23. Lost Stars
"Who are we? Just a speck of dust
Within the galaxy? Woe is me, if
We're not careful turns into reality.
Don't you dare let our best memories
Bring you sorrow".
"Alla fine ti ho trovata" mormorò, con il volto a due centimetri dal mio e il suo naso che mi sfiorava appena.
Pronunciò quella frase come se in realtà ci fossero stati un milione di significati diversi dietro quelle cinque semplici parole. Assottigliai gli occhi e lo fissai sospettosa, prima di dar voce ai miei pensieri.
"Mi cercavi?" domandai, anche se era evidente che mi avesse cercata, visto che Lindsay aveva esplicitamente ammesso che si erano preoccupati tutti, quando non mi avevano vista raggiungerli in biblioteca, ma volevo sentirmelo dire da lui.
Sembrò combattuto. Sul suo viso si susseguirono una serie di emozioni differenti. Schiuse le labbra, ma poi le serrò nuovamente pochi secondi dopo. I suoi occhi erano sfuggenti. Evitava appositamente il mio sguardo. A quel punto non seppi più distinguere se stessimo parlando della stessa cosa o di altro. Afferrai il suo mento tra le dita di una mano e lo feci voltare verso di me, in modo da incrociare il suo sguardo. Sembrava perso. Stavo per dirgli che non c'era bisogno che mi rispondesse, ma mi precedette.
"Ti cercavamo tutti" disse con ovvietà, incastonando gli occhi nei miei.
Non mi accorsi neppure di aver trattenuto il respiro fin quando non ne rilasciai uno. Non ero soddisfatta della risposta, anzi, ero piuttosto delusa, perché l'aveva buttata sul generale, facendomi intendere di non essersi preoccupato più di quanto avevano fatto gli altri. Annuii e distolsi lo sguardo, liberandolo dalla mia presa, per poi dirigermi verso il mio letto, sedermici, e togliermi anche i calzini, dopodiché li ficcai nelle scarpe che mi ero precedentemente sfilata. Sbadigliai e mi rialzai, scuotendomi i capelli e stiracchiandomi. Arraffai il pigiama da sotto il cuscino e mi avviai verso il bagno.
"Vai già a dormire?" si informò, girandosi verso di me, come risvegliatosi da uno stato di trance.
Non capivo perché fosse così assente, come avesse fatto a precipitarsi nella mia camera a quella velocità supersonica, e che diavolo di fine avesse fatto Lindsay, che si era come ecclissata. Poggiai le mie cose sulla tavoletta chiusa del water e mi affacciai dalla porta socchiusa per guardarlo. Aveva le sopracciglia aggrottate e il labbro inferiore leggermente all'infuori, nel tentativo di assumere una perfetta espressione da cucciolo, con il solo intento di persuadermi a fare quello che avrebbe voluto lui. E ci stava riuscendo, perché era incredibilmente adorabile.
"Mettersi il pigiama non significa automaticamente andare a dormire. E poi ho sonno. Non ho dormito molto, la notte scorsa..." ammisi, con noncuranza, richiudendomi la porta alle spalle.
Mi diedi una rinfrescata, mi cambiai, struccai e poi uscii, trovandolo ad aspettarmi con le mani nelle tasche dei jeans scuri che stava indossando, e un'espressione maliziosa in volto che non prometteva nulla di buono.
"Dirò di no a prescindere. Di qualsiasi cosa si tratti" lo stroncai, fingendomi seria, ma scoppiando subito a ridere dopo aver visto la sua faccia stranita e sdegnata.
Ripiegai gli abiti che mi ero tolta e li riposi accuratamente nella valigia ai piedi del letto, accovacciandomi accanto a essa. Quando riassunsi una posizione eretta, lo vidi fissarmi con la stessa espressione furba di poco prima. Scossi la testa e mi buttai a peso morto sul letto, serrando gli occhi e fingendo di dormire. Lo sentii avvicinarsi e sedersi sul materasso, che si abbassò sotto il suo peso. Aprii solo un occhio e lo scrutai con interesse.
