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24. Where Have You Been

"I've been everywhere, man,
Looking for you, babe,
Looking for you, babe,
Searching for you, babe".

Mi risvegliai tra le sue braccia, il giorno successivo. Avevo molto caldo, e il pigiama mi si era praticamente attaccato addosso, ma non mi mossi di un centimetro, quando aprii gli occhi, assaporando la pienezza di quel momento. Il suo profumo mi riempiva i polmoni, e percepivo il suo petto fare su e giù contro la mia schiena. Avevo un suo braccio attorno al bacino e il suo respiro fra i capelli. Dormiva proprio profondamente. Dalle finestre filtrava qualche debole raggio di luce che illuminava la stanza, ma la sveglia non era ancora suonata, quindi dovevano essere ancora le sei di mattina o giù di lì. Provai cautamente a sottrarmi alla sua presa d'acciaio e a voltarmi verso di lui, in modo da sfruttare a mio favore quei pochi minuti che avevamo ancora - prima di riprendere la solita routine quotidiana - per osservarlo dormire. Ma, quando mi tentai di rimuovere il suo braccio di dosso, mi strinse ancora più forte, come se avesse avuto paura che scappassi. Trattenni il respiro (non per altro, ma perché mi stava a dir poco soffocando). Ci riprovai, ma con scarsi risultati. A quel punto ebbi un'intuizione - cosa molto strana, visto che a prima mattina il mio cervello non connette proprio.

"Lo so che sei sveglio" lo smascherai, e lo sentii emettere dei mugolii di dissenso.

Ridacchiai e cercai di scansare il suo braccio ancora una volta, ma era decisamente troppo più forte di me perché riuscissi a smuoverlo anche di una singola virgola. Sbuffai, e a quel punto allentò la presa, permettendomi di non dargli più le spalle e di girarmi a guardarlo negli occhi. Si era addormentato con ancora i vestiti del giorno prima addosso. Anche se "vestiti" non è il termine adatto, visto che era in jeans e canottiera. Avevamo preso sonno poco dopo quel bacio, cullati l'una dalle braccia dell'altro. Stavo per gioire del fatto che, dopo tanto tempo, avessi finalmente trascorso una notte senza incubi, ma poi rammentai quel sogno assurdo e mi accigliai. Ero così persa nei meandri della mia mente, che non mi accorsi neppure di quanto fossimo effettivamente vicini, e di come mi stesse fissando. Aveva uno sguardo strano, che non riuscivo a interpretare. Mi guardava come se non avesse mai guardato altra ragazza al di fuori di me. Era uno sguardo pieno di tanti di quei sentimenti, che non saprei elencarli. Mi sentii in imbarazzo, soprattutto perché nessuno mai mi aveva guardata a quel modo, e percepii un'inspiegabile agitazione farsi spazio dentro di me. In quel momento constatai che era la seconda volta in vita mia che dormivo con un ragazzo senza averci prima fatto sesso. Non riuscivo a spiegarmi perché con Peter dovessi sempre stravolgere tutti quelli che erano i miei "principi" e le mie abitudini. Mi sorrise amorevolmente, e fece per avvicinare il viso al mio, molto probabilmente per baciarmi. Se avessi dovuto spiegare in quel momento cosa fu che mi fece allontanare istintivamente dal suo viso e alzare speditamente dal letto, non l'avrei saputo fare. Ma ora, a mente lucida, ripensandoci dopo tutto questo tempo, so per certo che si trattava di qualcosa al di sopra delle mie capacità di comprensione. All'epoca la maggior parte delle cose che facevo non avevano una vera e propria spiegazione logica: erano semplici istinti, o almeno era quello che continuavo a ripetermi.

"Va tutto bene?" domandò, stranito, sorreggendosi sui gomiti, sollevandosi tanto quanto bastava perché fossi nuovamente sul suo raggio visivo.

Annuii, mentre raccattavo da sotto il letto le mie scarpe e me le infilavo alla velocità della luce. Arraffai il giubbino da terra (probabilmente doveva essere caduto dal letto durante la notte, altrimenti non c'era altra motivazione valida che giustificasse il perché si trovasse lì) e me lo misi ancora più rapidamente. Mentre ero intenta a litigare con una manica - perché non riuscivo a trovarla e a ficcarmi correttamente il giubbotto -, lo vidi balzare su dal letto e avvicinarmisi con uno scatto felino che, per essere prima mattina, fu veramente sbalorditivo. Si posizionò dietro di me e guidò il mio braccio all'interno della manica, per poi afferrarmi per le spalle e farmi voltare verso di lui. Quando incontrai i suoi occhi mi mancò il respiro. Mi chiesi perché con lui per qualsiasi cosa dovesse sempre sembrare la prima volta. Aggrottò le sopracciglia e quasi mi parve che il suo sguardo avrebbe potuto bucarmi l'anima.

"Sei sicura che sia tutto okay? Ho detto o fatto qualcosa di male senza accorgermene? Mi dispiace, se così è stato, ma, ti prego, non andare via. Resta un altro po' con me" mormorò, con la voce, resa più rauca dal recente risveglio, che mi fece completamente sciogliere tra le sue braccia.

