21. Mercy
"Show me an open door, then you go
And slam it on me. I can't take anymore:
I'm saying, baby, please have mercy on me".
Correvo. Correvo disperatamente. Correvo a più non posso. Avevo l'affanno. Non sapevo dove stessi andando, ma la mia fronte era imperlata di sudore, e il corridoio che stavo percorrendo sembrava non avere mai fine. Era buio. C'erano tante porte. Provai ad aprirle, ma erano tutte sistematicamente chiuse a chiave. E allora ripresi a correre. Fino a quando il corridoio terminò, e al suo posto comparve un'altra porta davanti ai miei occhi. Era più grande e imponente delle altre. Ma era chiusa anche quella, e sentivo di dover trovare al più presto un modo per oltrepassarla.
"Non c'è più tempo!" seguitava a urlare una voce maschile alle mie spalle, voce che non riuscivo a riconoscere e ad associare a un volto.
Gridava. Gridava fortissimo. Così io strillavo sempre più forte per sovrastarla, dicendo che non sapevo come fare. Ma la voce non mi ascoltava, e continuava a ripetere sempre la stessa cosa. Non c'era tempo. Ma io abbassavo e tiravo la maniglia e la porta non si apriva. Finché un'altra voce, femminile, stavolta, non mi suggerì di spingere. Spinsi la porta verso l'interno e quest'ultima finalmente si aprì, catapultandomi in una camera da letto. Era grande e spaziosa, ma le pareti erano completamente spoglie. E bianche. L'unico pezzo d'arredamento presente era un letto a baldacchino sulla destra, sul quale si stavano rotolando tra le lenzuola un ragazzo e una ragazza, mentre si baciavano appassionatamente.
"No, no, no!" urlai, con tutto il fiato che avevo in gola, quando realizzai che le due persone non erano altro che Peter e quella ragazza bionda, a cui lui dava ripetizioni, che io non sopportavo.
Ma loro non mi sentivano. Era come se fossi invisibile. Feci per avvicinarmi, ma i miei piedi non si muovevano più, erano come incollati al suolo. Allora mi preparai per gridare ancora, ma non avevo più voce. Mi girai a destra e a sinistra alla ricerca di qualcosa a portata di mano, che mi potesse essere utile per interrompere la scena orribile che mi si era presentata davanti agli occhi. C'era un bambino, ai piedi del letto. Un bambino che prima non avevo notato. Stranamente, mi fu possibile avvicinarmi a lui. Si girò a guardarmi, e io risucchiai un respiro, quando mi accorsi che non aveva né occhi, né sopracciglia, né naso, né bocca. All'improvviso il bimbo iniziò a farsi sempre più alto, fino ad assumere le fattezze di un ragazzo. Aveva i tratti di qualcuno che conoscevo, ma senza occhi, sopracciglia, naso o bocca non riuscivo a capire chi fosse. Mi venne sempre più vicino e mi afferrò per un braccio, dandomi uno strattone che mi fece cadere a terra. La mia caduta fece sì che Peter e la tizia bionda smettessero di fare quello che stavano facendo. Lei strillò. Fu un urlo acuto, che fece rompere una serie di vetri di cui, fino a quel momento, non avevo per niente notato la presenza. Ogni singolo pezzo di vetro si sfracellò del tutto, e la stanza cominciò a essere sommersa d'acqua. Non capivo da dove provenisse, fatto sta che in pochi attimi mi ritrovai all'aria aperta, in alto mare, ancora prima che fossi capace di realizzarlo e provare a scappare. Non riuscivo a nuotare. Eppure io so nuotare, solo che in quel momento non ci riuscivo. Era come se avessi avuto due blocchi di marmo attaccati ai piedi, che facevano di tutto per trascinarmi a fondo, sempre più a fondo. Tentai in tutti i modi di rimanere a galla, ma non ci fu verso, quindi presi un respiro profondo e smisi di opporre resistenza, permettendo a quei blocchi di trascinarmi nel profondo degli abissi.