"Non puoi voler dormire seriamente..." mi pregò, facendosi più vicino.
"Invece posso eccome" sostenni, richiudendo l'occhio e girandomi su un fianco.
Si mosse e mi si fece ancora più vicino. Il materasso se ne scese dalla parte dietro la mia schiena. Il suo respiro caldo mi solleticava il collo. Non avrei mai e poi mai avuto tutto l'autocontrollo necessario per resistere ancora, e lo sapevo benissimo. Le sue labbra mi sfiorarono l'elice dell'orecchio e il mio cuore perse un battito, mentre mi sentii improvvisamente avvampare e mi mancò l'aria.
"Ne sei proprio sicura?" sussurrò, con voce roca e seducente, provocandomi una scia di brividi ovunque.
Lo maledissi mentalmente per star giocando così sporco, ma continuai a ignorarlo, per capire fino a che punto si sarebbe spinto. Deglutii rumorosamente, e me ne pentii pochi attimi dopo. Lo sentii sogghignare, segno che si era accorto di quanto fossi in difficoltà.
"Peccato. Avremmo potuto giocare a Call Of Duty, altrimenti... Sai, il padre di Mike ieri è venuto a trovarlo, e gli ha portato una mini Tv e la sua adorata PlayStation3, dopo che Mike aveva tanto insistito... E pensavo che, magari, se avessimo convinto lui e Lindsay a venire a dormire qui..." lasciò la frase in sospeso, aspettando che reagissi in qualche modo.
In quel momento mi fu tutto più chiaro, e compresi anche che fine avesse fatto la mia coinquilina. Pensai che io e Peter non avevamo tutti i torti, a credere che ci fosse del tenero tra quei due, se stavano sempre insieme. Ovviamente non me lo feci ripetere due volte, anche perché dopo le parole "Call Of Duty" non ci avevo capito più niente. Avevo sempre desiderato avere quel gioco, perché dalla pubblicità mi era sembrato una figata. Solo che non avevo una consolle, e mamma e papà non volevano che ne avessi una perché ritenevano che quel gioco fosse troppo violento. Forse era sfuggito loro il fatto che avessi diciannove anni e non dieci. Aprii gli occhi di scatto e balzai su dal letto talmente rapidamente, che nemmeno me ne resi conto, così come non mi resi conto di aver praticamente scaraventato Peter a terra. Saltellai per tutta la stanza, rinfilandomi i calzini e le scarpe e prendendo il mio giubbino dallo schienale di una delle due sedie accanto alla scrivania, per poi ficcarmelo velocemente, prendere le chiavi dalla superficie di legno, spalancare la porta e catapultarmi fuori, fermandomi solo quando realizzai che Peter non era dietro di me. Percorsi il corridoio a ritroso e lo trovai ancora per terra, mentre si massaggiava un gomito con un'espressione dolorante in viso, che si tramutò in accusatoria quando fui di nuovo nella sua visuale. Mi misi a ridere e lui sorrise, non riuscendo a mantenere il punto per più di qualche secondo.
"Andiamo, idiota. Dobbiamo muoverci, se non vogliamo sorprenderli a fare Dio solo sa cosa" lo incitai, tendendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi.
Lui rise fragorosamente. Il petto gli vibrava e gli occhi erano semichiusi, con quelle adorabili lineette ai lati che comparivano solo quando rideva. Sarei potuta restare a guardarlo per ore, ma non era quello il momento: per quanto poteva sembrare una constatazione spiritosa, avevo davvero il timore di sorprendere quei due a fare chissà cosa. Mi afferrò la mano, ma, invece di farsi aiutare a tirarsi su, fu lui a tirare me giù, facendomi prendere un colpo - poiché non me l'aspettavo - e facendomi cadere addosso a lui come un sacco di patate. Trattenne un gemito di dolore, e io gli schiaffeggiai una spalla, indispettita.
"Certo che ti credevo più leggera..." confessò, tossicchiando, mentre io ero seduta su una sua gamba ed ero di poco più in alto di lui.