Lo aveva fatto ancora. Non capivo perché continuasse a scusarsi con me anche se quella che sbagliava sempre ero io. Scossi la testa e gli accarezzai una guancia con una mano. Si rilassò visibilmente sotto il mio tocco, perché chiuse gli occhi e la gruccia tra le sue sopracciglia svanì, ma la sua espressione stanca e confusa no. Sospirai e gli lasciai un bacio sulla guancia destra.

"È meglio che vada, invece" sussurrai, distanziandomi lentamente da lui e sbrigandomi a uscire il prima possibile da quella stanza.

×××

"Posso farti una domanda?" indagai, di punto in bianco, mentre era visibilmente molto concentrato a sottolineare con un evidenziatore tutto ciò che poteva.

Mi osservò con un po' di malcelata diffidenza, ma annuì. Tanto gliel'avrei chiesto lo stesso, qualunque fosse stata la sua risposta. Mi presi qualche attimo per riuscire a trovare le parole adatte da adoperare, ma lui mi precedette prima ancora che potessi anche solo fiatare.

"No, Celeste, non ti ripeterò per la quinta volta il concetto del pensiero di Parmenide. Sono due ore che non vuole entrarti in testa, e penso che, se non ti impegni, sia abbastanza inutile ripeterlo fino allo sfinimento" dichiarò, serio, indorando la pillola con una leggera risatina per sdrammatizzare.

Era vero, stavamo ripetendo filosofia da più di due ore, dato che avevamo deciso di comune accordo di cominciare dalla materia del signor Harris, siccome sembrava avere una particolare fissazione per me. Però non era a quello che mi riferivo. Probabilmente ciò che determinava la mia scarsissima concentrazione era la domanda che volevo porgli. Così stabilii di togliermi velocemente il sassolino dalla scarpa: via il dente via il dolore, come si suol dire.

"Dove sei stato per tutto questo tempo?" inquisii, con voce tremante, perché non l'avrei mai ammesso, né a me stessa né a nessun altro, ma la risposta a quel quesito era davvero fin troppo importante, per la sottoscritta.

Sbuffò e roteò gli occhi al cielo, palesemente irritato dalla mia spiccata curiosità. Mi preparai al peggio, ma, più di tutto, a uno scontro acceso, perché, che cavolo, avevo tutto il diritto del mondo di sapere. Anche se una discussione in biblioteca non sarebbe stata raccomandabile, poiché avevo ancora un conto in sospeso con quell'odiosissima bibliotecaria - che avevo molto poco elegantemente mandato a quel paese. Inoltre, a solo qualche tavolo di distanza da noi, c'erano Mike, Lindsay, Abigail e Peter, che studiavano indisturbati, lanciandoci qualche occhiatina indiscreta ogni tanto pensando di non essere notati.

"Celeste..." preluse, evidentemente seccato, incatenando gli occhi ai miei.

Erano di un blu più scuro del solito, ma ciò che mi saltò subito all'occhio fu la sua mascella tesa. Avevo imparato a capire che era un'espressione che assumeva spesso quando si alterava o qualcosa non gli andava a genio.

"Lo so. Cavolo, so che non vuoi parlarne. So che la cosa ti innervosisce particolarmente - per qualche assurdo motivo -, e ti ho ascoltato, ieri, quando mi hai detto di voler pensare solo al presente, al futuro e tutte quelle stronzate lì. Ma io non sono come te. Io ho bisogno di sapere, per la miseria! Forse non hai capito che io non ci dormo più la notte. Che seguito a sognare il viso di quel maledetto bambino ogni singola volta che chiudo gli occhi. Che ogni santissima volta che lo faccio mi si proiettano in mente ricordi di una vita che sembra non appartenermi. Io non ce la faccio più, Dave. E lo so, tu odi l'argomento, per qualche ragione a me ignota, ma per me è importante. Incredibilmente importante. Incredibilmente troppo importante. Ho passato la maggior parte della mia adolescenza a sperare di scordarti. E ce l'avevo maledettamente fatta. Poi vengo qui e incominciano quei sogni insensati, e l'incubo continua. Forse non avevo preso in considerazione l'idea che il mio cuore non si sarebbe mai e poi mai scordato di te. Ho bisogno di sapere, perché non ne posso più, e se davvero vuoi chiudere quel capitolo della tua e della mia vita, ti chiedo solo di soddisfare le mie curiosità. Purtroppo dimentico sempre di scordarti, ma cosa ci posso fare, se hai significato così tanto, per me?" confessai, a voce decisamente più alta del consono, visto che si girarono tutti a guardarmi con gli occhi spalancati.