Mi risvegliai all'improvviso, respirando a fatica e madida di sudore. Un incubo. Era stato solo un incubo. E io stavo bene. Ed ero nel mio letto. Sola.
×××
"Signorina Sullivan, le dispiacerebbe venire a conferire un attimo con me?" mi domandò cortesemente il professor Harris, mentre mi stavo accingendo a uscire da quell'inferno di classe, visto che la sua era la mia ultima lezione di quella giornata.
Assentii con un cenno del capo e, raccolte le mie cose e messomi lo zaino sulle spalle, mi avvicinai alla cattedra, mentre lui era intento a sistemare dei fogli nella sua cartella in pelle marrone. Ricordo che pensai indirettamente a papà, perché ne aveva una così anche lui, solo che la sua si chiudeva con una cerniera, non aveva un bottoncino laccato in oro da premere (se non sbaglio gliela regalasti proprio tu ad un suo compleanno...). Speravo solo che non volesse farmi delle domande inerenti alla lezione appena svolta, perché non avevo ascoltato una singola parola, e sarebbe stato un po' difficile spiegargli che non ero per niente interessata né al suo corso, né a quello stupido college, né a qualsiasi altra cosa lo riguardasse. Finì di mettere a posto le sue cose e alzò lo sguardo su di me, poggiandosi alla scrivania con entrambi i palmi delle mani. Io sospirai, mentre i suoi occhi azzurri mi squadravano dall'alto in basso e le sue labbra mi sorridevano, rassicuranti. Presi un profondo respiro e lo guardai negli occhi, con l'ansia alle stelle.
"A quanto pare non ha seguito il mio consiglio... Visto che non ha fatto visita alla dottoressa McCartney..." constatò, sollevando un sopracciglio color mogano e sorridendo come chi sa di averti colto in fallo.
Mi morsi la lingua e abbassai lo sguardo, colpevole. Lo sentii sospirare, per poi vederlo con la coda dell'occhio allontanarsi dalla superficie di legno e prendere in mano la sua cartella marrone. Mi ero completamente dimenticata di quella cavolo di psicologa, e pensavo - mi auspicavo - che se ne fosse dimenticato anche lui, ma evidentemente non era così. Fece il giro della cattedra e si fermò al mio fianco. A quella distanza la differenza d'altezza tra me e lui era quasi imbarazzante.
"Mi rincresce tantissimo, ma mi trovo costretto ad avvertire i suoi genitori. E soprattutto quelli del signor Duncan" mi comunicò, facendomi immediatamente puntare di nuovo gli occhi nei suoi.
Spalancai i miei e sentii il cuore sprofondarmi in pancia alla menzione di quel cognome. Era passato quasi un mese da quell'episodio, a che sarebbe servito avvertire i nostri genitori? Sarebbe stata una mossa alquanto stupida, anche perché i miei avrebbero sicuramente dato di matto, sapendo che il professore aveva tenuto loro nascosto qualcosa di così importante e delicato per tutto quel tempo. "Pensa, Celeste, pensa" era la frase che continuavo a ripetermi, per tentare almeno in qualche modo di fargli cambiare idea e di salvare il culo a entrambi. Anche se Dave non lo meritava per niente. Ispirai a fondo.
"D'accordo" proferii, decisa, a voce più alta di quanto mi sarei aspettata.
Il professore mi guardò crucciato, confuso e interessato, cercando probabilmente di capire a cosa mi stessi riferendo. Chiusi gli occhi per qualche secondo e li riaprii poco dopo, pensando che Dave mi avrebbe dovuto ergere una statua, dopo quello che stavo per fare.
"Andrò a parlare con la dottoressa" acconsentii, sconfitta, mentre sul suo viso si faceva spazio un'espressione soddisfatta.
Annuì, seguitando a sorridere, per poi posarmi una mano su una spalla e stringermela.