"Cretino" lo rimbeccai, facendo di tutto per non mettermi a ridere, ma fallendo miseramente.
Lui mi seguì a ruota. Quando riuscimmo a riprenderci e a raggiungere una sottospecie di calma, ci rialzammo insieme e ci incamminammo verso il Rockefeller. Anche se "incamminarsi" non è propriamente il verbo più adatto. Per la verità iniziai a correre come una forsennata, e lui fece lo stesso per starmi dietro. Poi la corsa si tramutò, per qualche strano motivo, in un acchiapparello all'ultimo sangue. Le gambe mi facevano male, mentre correvo a più non posso. Non avevo più fiato nei polmoni, e il cuore mi batteva all'impazzata per lo sforzo. L'aria fresca mi accarezzava le guance accaldate, e il frinire dei grilli faceva compagnia alle mie risate, che erano l'unico suono che colmava il silenzio, insieme a quelle di Peter. Prevedibilmente, dopo un po' mi raggiunse. Cosa inevitabile, siccome aveva delle gambe lunghe il doppio delle mie. Mi afferrò da dietro stringendomi forte tra le sue braccia, e incominciò a girare su se stesso a tutta velocità, facendomi venire il mal di testa ed emettere dei piccoli urletti di protesta tra le risate. Quando si fermò, vedevo doppio, e faticavo a reggermi in piedi, ma stavo ancora ridendo. Sollevai lo sguardo in alto, sperando di alleviare il capogiro, e mi stupii per quanto era tempestato di stelle il cielo quella sera. La cosa che più mi lasciò basita fu il fatto che riuscissi a vederle, nonostante le luci dei lampioni e delle varie luminarie del campus fossero alquanto forti. Sorrisi e riportai lo sguardo davanti a me, incontrando due occhi grigi che mi fissavano attentamente. Aveva smesso di abbracciarmi da dietro e si era posizionato di fronte a me. Gli angoli delle sue labbra si piegarono all'insù, e mi si fece sempre più vicino, fino a poggiare la fronte alla mia, seguitando a sorridermi. Io feci altrettanto, e i nostri nasi si toccarono a loro volta. Avevo ancora il cuore a mille - per la corsa di poco prima -, che, se possibile, accelerò ancora di più la sequenza dei battiti, quando i suoi occhi passarono dai miei alle mie labbra. Mi venne un'idea fantastica, in quel momento, e decisi di attuarla immediatamente. Strusciai il naso contro il suo collo, e lo sentii sospirare, mentre con una mano gli accarezzavo il petto, fino ad arrivare a una delle tasche del suo giubbotto. Gli lasciai un bacio umido sul collo freddo, percependo i battiti del suo cuore velocizzarsi, e intanto tastai l'altra tasca, perché la prima era vuota. Trovai quello che stavo cercando e, in un gesto istantaneo, vi sfilai le chiavi da dentro e ricominciai a correre.
"Chi ha il coltello dalla parte del manico, adesso?" lo presi in giro, fermandomi per qualche secondo, agitando le chiavi della sua stanza in aria e ridendo della sua espressione confusa, per poi voltarmi e riprendere a correre.
"Celeste! Sei un'imbrogliona! Torna subito qui, se ne hai il coraggio!" mi minacciò, ridendo, e da lì compresi che aveva probabilmente ripreso a correre anche lui.
Scossi la testa, ridendo a mia volta, e mi bloccai sui miei passi per prendere fiato solo quando raggiunsi l'ascensore, premendo il bottone per richiamarlo a quel piano, perché di farmi anche le scale di corsa non se ne parlava proprio. La tizia di turno alla reception mi aveva guardata malissimo. Doveva esserle sembrata parecchio strana come scena, quella di una pazza psicopatica che correva come una forsennata per seminare un ragazzo a cui aveva fregato le chiavi della stanza. Mi ficcai speditamente nel macchinario, quando raggiunse il pianoterra, e premetti altrettanto velocemente il pulsante del piano della loro camera, sperando di averlo seminato. Ma mi dovetti ricredere, quando lo trovai ad aspettarmi fuori dall'ascensore, una volta arrivata.