Persino l'allegra combriccola. Peter era totalmente sbiancato. Sembrava che tutti i colori si fossero prosciugati dal suo viso. Stava stringendo i pugni così forte, che la pelle delle sue nocche era diventata più pallida di un cencio. Si alzò dalla sedia su cui era seduto e, quando pensai che stava per venirci incontro e intromettersi nella discussione, girò l'angolo e se ne andò, uscendo dalla biblioteca sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti. Sguardo che presto venne riportato su di me. Non mi era ancora chiaro perché ogni volta che c'era lo zampino di Dave Peter impazzisse. La vecchia e raggrinzita bibliotecaria mi venne vicino con sguardo minaccioso e mani sui fianchi. Alcuni capelli grigi erano sfuggiti alla presa della pinza, che reggeva una cipolla malfatta, e le pendevano un po' da tutti i lati. Gli occhiali le erano scesi fino alla punta del naso, e il vestito viola sbiadito a fiorellini non si accordava proprio alla sua espressione di quel momento. Pronunciò lo "Shh" forse più lungo e sonoro di tutta la sua vita, abbastanza eloquente da farmi curvare nuovamente sul mio libro, a leggere frasi a caso. Ma vedevo solo un susseguirsi di linee nere disordinate. Quando l'ordine sembrò essersi ristabilito, e ognuno tornò alle proprie mansioni, rialzai lo sguardo su Dave, che aveva già il suo puntato su di me.

"Sono stato un po' in giro, okay? Sono andato in Europa. Sono tornato qui da quasi due anni, da quando ho iniziato a studiare in questo campus. Quando ti ho vista non ti ho riconosciuta, e poi non sapevo il tuo nome, perché ero solo stato incaricato di radunare le matricole, non era necessario che conoscessi i nomi di tutti. Non ti ho riconosciuta, però mi eri familiare. Ho chiesto a Lindsay il tuo nome e ti ho invitata a quella festa, punto" esordì, alquanto scocciato, lasciandomi a bocca aperta.

Finito il suo "sproloquio", si dedicò nuovamente al suo beneamato libro, senza più degnarmi di uno sguardo.

"No, aspetta, fammi capire: sapevi chi fossi, e hai deciso comunque di fare quello che hai fatto in quel corridoio?! Ti rendi conto di quello che stai dicendo?! A saperlo avrei provveduto con più di un semplicissimo e insulso scambio di bagnoschiuma: ti meritavi di ustionarti sotto il getto d'acqua bollente! Non ci posso credere" mi lasciai scappare, sconvolta, portandomi le mani nei capelli e trattenendomi dall'impulso di sbattere ripetutamente la testa contro il tavolo per dimenticarmi quello che avevo appena appreso.

Sgranò gli occhi e schiuse la bocca, anche se non so da quale parte del mio discorso fosse effettivamente rimasto colpito.

"Sei stata tu?" la sua voce uscì fuori come un sussurro a malapena udibile, più sbigottita di quanto desse a vedere.

Lo guardai negli occhi, mi alzai dalla sedia, gettai disordinatamente tutte le mie cose nello zaino, e ammisi, con voce grave: "Sì, e non mi pento di niente", prima di girare i tacchi e andar via. Non mi importava se mi ero appena giocata il passaggio per andare da Babs': ci sarei andata con il pullman, in fondo prima o poi avrei dovuto imparare a cavarmela da sola.

