica il mio, di bagaglio, che avevo sicuramente riempito più del necessario. Lo lasciai davanti alla porta della mia camera, e mi preoccupai di accompagnare Peter in quella che sarebbe stata la sua. Chissà che effetto dovette fargli ritornare in quella casa che era per lui così familiare, e che sforzo dovette fare per non pormi domande in merito alla nuova disposizione dei mobili... Ancora mi interrogo in merito. Alla seconda porta bianca sulla destra, in fondo al corridoio che sembrava quasi infinito, mi fermai e la aprii, introducendolo nella piccola stanzetta asettica e impersonale che ormai conosci anche meglio delle tue tasche, per tutte le volte che vi hai soggiornato. Entrò e posò la valigia ai piedi del letto, guardandosi attorno incuriosito. Andai a prendergli gli asciugamani per il bagno in camera dei miei, nel mobile adibito proprio alla funzione di custodirli, e quando tornai lo trovai intento a togliersi maglia e canottiera. Deglutii a stento, con il respiro mozzato a causa della vista che mi si presentò davanti, e per poco non mi caddero di mano gli asciugamani.
"Faccio una doccia" mi avvisò, e io non potei fare altro se non annuire, incapace di spiccicare parola, senza riuscire nemmeno a dirgli di fare come se fosse stato casa sua, troppo concentrata sui suoi addominali.
"Vuoi farla con me?" propose, ridacchiando, vedendo che ero rimasta immobile come uno stoccafisso a fissarlo, probabilmente anche con la bava alla bocca.
Negai, scuotendo la testa, e gli lasciai gli asciugamani sul letto, per poi uscire da lì dentro - dove l'aria si stava facendo troppo pesante per i miei gusti - ed entrare in camera mia per sistemare la mia valigia e le mie cose. Presi un respiro profondo e cercai di rimuovere, con scarsi risultati, quell'immagine dalla mia mente. Era innaturale che somigliasse così tanto a un dio greco. Ed era ingiusto, anche. Ed era ancora più ingiusto il fatto che lui se ne approfittasse e si prendesse gioco di me, addirittura. Posai il trolley ai piedi del mio letto e aprii la cerniera, decisa a svuotarlo. Poi mi ricordai di non potere, perché nel mio guardaroba non c'erano più stampelle, ma il mausoleo dedicato alla mia infanzia, quindi cambiai idea molto celermente. Avevo lasciato sul letto il pupazzo di Pikachu con su scritte sulla targhetta le nostre iniziali. Sorrisi e mi stesi sul morbido materasso, stringendo il peluche al petto e chiudendo gli occhi per qualche secondo. Poi sospirai e mi tolsi scarpe e calzini, stendendomi completamente. Presi il cellulare da una delle tasche posteriori dei jeans e mandai un messaggio a Colin, in cui lo informavo di essere a casa e gli chiedevo conferma per la venuta sua e della sua famiglia il giorno dopo, per celebrare il Ringraziamento con noi. Successivamente persi la cognizione del tempo, iniziando una partita apparentemente interminabile a un gioco che avevo sul telefonino, contro lo stesso tizio che non mi aveva voluta far vincere neanche l'altra volta. Dopo quelle che mi sembrarono ore, seppure fossero passati solo pochi minuti, sopraffatta dalla noia, presi la folle decisione di andare a vedere cosa stesse facendo Peter, abbandonando il telefono sul copriletto lilla, accanto al pupazzetto. In verità folle fu la decisione di entrare nella stanza senza aver prima bussato. Era appena uscito dal bagno. Aveva uno degli asciugamani che gli avevo procurato io in vita. Nient'altro. I capelli bagnati rilasciavano piccole goccioline che gli ricadevano sul viso e sul collo, solcandogli quella pelle perfetta che sembrava fosse stata realizzata grazie all'intervento di uno scalpello divino. Le gocce d'acqua gli ricoprivano anche tutto il torace tonico, e in quel momento non ebbi nemmeno la forza di deglutire. Rimase con un altro asciugamano a mezz'aria, quando mi vide. Probabilmente gli serviva per strofinarsi i capelli. Io avevo gli occhi sbarrati e le guance sicuramente fucsia, mentre il sangue mi affluiva al viso e il mio battito cardiaco accelerava. Lui, dopo un primo attimo di stupore, sorrise maliziosamente, e sapevo, Dio, sapevo che di lì a poco avrebbe fatto una delle sue solite battutine.
"Allora... Qual buon vento ti porta qui?" domandò, fingendosi indifferente, passandosi l'asciugamano tra i capelli bagnati, mantenendo gli occhi connessi ai miei.