"Mi fa molto piacere sentirglielo dire, signorina Sullivan. Venga, la accompagno: la dottoressa sarà sicuramente libera a quest'ora" mi esortò, poi rimosse la mano dalla mia spalla e si voltò per uscire, invitandomi con lo sguardo ad andargli dietro.
Mi toccava addirittura una seduta con uno strizzacervelli. Altro che statua, Dave mi avrebbe dovuto fabbricare un intero tempio votivo. Camminammo per i corridoi leggermente distanziati: io mi premuravo di rimanere sempre qualche passo indietro, ma lui si fermava e mi attendeva e, dopo un paio di volte, smisi di provarci, e camminai al suo fianco. Eravamo entrambi silenziosi. Specialmente io, che non ci tenevo proprio a intrattenere una conversazione con lui, visto che le uniche volte in cui ci eravamo rivolti la parola non erano state di certo un incentivo a parlare con lui ancora. Durante il percorso ricevetti non poche occhiate incuriosite da una buona parte degli studenti che gironzolavano ancora per i corridoi. Alzai gli occhi al cielo quando sentii il cellulare vibrare da dentro una delle tasche posteriori dei pantaloni, dove l'avevo posato. Lo estrassi per vedere quantomeno chi fosse, e appurai che era solo Lindsay. Non mi vedeva dalla sera prima - dato che quella mattina ero letteralmente corsa fuori dalla mia camera non appena si erano fatte le sette, perché non ero riuscita più a chiudere occhio dopo quell'incubo tremendo -, ed evidentemente voleva sapere che fine avessi fatto, siccome ci recavamo sempre tutti in biblioteca, dopo le lezioni. In realtà, di solito Peter mi veniva a prendere, e ci andavamo insieme. Ma non lo vedevo dalla sera prima, da quando avevamo litigato su quel tetto sotto le stelle. Ero ancora molto arrabbiata con lui, perché non avrebbe dovuto dire quelle cose in quel modo, ma lui sembrava non avere alcuna intenzione di scusarsi, quindi mi imposi di non pensarci più e di lasciarlo perdere. Seppure mi risultasse molto più che difficile, dato che la mia mente mi riportava sempre alla sera prima e a quando mi aveva baciata. A quando le sue labbra erano sulle mie e avevo toccato il paradiso con un dito.
"Eccoci qui" annunciò il professor Harris, bussando con la nocca dell'indice della mano destra a una porta di legno, con sovrimpressa la targhetta "Consulente Scolastico".
Sbuffai, quando dall'interno sopraggiunse una voce femminile che ci esortò a entrare. Il professore non se lo fece ripetere due volte, abbassò cautamente la maniglia d'acciaio e spinse la porta verso l'interno.
"Non c'è più tempo!".
Per una frazione di secondo mi ritornò alla mente l'incubo che avevo avuto quella notte, e mi si accapponò la pelle. Mi bloccai sui miei passi. Mr. Harris era già entrato, e si voltò verso di me, quando realizzò che non avevo fatto lo stesso. In quel momento mi resi davvero conto di quanto fosse giovane, quando mi soffermai maggiormente sul suo completo blu scuro da uomo e lo confrontai con il suo viso dai tratti più infantili. Sicuramente non poteva avere più di venticinque anni. Mi chiesi come fosse finito a fare il professore di filosofia in quel college.
"Tutto bene?" indagò, con un velo di preoccupazione che traspariva sia dalla sua voce che dalla sua espressione.
Annuii, sempre meno convinta, e lo seguii nell'ufficio della dottoressa. All'interno era tutto asettico, sui toni del verde pistacchio. La scrivania era costituita da un tipo di legno più chiaro di quella del professor Harris, e dietro di essa, alla quale era seduta una donna molto giovanile dai capelli rossi, c'era una finestra che dava sul cortile esterno, il cui vetro era oscurato da delle veneziane rigorosamente verdi.
"Ophelia, lei è Celeste, la ragazza di cui ti ho parlato" mi introdusse il professore, facendomi notare che erano abbastanza in confidenza, se la chiamava addirittura per nome.