×××

Il weekend di quella stessa settimana tenni fede alla promessa e andai a trovare mamma e papà. Non volevo che papà affrontasse un viaggio tanto lungo per venirmi a prendere, così come non volevo rifare un torto del genere anche a Colin (al quale, tra l'altro, volevo fare una sorpresa, quindi non sapeva nulla del mio imminente ritorno). Per cui presi l'autobus. Quest'ultimo, però, non aveva fatto altro che peggiorare la confusione che già avevo in mente, perché il viaggio estremamente lungo mi aveva permesso di riflettere più del dovuto. Quella volta nemmeno la musica era riuscita a distrarmi dai miei pensieri. La tesi di Dave faceva acqua da tutte le parti, ed ero sempre più portata a credere che mi stesse nascondendo qualcosa. Non riuscivo a dubitare che quel bambino fosse lui - nonostante lo desiderassi ardentemente -, perché altrimenti sarebbe stato inspiegabile il fatto che fosse a conoscenza di tutti quei dettagli così intimi e personali. La morale della favola è che arrivai a casa con un mal di testa allucinante, e senza aver pensato minimamente a cosa dire a mamma e papà. Avevo pattuito una sottospecie di tregua con Dave, ma solo per egoismo, dato che senza il suo aiuto non avrei mai passato gli esami che ci sarebbero stati proprio quel lunedì. Per il resto avevo evitato Peter come la peste, ma, più che altro, non avevamo avuto tempo per stare insieme: di mattina c'erano le lezioni, il pomeriggio dovevamo studiare entrambi, e la sera, se io non ero da Babs' a lavorare, lui era da Billy & Denny's per suonare. Quindi la verità è che eravamo troppo impegnati entrambi. Il pullman non mi lasciò proprio sotto casa, naturalmente, quindi dovetti farmi un buon tratto di strada a piedi: cosa che aggravò ulteriormente - sempre se possibile - il tutto, perché il mio cervello non voleva proprio saperne di fare una pausa. Il vento mi agitava i capelli, e faceva sì che alcune foglie giallognole cadessero dagli alberi ai lati della strada e finissero sotto le suole delle mie scarpe. Il cielo era sereno: quella settimana il tempo era stato abbastanza clemente, e le giornate erano state tutte abbastanza soleggiate, per essere autunno. Il fruscio delle fronde mi faceva da colonna sonora, mentre, passo dopo passo, procedevo verso il patibolo. Qualcuno mi passava a fianco, qualcun altro mi sorpassava correndo velocemente verso una meta a me ignota, ma non stavo prestando particolare attenzione a nulla. Le case in mattoni rossi si susseguivano alla mia destra, e io ne aggiungevo una al conto ogni volta che la sorpassavo, per orientarmi meglio e capire quando sarei arrivata, anche se non avrei avuto bisogno di fare quel calcolo, ma volevo tenere la mente occupata. Una casa in mattoni rossi a destra, un lampione verniciato di verde a sinistra, sul bordo del marciapiede, che dava sulla strada in quel momento deserta. Seconda casa dalla porta in legno chiaro, seconda piccola siepe con rispettivo piccolo cortile ai piedi delle scale in marmo bianco che portavano all'ingresso principale, dalla porta in legno chiaro. Cercavo di imprimere nella mia mente ogni più piccolo dettaglio che riuscivo a scorgere, per smetterla di pensare a Dave e al dilemma di quel bambino maledetto. Arrivata alla quarta casa, sospirai, sollevata, e svoltai a destra. Mi appoggiai alla ringhiera nera e salii lentamente gli undici gradini che mi separavano dall'entrata. Non era molto tardi: era primo pomeriggio, perciò la lampadina del piccolo lampioncino sulla porta non era accesa. Ma le tendine di tutte le finestre che davano sulla strada erano abbassate. Benché ormai mi facessero male le spalle, mi aggiustai lo zaino, percependo subito il peso del suo contenuto farmi aumentare il mal di schiena. I due vasi di gerani a terra, ai lati della porta, erano più rigogliosi di come li avevo lasciati. C'era persino Pallina, la gatta cicciottella che era un po' di tutti, in quel quartiere, appollaiata in uno dei due. Le accarezzai la testa e lei fece le fusa. Ricordo che mi domandai perché tutti pensino che i gatti neri portino sfortuna. Scossi la testa, realizzando di star solo perdendo tempo, e suonai il campanello. Mi venne ad aprire papà, in tenuta da casa, con dei jeans trasandati, le sue adorate pantofole marroni e una maglietta blu scuro. Non si era fatto la barba, e i suoi capelli brizzolati sparavano in tutte le direzioni. I suoi occhi scuri erano più provati del solito. Mi fece un piccolo sorriso e spalancò maggiormente la porta per farmi passare. C'era un profumo diverso da quello a cui ero sempre stata abituata, e si espandeva per tutta la casa. Era alla cannella, mentre in precedenza era sempre stato al gelsomino. Mi levai il soprabito e papà lo appese all'attaccapanni a lato della porta.

"Tua madre è uscita per fare delle commissioni, ma dovrebbe tornare a momenti. Se devi posare qualcosa in camera, sai dov'è" mi comunicò, sorridendomi, per poi dirigersi in salotto, sedersi sul divano, e cominciare a leggere un libro, dopo le consuetudinarie domande di rito su come fosse andato il viaggio.