Dopo quella che mi parve un'eternità, riacquistai l'uso della parola che avevo temporaneamente perduto.
"Avevo... dimenticato una cosa..." mentii spudoratamente, con quel poco di voce che era ancora in mio possesso.
E sapevamo entrambi che era una bugia, ma fece finta di non accorgersene. Il suo sorriso si ampliò, e posò l'asciugamano che aveva usato per i capelli sulla cassettiera, incrociando le braccia al petto e guardandomi con la faccia di chi la sa lunga.
"Cosa, di preciso?" chiese, con un sopracciglio alzato, ma con in volto quel maledetto sorriso che avrei solo voluto baciare fino allo sfinimento.
Feci un passo verso di lui, e lui non si mosse, mantenendo la sua posizione. Ne feci un altro, lentamente, e rimase impassibile. Al terzo ero a pochi centimetri da lui - con il profumo del suo bagnoschiuma a pervadermi i sensi -, e dal suo respiro leggermente irregolare potei capire che non gli ero tanto indifferente quanto voleva farmi credere.
"Questo" dissi, per provocarlo, allungandomi dietro di lui e afferrando dalla cassettiera l'asciugamano con il quale si era asciugato i capelli, per poi dargli le spalle e andarmene.
O, almeno, far finta di andarmene, per vedere cosa avrebbe fatto. E sorrisi, quando mi prese per i fianchi e mi fece voltare verso di lui, quando proferì un "Oh, ma fammi il piacere!" abbastanza eloquente, quando mi strappò il panno di mano e lo riposò al suo posto, e quando unì le labbra alle mie. Il cuore cominciò a battermi così forte, che più non si poteva. Lo sentivo risalirmi per la gola, e a momenti pensavo che avrei potuto sputarlo. E, sebbene ci fossi ormai abituata, la pancia comunque mi fece un gran male, quando lo stomaco mi si attorcigliò su se stesso innumerevoli volte. Mi mancò il fiato, quando i piccoli baci che mi lasciava a fior di labbra divennero più lunghi e approfonditi. E, quando la sua lingua toccò la mia, mi sentii morire e sopraffare di tanti di quei sentimenti e tante di quelle sensazioni, che davvero pensai di poter morire sul colpo. Le sue mani si spostarono dai miei fianchi all'orlo della mia maglietta, che mi sfilò e gli permisi di sfilarmi assieme alla canotta senza troppe cerimonie. Mi fece indietreggiare fin quando il retro delle mie ginocchia non venne a contatto con il materasso di quell'orrendo letto giallo. A quel punto mi ci stesi sopra, e lui si posizionò su di me - per quanto gli permetteva quel cavolo di asciugamano che aveva in vita, che gli limitava non poco i movimenti. Con le labbra ancora sulle mie, mi sbottonò i jeans in un gesto rapido. Li tirò giù lentamente, però. Molto lentamente. E troppo lentamente. Poi li gettò sul pavimento, e mi percorse tutta la gamba destra depositandomi dei lunghi baci sulla pelle, che si infiammò come fuoco vivo. Il mio cuore, che batteva prepotentemente contro la mia cassa toracica, produceva un suono che mi stava stordendo. Ma forse a stordirmi erano, più prevedibilmente, tutte le attenzioni che stava dedicando al mio corpo. Dalla gamba passò alla pancia, fino ad arrivare allo sterno, e, in un secondo momento, al collo, sul quale si soffermò più del dovuto. Mi leccò la pelle con una lentezza disarmante, poi mi mordicchiò e baciò una mandibola, infine si fiondò di nuovo sulle mie labbra, mentre una delle sue mani litigava con il gancetto del mio reggiseno, e con l'altra si aiutava a sorreggersi per non cadermi addosso. Allacciai le mani al suo collo e lo trassi più vicino, ma quel maledetto asciugamano non mi permetteva di sentirlo come avrei voluto. Cautamente, con le mani tremanti, nervosa come mai lo ero stata in situazioni simili, sciolsi il nodo che faceva sì che gli si mantenesse stretto e saldo in vita, e glielo tolsi, gettandolo poco garbatamente a terra. Riuscì finalmente a sganciarmi il reggiseno, e, con l'unica mano libera che aveva, mi fece scendere una spallina alla volta dalle spalle, mettendosi con le ginocchia ai lati dei miei fianchi, visto che non aveva più quell'ingombrante asciugamano a ostruirgli le manovre. Quanto mi batté forte il cuore quel giorno, quante farfalle avvertii infestarmi lo stomaco, quanto mi tremarono le mani e le gambe, e quanto era accelerato il mio respiro quel giorno, non lo sono stati mai più. Lanciò anche il reggiseno in un angolo sperduto della camera, e mi lasciò umidi, lunghi e languidi baci sul collo, mentre mi faceva scivolare via anche l'ultimo indumento che impediva quell'ormai inevitabile contatto tra di noi dalle gambe. Dio, quanto andava veloce il mio cuore. Si fermò un attimo, con l'affanno e le gocce di sudore - che si confondevano con quelle dovute alla doccia - che gli imperlavano la fronte, il volto e il petto. Mi guardò come non mi aveva mai guardata nessuno prima di lui, e come mai mi ha guardata nessuno più.