"Come... Come cavolo è possibile?!" domandai, alquanto stranita, a bocca aperta e occhi spalancati.
Ghignò, rubandomi le chiavi di mano con uno scatto felino.
"Vivo in questo posto da due anni, ormai: ho imparato qualche trucchetto. Come, per esempio, che l'ascensore di servizio è più veloce di quello normale" affermò, soddisfatto, alzando le spalle e continuando a sorridere.
Poi si voltò per andare verso la sua stanza, ma non gliel'avrei data vinta. Se voleva la guerra, l'avrebbe avuta. Presi la rincorsa e gli saltai sulla schiena, tenendomi con le braccia attorno al suo collo.
"Ma che cazzo..." esclamò, attonito, arrestando subito la sua avanzata.
Continuai a tenermi a lui con un braccio, mentre allungavo l'altro verso la sua mano e gli strappavo le chiavi dalle dita. Gli scesi dalla schiena e gli corsi davanti, raggiungendo per prima la porta.
"Ah-ah!" enfatizzai, vittoriosa, sollevando un pugno chiuso in alto.
Lui sorrise, scuotendo la testa, rassegnato, e io ficcai la chiave nella toppa, senza curarmi di quello che avrei potuto trovare dall'altra parte della soglia. In effetti la scena non era tremenda quanto me l'ero immaginata: Lindsay e Mike erano stranamente stesi sullo stesso letto, ma entrambi girati su un fianco da lati diversi, e ronfavano beatamente. Guardai Peter con un'espressione triste, perché i nostri sogni si erano infranti per l'ennesima volta, e la nostra coppia ideale non stava facendo niente di troppo intimo come ci saremmo aspettati. Avrei voluto svegliarli brutalmente, anche se mi avrebbero odiata fino alla fine dei loro giorni, ma almeno mi sarei divertita. Purtroppo Peter mi anticipò, però.
"Mike, svegliati e sloggiate nell'altra stanza: questa serve a noi" gli comunicò, cominciandosi a togliere il soprabito.
Io feci lo stesso, anche perché, dopo tutta quella corsa, ero abbastanza accaldata. Mike mugolò qualcosa, mentre Lindsay lo mandò poco garbatamente al diavolo. Lui non volle sentire ragioni, per cui alla fine furono costretti ad alzarsi e ad andarsene, non senza averci prima dichiarato odio eterno. Mi sentivo un po' in colpa, anche perché, se fossi stata io nella loro situazione, avrei prima castrato chi si fosse permesso di svegliarmi, e poi non me ne sarei comunque andata, per principio. Ma Peter mi raccontò che Mike in precedenza aveva fatto anche di peggio, con lui, quando si portava le sue conquiste in camera, costringendolo a dormire in corridoio, per terra, quindi mi fece capire che se lo meritava. Mi accomodai sul letto di Mike, posando il cappotto al mio fianco e togliendomi e sistemando a terra le scarpe, mentre Peter smanettava con cavi e telecomandi per avviare il gioco. Quando terminò tutte le operazioni necessarie, si tolse le scarpe e i calzini, e fin lì era tutto normale. Il problema sorse quando si tolse anche la maglietta, rimanendo così in canottiera bianca aderente, che lasciava ben poco all'immaginazione.
"E questo a cos'è dovuto, sentiamo..." lo stuzzicai, mentre si veniva a sedere al mio fianco e mi porgeva un joystick.
Profumava di bagnoschiuma da uomo, deodorante e sudore al tempo stesso.
"Avevo caldo" rispose semplicemente, senza lasciare spazio a eventuali obiezioni.
Roteai gli occhi al cielo e afferrai uno dei due telecomandi, posizionandomi con la schiena contro la testata del letto a gambe incrociate. Lui, invece, rimase seduto sulla punta del materasso.
"Sai giocare, vero?" inquisì, osservandomi con un sopracciglio alzato e l'espressione di chi la sa lunga.