Lo seguii con lo sguardo, e non potei non notare quante cose fossero cambiate: i mobili erano disposti in tutto altro ordine, il che mi confuse un po'. Così chiesi a papà spiegazioni, e mi disse che mamma si era fissata con il feng shui - cosa al limite dell'incredibile, perché lei aveva sempre criticato quel "metodo assolutamente illogico di disporre i mobili", testuali parole sue, ce le ha ripetute fino alla nausea. Chi meglio di te potrebbe testimoniarlo? Presi lo zaino da terra, dove lo avevo poggiato per togliermi il cappotto, e salii al piano superiore, per sistemare le mie cose in camera. Passai accanto alla stanza di Milah, mentre ero diretta alla mia, e mi domandai se mamma avesse lasciato tutto com'era, o se avesse cambiato la disposizione degli oggetti anche lì. La curiosità di sapere come stessero andando le cose a quella sorella, con cui non ho mai avuto chissà che rapporto, e che non vedevo da un bel po', mi sfiorò la mente per qualche secondo. Io non ho mai approvato la sua decisione di andare a vivere in Italia, a Milano, a chissà quanti chilometri da casa. Ma lei ha sempre detto di voler seguire il suo sogno, e che è così che si deve fare con i sogni: se li si custodisce in un cassetto per sempre, poi fanno la muffa. Bisogna lasciare che si rinforzino giorno dopo giorno, per far sì che diventino reali. Ho sempre segretamente ammirato la sua forza di volontà e la sua caparbietà, ma non glielo direi mai e poi mai. Mi imposi di smetterla di fare continue passeggiate nel viale dei ricordi - anche perché, ultimamente, ne facevo davvero troppe - e proseguii verso la mia camera. Era tutto così come l'avevo lasciato, e come doveva essere. Su ogni parete bianca predominava un graffito diverso, e ognuno di loro si riferiva a un periodo diverso della mia vita. Mi è sempre piaciuto davvero tanto disegnare: sono automaticamente catapultata in un altro mondo, quando lo faccio, e a quel tempo era quello di cui necessitavo la maggior parte delle volte: evadere dalla realtà circostante. Quello era uno dei tanti sogni che avevo che, se ci fosse stata Milah con me, in quel momento, avrebbe detto che aveva preso più muffa di tutti (niente commenti o anticipazioni a riguardo! Non mi interrompere, dai). Sorrisi a quel pensiero e posi lo zaino sulla scrivania di fronte al letto, per poi buttarmi a peso morto su quest'ultimo. Osservai la galassia che avevo dipinto sul soffitto e sospirai. Lasciai cadere la testa su uno dei cuscini, e un oggetto che faceva capolino da dentro l'armadio socchiuso, sul lato sinistro della stanza, catturò la mia attenzione. Era un pupazzo di Pikachu, il Pokémon, alto almeno una trentina di centimetri. Balzai giù dal letto e andai a prenderlo, aprendo maggiormente l'anta scorrevole dell'armadio e scoprendo praticamente un mondo. Vista la mancanza di molti dei miei vestiti, siccome ne avevo portati un bel po' al campus, si era liberato dello spazio, che mamma si era premurata di riempire con un mausoleo di oggetti che si ricollegavano alla mia infanzia: probabilmente aveva voluto sgomberare il seminterrato. Mi sedetti a terra e accarezzai il morbido pupazzetto, sorridendo istintivamente quando mi ricordai in che occasione mi era stato regalato: era il mio quinto compleanno, e volevo per forza un peluche simile, perché ne avevo visto uno in un negozio, una volta, e da allora mi ci ero fissata. Me l'aveva regalato il bambino senza nome (ormai avevo rinunciato a chiamarlo "Dave". Mi rifiutavo proprio, dopo quella scenata in biblioteca). Era il suo preferito, eppure, per soddisfare un mio capriccio, e pur di farmi contenta, me l'aveva ceduto. Quello era stato anche il giorno in cui l'avevo baciato spontaneamente su una guancia per la prima volta, senza che me l'avesse chiesto lui prima. Sul sedere del pupazzo era ancora attaccata una di quelle targhette con le istruzioni per il lavaggio, su cui... Su cui erano incise, con una penna a inchiostro blu, due iniziali all'interno di un cuore. "P+C". Deglutii a fatica, e iniziai immediatamente a cercare qualcos'altro, all'interno di quell'armadio che si era appena rivelato essere una miniera d'oro.

"Celeste, tutto okay? Non vieni a farmi un po' di compagnia?" si informò papà, a gran voce, dal soggiorno.

"Sì, papà, mi sto dando una rinfrescata: dieci minuti e scendo" lo rassicurai, e lui non rispose, segno che aveva tacitamente acconsentito.

Mi inginocchiai e afferrai una cornice con un collage di foto. Ho sempre odiato le fotografie, perché le ritengo solo dei futili promemoria che portano rimpianti di momenti passati, ma in quel momento le considerai l'invenzione più bella del mondo. Il cuore cominciò a battermi all'impazzata, quando constatai che erano tutte foto di me e lui. Mi tremavano le mani, e il mio respiro era tutto fuorché regolare. C'eravamo io e lui con le divise della scuola materna, il nostro primo giorno. Noi al mare, sulla spiaggia, a fare un castello di sabbia insieme, con i braccioli alle braccia (sì! Ti ricordi quell'estate? C'eri anche tu!). Noi all'autoscontro, su due macchinine diverse che sembravano scontrarsi, ma in realtà eravamo fermi. Noi nella vecchia auto di papà, mentre fingevamo di guidarla e litigavamo per decidere chi dovesse muovere il volante. Noi al parco giochi, mentre ci rincorrevamo. C'erano una miriade di foto del genere, e ridevamo a crepapelle in ognuna. Mi sentii pervadere da un incredibile senso di nostalgia. Senza pensarci oltre, capovolsi la cornice e rimossi la bacheca di sughero. Con mio sommo dispiacere, dietro ogni foto non c'erano i nostri nomi, ma solo il mio, con accanto la data del giorno in cui era stata scattata. Sbuffai, contrariata, e rimisi tutto a posto. L'armadio era stracolmo di pupazzetti e cornici come quella. Non ne tralasciai neanche una: le smontai tutte, ma non ottenni quello che volevo. Quando, però, le cornici terminarono, e stavo seguitando a esplorare nel mio guardaroba, trovai quello che gli antichi Greci avrebbero definito: "il vaso di Pandora". C'erano un sacco di videocassette, disposte in ordine cronologico, che racchiudevano le riprese che mamma e papà mi avevano fatto da quando ero ancora solo nella pancia della mamma, fino ai miei undici anni. Mi si illuminarono gli occhi e sorrisi, al massimo della felicità, ma il rumore della porta d'ingresso che sbatteva mi fece desistere dall'appropriarmene. Riposi tutto esattamente al suo posto e mi preparai ad andare di sotto: era tornata mamma. So cosa ti starai domandando: "Ma perché, cavolo, non hai chiesto informazioni ai tuoi genitori, o a me? Ti avremmo chiarito subito le idee!". La verità è che non so perché non lo feci: non mi era neanche passato per la mente, determinata com'ero a voler svelare il "mistero" per conto mio e ad attribuire a me stessa in primis il merito della scoperta. Lo so, è un ragionamento idiota. E lo so, avrei risparmiato un sacco di tempo, fatica e problemi, ma, ehi, se fosse andato tutto "rose e fiori", io non sarei qui, adesso, no?