"Celeste... Sei la creatura più bella che abbia mai visto" mi confessò, e il mio cuore si stoppò per un secondo soltanto, per poi ricominciare a battere a velocità supersonica.
Lo afferrai per le spalle e lo attirai di nuovo a me, ricongiungendo le nostre labbra, seppure sentissi le mie pulsare e far male per la possessività e per la passione che traspariva da quei baci. Avevo il cuore in gola, e tutto si intensificò quando, titubante e con qualche esitazione, attentamente e lentamente, come se avesse avuto paura di rompermi o che mi sbriciolassi da un momento all'altro, entrò dentro di me. Senza protezioni, senza precauzioni e senza prevenzioni. Nel modo più naturale e istintivo possibile. I nostri cuori stavano dirigendo un'orchestra, intonando, a suon di tamburi, la stessa melodia, e fu in quel momento che diventammo una cosa sola: un solo corpo, una sola anima e un solo respiro. Sì, alla fine gli avevo servito il mio cuore su un piatto d'oro, nemmeno d'argento. E, sì, sapevo che ciò non mi avrebbe portata a nulla di buono, ma non me ne importai, malgrado mi sentissi come Prometeo: ladro di qualcosa che non gli apparteneva di diritto, consapevole del proprio misfatto e delle conseguenze catastrofiche del suo gesto. Ma ero felice. Estremamente felice. Schifosamente felice. E il vuoto perenne che portavo in petto sembrò colmarsi: almeno per quel momento, almeno per quella sera, mentre lui affondava maggiormente in me con ogni minimo movimento, seppure quella a sentirsi in alto mare fossi decisamente io.
"Cazzo, Celeste, quanto ti amo" gli scappò, mentre, in un connubio di ansiti e gemiti, perfettamente in sincronia, raggiungevamo il limite insieme.
"Avrei tanto voluto che tu fossi stato il primo, Peter" scappò a me, invece, in riferimento a tutti i ragazzi con i quali ero stata in precedenza, mentre si accasciava al mio fianco e si preoccupava di coprire entrambi con quelle orrende lenzuola.
Mi baciò una tempia e mi trasse a sé. Mi lasciai abbracciare, poggiando entrambe le mani sul suo petto e baciandoglielo, realizzando che, sì, Peter non era certo il primo ragazzo con il quale avevo avuto un rapporto, ma era il primo con il quale avevo fatto l'amore. Perché, sì, con Peter era stato amore, in tutte le sue salse, connotazioni, sfaccettature e sfumature. Perché lui mi amava e io finalmente ne avevo la conferma. Perché io amavo lui, ma lui, no, non lo sapeva.