Mi rifiutavo categoricamente di ammettere che in realtà non ero per niente capace, anche perché mi avrebbe deriso a vita. In fondo quando poteva essere difficile battere e uccidere vari tizi armati...
"Per chi mi hai presa..." ribattei, fintamente offesa, facendogli sollevare in aria le mani in segno di resa, con un sorriso divertito dipinto sulle labbra.
Ammazzare soldati si rivelò molto più complesso del previsto. Soprattutto visto e considerato che non sapevo neppure come muovermi, dove andare e cosa fare, e che il panorama di lui in canotta attillata non contribuiva per nulla alla mia concentrazione. Lui, invece, giocava con naturalezza, facendomi irritare sempre di più, perché, in cuor mio, speravo che fosse incapace, in modo da non avere il diritto di prendermi in giro. Quando si accorse del fatto che stavo continuando a girare in tondo da più di dieci minuti, mise in pausa il gioco, indietreggiò, e mi si sedette vicino.
"Devi fare così se vuoi andare in avanti - e mi fece vedere come fare muovendo la rotellina del joystick - e così se vuoi andare indietro, a destra, o a sinistra. Segui me, perché siamo una squadra e non ci conviene dividerci. Premi questo per sparare quando ti si avvicinano, e se finisci le munizioni, devi ricaricare il fucile premendo quest'altro pulsante. Se hai bisogno di una mano, chiedi, okay?" mi spiegò tutto dolcemente e premurosamente, e io annuii, sebbene non avessi capito un tubo e non avessi fatto altro che osservare i movimenti sinuosi delle sue labbra mentre pronunciavano ogni singola parola.
Riavviò il gioco, e io non sapevo cosa fare. Premetti pulsanti a casaccio, e, stranamente, il mio personaggio non avanzò più in girotondo, ma in avanti. Un soldato provò ad aggredirmi, e io riuscii addirittura a sparargli in testa. Dopo aver capito come fare, fu molto più semplice giocare. Io e Peter imprecavamo nello stesso momento e ci muovevamo a destra e sinistra, come se le nostre mosse nella vita reale ci sarebbero servite anche nel gioco. Non so ancora attraverso quale strano processo finii seduta tra le sue gambe, con la schiena contro il suo petto e le sue braccia attorno ai fianchi, fatto sta che non avevo la minima intenzione di smuovermi. All'improvviso sullo schermo comparve una strana scritta, così io mi voltai a guardare Peter, confusa, e lui mi stava sorridendo, compiaciuto. Guardai di nuovo lo schermo e lessi bene. Gli occhi per poco non mi uscirono fuori dalle orbite.
"Ho vinto!" strillai, in preda alla felicità, seppure non sapessi come potesse essere stato possibile.
Lui sorrise ancora, prima di dire che era stata solo la fortuna del principiante. Ero frastornata, perché mi sarei aspettata una scenata da parte sua, visto che ai maschi non piace essere battuti e che sono molto competitivi, ma lui non disse niente: mi continuò semplicemente a sorridere. E allora capii che mi aveva fatta vincere di proposito, e, inspiegabilmente, mi rallegrai ancora di più. Dopo una breve danza della vittoria, mi ributtai a peso morto sul letto, addosso a lui, che soffocò un lamento. Lo abbracciai, sebbene fosse tutto sudato e appiccicaticcio, e lui, dopo un primo attimo di esitazione, ricambiò la stretta, cingendomi il busto con le braccia. Poi mi sollevai sui gomiti, ed ero sopra di lui. Lo fissavo negli occhi, e mi ci sarei potuta perdere, in quell'universo che racchiudevano. Lo guardai a lungo, ammaliata, fino a che non notai un piccolo e quasi invisibile segno verticale proprio sul labbro superiore, che fino a quel momento mi era sfuggito. Vi passai con delicatezza un dito sopra, e lui sorrise sotto il mio tocco.