×××

"Colin, dobbiamo vederci assolutamente: devo parlarti" annunciai, talmente elettrizzata che non mi sopportavo quasi più.

"Ma ciao anche a te!" mi prese in giro dall'altro capo della linea, ridacchiando.

"Colin, non è il momento. Per favore, quando puoi venire qui?" gli chiesi, impaziente.

Non avevo per niente la forza di vedere quei video da sola. Sapevo che avrebbero contenuto le risposte a tutte le mie domande, e, per quanto avessi voluto conoscerle con tutta me stessa, il mio sesto senso mi stava dicendo che non avrei dovuto vederli. Ma pensavo che Colin avrebbe potuto attutire il colpo, qualunque fosse stato l'esito di quei filmini. Non so se avrei retto lo sconforto, se non mi avessero portata da nessuna parte e, anzi, mi avessero confusa ancora di più.

"Per 'qui' intendi a Princeton? Ma sono cinque ore di macchina! Non possiamo parlarne a telefono?" si lamentò, pigro come suo solito.

Sbuffai, perché ogni fibra del mio corpo reclamava la visione di quelle cassette, e lui mi stava facendo perdere troppo tempo.

"Sono a Boston, a casa dei miei. Ti aspetto tra massimo cinque minuti alla finestra. A dopo" gli comandai, telegrafica.

"Piccola stronzetta, vieni qui e non mi dici..." preluse, ma attaccai prima che potesse proseguire.

Alla fine l'incontro con mamma non era andato come papà si aspettava, perché mi aveva a stento rivolto la parola, e aveva fatto osservazioni sarcastiche riguardo ogni cosa sul college a cui accennavo, tanto che alla fine mi ero esaurita e mi ero stata zitta per tutto il resto della giornata e della cena, per la sua gioia. Papà era rimasto abbastanza deluso, ma mi aveva detto che sperava ancora che il giorno dopo lei avrebbe cambiato atteggiamento. Sapevamo entrambi - e tu più di tutti - che si comporta spesso da bambina immatura, in certe occasioni, quindi lui mi aveva suggerito di darle tempo e vedere come sarebbe andata. In quel momento ero di nuovo sul mio letto, a mordicchiarmi le unghie (cosa che di solito non faccio mai) per il nervosismo. Mi ero morsa il labbro inferiore così tante volte, e con così tanta forza, che aveva incominciato a sanguinare, e il sapore metallico del sangue mi invase la bocca. Era mezzanotte passata, ma solitamente io e Colin ci vedevamo a quell'ora, quando andavamo al liceo: lui riusciva a sgattaiolare fuori casa senza svegliare i suoi genitori e quella piccola peste di Ronan, suo fratello, e poi mi avvisava del suo arrivo facendomi uno squillo sul cellulare. Io gli aprivo la finestra, e lui faceva una serie di acrobazie per arrivare fino in cima senza rompersi l'osso del collo, cadendo rovinosamente all'indietro. Erano già passati più di cinque minuti, e di lui non c'era neppure l'ombra. Stavo per chiamarlo e vomitargli addosso tutti gli insulti di questo mondo, ma il cellulare trillò, per sua grandissima fortuna, così mi alzai e andai ad aprire la finestra, aiutandolo poi a tirarsi su.

"Dobbiamo andare nel seminterrato, non c'è tempo, Colin" decretai, trascinandolo per un braccio, intimandogli di fare silenzio per non destare i miei.

"Vedo che ormai ti sei scordata anche le buone maniere, da quando te ne sei andata. Grazie per avermi chiesto come sto. Non me la passo tanto male, tu che mi racconti?" mi sfotté, ridacchiando e roteando gli occhi al cielo.

"La finisci?! È una cosa seria, stavolta, Colin, veramente" lo implorai, tappandogli la bocca e continuando il mio percorso verso il seminterrato, con solo la fioca luce di una torcia, che avevo raccattato dalla cassetta degli attrezzi di papà, a illuminarci il cammino.

Dovette capire che ero seria dal mio tono di voce, perché lo sapeva che c'erano occasioni in cui non scherzavo per niente, e quella ne faceva parte.

"Ma io mi cago sotto di andare nel seminterrato" protestò, con la voce meno sicura di prima.

"Non mi interessa: la Tv che legge le videocassette è lì. Ho già portato tutto il materiale necessario, incluse le scorte di quello schifo di cioccolata al latte che ti piace tanto" tentai di persuaderlo, mentre scendevamo le scale e cercavo la chiave, tra quelle del mazzo di papà, che avrebbe aperto la porta.