×××
Rimanemmo a lungo in quella posizione, senza parlare, con soli i nostri respiri che facevano discorsi che capivano soltanto loro, e il rumore quasi percepibile delle rotelle nelle nostre teste che giravano vorticosamente, segno dei troppi pensieri che ci annebbiavano la mente in quel momento. Era stato magnifico. Non avevo mai provato niente di simile in vita mia, ma era una sensazione davvero, davvero bella. E mi augurai inconsapevolmente di poterla provare altre volte. Peccato che non è mai stato così. Fummo costretti a riporre tutto velocemente a posto e a rimetterci in sesto in un battito di ciglia, quando sentimmo sbattere la porta di casa, segnale che ci preannunciava che non eravamo più soli. Quando sembrò che avessimo assunto un aspetto quantomeno presentabile - per non dire "non post-coito" -, scendemmo le scale per salutarvi, uscendo da quella stanza che ormai profumava di noi (ma ci eravamo premurati di aprire la finestra, per fare in modo che non se ne accorgesse nessun altro a parte io e lui). Tu eri radiosa, zia, davvero. I tuoi occhi azzurri, che ci hanno sempre accumunate, mi sembravano più vispi e allegri del solito, ed eri sicuramente più rilassata, felice e contenta. Forse me ne accorsi solo io, però. Milah sembrava sempre più grande della sua effettiva età, e gli occhi scuri come i suoi capelli, legati in un ordinatissimo chignon, le conferivano l'aria austera e di supremazia che l'ha sempre caratterizzata. E di certo lei non mi riservò la tua stessa accoglienza. Da parte sua due baci sulle guance erano già eccessivi. Tu invece mi saltasti addosso e mi avviluppasti in uno dei tuoi soliti abbracci spaccaossa, che ho sempre amato alla follia. Mamma mi serbò la stessa accoglienza che mi aveva dedicato Milah, ma me l'aspettavo. Speravo che avremmo potuto chiarire al più presto, in verità. Non mi risparmiasti le tue solite battutine, quando ti rendesti conto del fatto che mi fossi tinta i capelli. Ti ricordi? Milah fece finta di non notarlo. Peter ti piacque da subito, questo lo ricordo bene. Anche se, poverino, lo riempisti di domande fino a rincitrullirlo. Mamma riuscì a recitare bene quanto papà, anche se non è che gli rivolse chissà che attenzioni. Tutto il contrario di quello che facesti tu, insomma. A Milah non faceva né caldo né freddo: non sapevo se mamma e papà non l'avessero redarguita sulla questione, o semplicemente non se ne fregasse e basta. Ci mettemmo subito a tavola, perché stavamo morendo un po' tutti quanti di fame. Quando papà ci domandò cosa avessimo fatto, durante la vostra assenza, da essere talmente impegnati da non avere neppure il tempo di apparecchiare, io e Peter diventammo letteralmente bordeaux. Tu scoppiasti a ridere, ma io volevo sparire. Fortunatamente cogliesti al volo i segnali e lo distraesti, cambiando argomento. Non te ne sarò mai abbastanza riconoscente. Ci incaricarono di distribuire le pizze. E rammenti cosa mi dicesti, in quel frangente?
"Ho già parlato con i tuoi genitori, e, naturalmente, non sono d'accordo, però ci si può sempre lavorare. Ma, appena mi è venuta quest'idea, ho pensato di dovertelo proporre subito. So che hai sempre avuto una passione per i disegni, soprattutto per i graffiti, sbaglio? Ecco, c'è Jean-Paul, quest'uomo che ho conosciuto, che è proprio in cerca di nuovi talenti, e..." preludesti, ma io non ti lasciai terminare, felice come una pasqua.
"Davvero? Sarebbe fantastico, zia, mio Dio!" squittii, entusiasta, mentre eravamo ancora in cucina e gli altri ci attendevano a tavola, in sala da pranzo, forse domandandosi che fine avessimo fatto.
"Sì, lo so! Sarebbe meraviglioso, e poi, cavolo, la Francia: io ho sempre adorato Parigi!" ammettesti, con voce sognante, facendo sgretolare la terra sotto i miei piedi.
"Parigi...?" ti domandai ingenuamente, quasi come ad auspicarmi di aver capito male.
"Beh, sì, Jean-Paul è francese, e lavora prevalentemente in Francia. Ci siamo incontrati in Australia, perché anche lui era lì in viaggio, e... Ehi, c'è qualcosa che non va?" ti informasti a un certo punto, forse percependo il mio repentino cambio d'umore.
Oh, zia, non ci avrei pensato due volte a dirti di sì, se non ci fosse stato lui a tenermi ancorata così saldamente lì. Perciò, quando tu seguisti il mio sguardo, inquadrato sul ragazzo dai capelli ramati che rideva a una battuta sicuramente stupida di papà, al di là della porta a vetri trasparenti che dava sulla sala da pranzo, e asseristi: "Oh... Allora è una cosa più seria di quanto pensassi...", io non potei fare altro che assentire. Perché lo amavo con ogni singola particella del mio corpo, gli avevo donato me stessa e, no, non l'avrei lasciato mai e poi mai. Non dopo averlo ritrovato dopo sei anni passati in sua assenza. O, almeno, questo era quello che continuavo fermamente a ripetermi. Ma, ribadisco, le cose non sempre vanno come ci si aspetta che vadano, giusto? Anzi, non vanno mai come ci si aspetta che vadano. E questo io e te dovremmo saperlo bene.
"The time is right, your perfume
Fills my head, the stars get red,
And, oh, the night's so blue.
And then I go and spoil it all
By saying something stupid
Like I love you".
N/A
Vi dirò: sono stranamente molto soddisfatta di questo capitolo 😍
P.S. Fatemi sempre sapere cosa ne pensate, eh 😘
Un bacio,
Rita
Capitolo revisionato.
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