"Quand'ero piccolo sono inciampato e mi sono spaccato il labbro. Mi sono giocato anche un dentino, ma per fortuna era da latte. Ho pianto tantissimo quel giorno, nemmeno immagini quanto. Finché mia madre, vistasi persa, mi ha promesso di comprarmi un mega gelato, a patto che smettessi di piangere. Non dimenticherò mai quel giorno: il miglior gelato di sempre" mi confidò, sorridente, mentre io continuavo a sfiorargli la cicatrice e il sottile strato di baffetti biondi sul labbro.
"E ti fa ancora male?" indagai, e naturalmente la domanda aveva un doppio fine.
Infatti, invece di rispondere che non gliene faceva più, perché ormai era una cicatrice, bisbigliò un "Sì" che stentai quasi a udire, ma che mi risultò più che chiaro quando mi giunse alle orecchie.
"Forse è il caso di rimediare..." convenni, scrutandolo negli occhi per ricevere un suo ulteriore assenso, di cui, in verità, non ci sarebbe stato per nulla bisogno.
"Forse è proprio il caso..." concordò lui, poco prima che sorridessi e unissi le labbra alle sue con una certa urgenza per la seconda volta.
Eppure sembrò di nuovo la prima. Il cuore mi martellava in petto come un tamburo impazzito, e lo stomaco mi si attorcigliò in mille nodi diversi. Le sue mani sulla mia schiena, che mi accarezzavano prima da sopra il tessuto della maglietta del pigiama e poi da sotto, facevano in modo che la mia pelle si cospargesse di brividi, e mi mancò il fiato quando ribaltò la situazione e mi fece stendere sotto di lui. Le mie mani erano prima tra i suoi capelli, poi sulle sue spalle, sul suo collo, indecise sul dove posarsi. Lui con un braccio si reggeva per non cadermi addosso, e con la mano dell'altro mi lambiva una guancia. La sua lingua viaggiava nella mia bocca in sincronia con la mia, e, ti giuro, in quel momento fu come se il conto si fosse azzerato, e non avessi mai baciato altro ragazzo se non Peter Poole. Una cosa era certa: quelle emozioni non me le aveva fatte provare mai nessuno. E ciò non solo mi rendeva profondamente felice, ma mi terrorizzava grandemente.
×××
"Celeste!" gridò la voce entusiasta e dolcissima di un bimbo, prima di lanciarmisi addosso e avvilupparmi con tutta la forza che aveva in corpo.
Mi abbassai alla sua altezza e ricambiai l'abbraccio, seppur abbastanza interdetta. Eravamo in un parco giochi. C'era della ghiaia sotto i nostri piedi e un cielo azzurro intenso e luminoso sopra le nostre teste. A pochi metri da noi c'erano uno scivolo e due altalene. Si distanziò da me quel poco che bastava per guardarmi intensamente negli occhi. Non riuscivo a distinguere il colore dei suoi.
"Ci hai messo un'eternità!" mi rimbeccò, fingendosi esasperato.
Non capivo di cosa stesse parlando, e neanche chi fosse, benché possedesse molti tratti a me familiari. Mi prese per mano e mi tirò con sé fino alle altalene. Lui si sedette su una delle due, e mi invitò a fare altrettanto sull'altra. Non me lo feci ripetere due volte, anche perché mi sentivo incredibilmente e inspiegabilmente stanca. Sospirò, chiudendo gli occhi e permettendo al sole di quella splendida giornata di carezzargli il viso. Non riuscivo a smettere di fissarlo. Sorrise, per poi riaprire gli occhi e girarsi verso di me.
"Ma io non so chi sei..." confessai, rammaricata, iniziando a guardare molto interessata la sabbia sotto le suole delle mie scarpe, mentre mi dondolavo lentamente avanti e indietro.
"Sì che lo sai, invece" decretò con convinzione, facendomi riportare repentinamente gli occhi su di lui, ma ormai era scomparso.
C'erano solo un'altalena vuota che oscillava con lentezza dinanzi ai miei occhi, e un enorme senso di confusione che mi attanagliava la mente.
"Yesterday I saw a lion kiss a deer.
Turn the page, maybe we'll find a
Brand new ending where we're
Dancing in our tears".
N/A
Capitolo revisionato.
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