Rimase in silenzio, e pensai di averlo convinto. Accesi l'unica fonte di luce, tirando una cordicella che pendeva dal soffitto, e spensi la torcia. A differenza di ogni seminterrato che si rispetti, il nostro era quasi più immacolato del resto della casa, e tutto era disposto secondo un ordine che definirei quasi maniacale - hai sempre preso in giro la mamma per questo, vero? Colin non si accontentò della cioccolata e, naturalmente, volle sapere cosa fosse successo. Così, seduti sul vecchio e malandato divano che era in salotto prima che i miei ne comprassero uno nuovo e spedissero quello lì, mentre ci strafogavamo, gli raccontai tutto per filo e per segno, senza tralasciare neppure un dettaglio. Gli narrai la storia dal principio, di come avevo incontrato Dave, delle cose che mi aveva fatto e detto, e del fatto che si fosse spacciato per il bambino misterioso di cui mi ero innamorata anni addietro (ma quella storia già la conosceva fin troppo bene). Ascoltò tutto attentamente, molto attentamente, facendomi anche qualche domanda, ogni tanto, per avere dei chiarimenti.

"Quindi ora vuoi vedere quei video perché pensi che ti stia mentendo?" indagò, addentando l'ennesimo pezzo di cioccolata.

"Esattamente" asserii, conferendo solennità alla mia affermazione con un cenno del capo.

"Che figata, questa storia è quasi più entusiasmante di White Collar! Ho detto 'quasi', eh. Anche se ci sono rimasto male quando..." attaccò, sparando a raffica una frase dietro l'altra, ma lo frenai in tempo.

"Sì, sì, okay, ho capito. Allora, Sherlock, ti va di giocare ai piccoli detective?" gli proposi, speranzosa.

"Non aspettavo altro, Watson" accettò, facendomi scoppiare a ridere per il modo convinto e serio in cui lo disse.

×××

Due ore e mezza e una serie infinita di barrette di cioccolata dopo, eravamo ancora a un punto morto. Avevamo saltato i video di quando ero grande quanto - se non meno di - un fagiolo, perché dubitavamo entrambi che avessi incontrato quel bambino quando ero ancora nella pancia di mamma e il ginecologo le faceva le ecografie. Eravamo partiti direttamente dai video di quando avevo pochi mesi, sorbendoci tutti i miei pianti, sorrisi e pappe dal primo all'ultimo. Gli occhi mi bruciavano, avevo il sedere del tutto indolenzito, ma non avevo la minima intenzione di smettere di guardare. Volevo arrivare fino in fondo a quella maledetta storia, in modo da poterci mettere un punto definitivo. Quello che non sapevo era che, altro che punto, quello era solo l'inizio. Sentii Colin russare al mio fianco, così gli diedi una piccola gomitata per risvegliarlo. Grugnì, lagnandosi, e riaprì gli occhi di malavoglia. Sbadigliò rumorosamente, e mi accarezzò con il pollice il dorso della mano che mi stava stringendo. Sorrisi, mentre continuavo a guardare una piccola Celeste che rideva, perché papà stava agitando in aria un sonaglino a forma di cagnolino, e ripensai a quando avevo conosciuto Colin. Era la festa per i miei sedici anni, e mamma aveva deciso di fare le cose in grande, perché diceva che i Dolci Sedici non si scordano mai, e perché di lì a poco avrei preso la patente, il che era un evento alquanto significativo. Aveva invitato praticamente tutta la mia scuola - quindi un sacco di persone che non conoscevo per niente - in un locale in centro, adibito proprio a quel genere di eventi. Per farla breve, eravamo entrambi ubriachi, e, dopo aver ballato insieme qualche canzone, ci eravamo baciati, e avevamo finito col fare sesso in uno dei putridi bagni antigienici di quel postaccio. Il giorno dopo nessuno dei due ricordava nulla della sera precedente, ma la cosa fantastica fu quando mi confidò di essere omosessuale, e scoppiammo a ridere a crepapelle, perché realizzammo che avevamo entrambi perso la verginità con la persona "sbagliata". Da quel giorno siamo diventati praticamente inseparabili.

"Celeste, sto morendo di sonno. Non ce la faccio veramente più, mi si chiudono gli occhi. Mica ti dispiace se vado a dormire? Possiamo continuare domani" mi pregò, stropicciandosi gli occhi e sbadigliando ancora.

Annuii, e lui mi diede un bacio su una tempia, prima di augurarmi la "buonanotte" e sgattaiolare fuori da quel luogo che odorava sempre più di chiuso. Rimasi sola, e anche l'unica lampadina presente stava per abbandonarmi, perché si accendeva e spegneva a intermittenza. Sospirai, pensando che forse era meglio andare a dormire, quando una frase della mamma nel video mi fece sollevare di scatto lo sguardo sullo schermo.

"Guarda, Celeste, perché non vai a giocare con quel bimbo? È tutto solo, vorrà un po' di compagnia".

Spalancai occhi e bocca quando realizzai che la mamma aveva ripreso il nostro primo incontro. La qualità del video non era proprio ottimale, ma si riuscivano a distinguere quantomeno le figure. Eravamo in un parco giochi. Il bimbo aveva i capelli molto più chiari di quelli di Dave. Gli occhi non riuscivo a vederli bene. Controllai la custodia della cassetta, dove c'era scritto, con un pennarello indelebile nero, il mio nome e l'anno in cui era stato girato. Avevo due anni. Assentii, contenta, alle parole della mamma, e mi diressi dal bimbo saltellando. Lo salutai, ma lui mi girò le spalle e continuò a giocare con il suo aeroplanino di plastica. Mi imbronciai, perché mi stava ignorando, e sentii la mamma incitarmi a riprovare. Picchiettai, così, una mano sulla spalla del bimbo, che, visibilmente infastidito (fin lì quasi mi ricordava Dave), si voltò a guardarmi. Io assunsi un'espressione gioiosa e cominciai a gridare: "Pika, pika!" riferendomi e indicando la sua magliettina blu con stampato un disegno di Pikachu. Lui sorrise, e mi offrì di giocare con lui e il suo aeroplanino. L'avevo conquistato con così poco, e risi al pensiero. Poi il video terminò, e se ne avviò un altro. Eravamo di nuovo in quel parco, ma con vestiti diversi.

"Celeste, con chi stai giocando?" mi domandò la mamma, e il mio cuore perse un battito, per poi riaccelerare tutto in una volta.

"Con Pika, mamma" risposi, imperturbabile, concentrata com'ero a formare assieme a lui collane con i fili d'erba.

Mi mandai mentalmente a quel paese, però la mamma non si arrese, e mi chiese ancora: "Non si chiama così, Celeste. Come si chiama quel bambino?" insisté, ridacchiando leggermente. Il mio respiro accelerò, e il mio battito cardiaco pure.

"No, io lo chiamo Pika. A lui piace, vero?" contestai, e lui acconsentì, serissimo in volto.

Soffocai un urlo, frustrata, e sbuffai molto rumorosamente. Così mi spiegai il perché della P scritta accanto alla C sulla targhetta del pupazzo. Che soprannome idiota, continuavo a pensare. La scena finì e, al suo posto, se ne aprì un'altra, mentre lui faceva skateboard e io gli correvo dietro ridendo. A un certo punto, però, cadde a faccia a terra, e io strillai, spaventata. La mamma lasciò andare la telecamera, che si posò a terra molto indelicatamente, ma continuò a riprendere. Si intravedeva il bimbo che piangeva come un matto, con il sangue che gli scendeva a flutti dal naso e... dal labbro superiore. Aggrottai le sopracciglia, cercando di ricordare perché stessi avendo una sottospecie di déjà-vu alla vista di quella scena.

"No, no, tesoro, non piangere, te ne prego" lo supplicò mamma, in preda al panico, e la piccola me stava per incominciare a piangere a sua volta, visto che lui non la smetteva più.

Scesi dal divano e mi inginocchiai a terra, a pochi centimetri dallo schermo, con il cuore che mi batteva talmente tanto forte da sentirmelo in gola.

"Facciamo una cosa: che ne dici se ci andiamo a prendere un grande e grosso gelato? Puoi scegliere tutti i gusti che vuoi" provò a consolarlo ancora mamma, mentre gli tamponava le ferite con un fazzolettino che aveva preso dalla sua borsa.

Caduta. Pianto. Gelato. Caduta. Pianto. Gelato. Caduta. Pianto. Gelato... Erano le uniche parole che mi vorticavano in testa in quel frangente.

"Oh, cazzo" bisbigliai, facendo, finalmente, due più due.

Mi portai le mani a coprirmi le labbra, che più spalancate non potevano essere, e sgranai gli occhi, che mi si fecero subito lucidi. Tremavo. Letteralmente. Il cuore aveva smesso per un secondo di battere, ma poi era ripartito come un trapano. E tutti i miei sospetti si confermarono quando la piccola Celeste domandò dolcemente: "Mamma, se Pika ha il gelato, posso averlo anch'io?", e mamma rispose: "Certo, tesoro, che se Pete... che se Pika ha il gelato puoi averlo anche tu". Mi sorrise, per poi allontanarsi da lui e andare a spegnere la videocamera. La proiezione si interruppe, e lo schermo si fece bianco e nero.

"Oddio..." sibilai, sconcertata.

Senza rifletterci e senza neanche appurare che ore fossero, arraffai il cellulare dal divano e composi il numero di Colin.

"Ma porca puttana, Celeste, sono le tre del mattino, per l'amor del cielo!" mi sgridò non appena rispose.

Non ero nemmeno capace di articolare una frase sensata. Le parole mi morirono in gola.

"Celeste...?" richiese, preoccupato, vedendo che non davo segni di vita.

"Colin... È Peter. Peter è quel bambino" asserii, e dirlo ad alta voce faceva tutto un altro effetto.

Lo sentii risucchiare un respiro, ed era quello che stavo facendo anch'io, mentre il cuore mi pulsava ancora velocissimo e la consapevolezza si
faceva spazio dentro di me.

"Where have you been?
'Cause I never see you out .
Are you hiding from me, yeah,
Somewhere in the crowd?".

N/A

Ora partirà un coro di: «Ma io lo sapevo!!» e di «Ma come cavolo è possibile? E Dave?» ma non vi preoccupate: ogni cosa al suo tempo ;)

Ci sono un paio di cosine che vorrei domandarvi, a parte questo.

La prima è: secondo voi ora che farà Celeste? E come si spiega il fatto che Dave sapesse "tutte" quelle cose?

P.S. Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo, se vi va: adoro leggere i vostri commenti.

Un bacio, x

Capitolo revisionato.

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