La donna mi rivolse un sorriso spontaneo, che, contro le mie aspettative, non sembrava per niente forzato o di circostanza, come invece dovette sembrarle il mio. Appoggiai le dita allo schienale di una delle sedie disposte di fronte alla sua, dall'altro capo della scrivania, e giocherellai con esse, a disagio.
"È un vero piacere fare la tua conoscenza, Celeste" ammise, sorridendomi ancora.
Forzai un sorriso anch'io, eppure, non so perché, mi veniva da piangere. "Sorridi" era ciò che mi ripeteva costantemente il mio cervello, ma non era così semplice. Non è per niente semplice sorridere quando gli occhi ti si velano di lacrime e ti si forma un groppo in gola. Non lo è. E io non capivo come facessero le persone a sopportarlo.
"Bene, allora io vi lascio sole. Signorina Sullivan, ci vediamo domani a lezione. Ophelia..." il professore ci fece un cenno con una mano e uscì dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
"Non c'è più tempo!".
Avrei voluto tanto urlare. Ma a cosa sarebbe servito? Tanto ero certa che anche in quel caso, come nel mio sogno, non mi avrebbe sentita nessuno. Avrei voluto urlare un enorme e sonoro "Basta!", ma me ne stetti in silenzio, e mi accomodai su una delle due sedie di fronte alla donna dai capelli rossi.
"Allora, Celeste, come ti senti?" inquisì premurosamente, avvicinando di più la sedia al tavolo e facendomi un altro sorriso a trentadue denti.
Aveva una miriade di lentiggini sul volto, e gli occhi azzurri, ma di una tonalità più scura rispetto alla mia.
"Stanca" risposi, con voce roca, in un sussurro, stupendo sia lei che me stessa.
Probabilmente nessuna delle due si sarebbe aspettata un mio intervento, o che avrei in qualche modo partecipato alla conversazione. La mia risposta si era rivelata essere molto evasiva, ma la cosa certa era che non mi riferivo di sicuro alle occhiaie sotto i miei occhi, che avevo cercato in tutti i modi di coprire con del correttore. Incontrai i suoi, impensieriti, prima che riprendesse la parola.
"In che senso, tesoro?" si informò, sinceramente interessata, incrociando le braccia sulla superficie lignea.
"Nel senso che le persone mi hanno stancata. Mi sono stancata anche di me stessa. Mi sono stancata di tutto" enunciai, scrollando le spalle e abbassando lo sguardo, indispettita.
Non sapevo il motivo del perché le stessi dicendo quelle cose. Forse era perché mi ispirava fiducia. Oppure perché era una sconosciuta, e con gli sconosciuti si parla meglio, perché non ti conoscono, e non possono giudicarti. Forse era proprio quello di cui avevo bisogno, in quel momento. Di qualcuno che mi ascoltasse senza giudicare. Pensavo che Peter avrebbe potuto ricoprire quel ruolo, ma mi ero trovata a ricredermi, dopo le cose che aveva detto. La psicologa si alzò e mi si venne a sedere vicino, sull'altra sedia, quella vuota. La accostò maggiormente alla mia, fino a quando le nostre ginocchia non si sfiorarono. Portava una gonna grigia al ginocchio e delle calze color carne. Indossava una camicetta bianca che aveva la parvenza di essere molto leggera, ma, dopotutto, in quella stanza faceva parecchio caldo, e lei con ogni probabilità non usciva mai di lì. Aveva delle décolleté grigie ai piedi con un tacco non indifferente. Mi concentrai su quelle per il resto della conversazione, mantenendo lo sguardo fisso su di esse pur di non incrociare il suo. Congiunse le mani in grembo, prima di riprendere la parola.
"Vuoi parlarne? Tutto quello che dirai rimarrà tra me e te" mi rassicurò, e me la figuravo a guardarmi ancora con quell'espressione preoccupata, che, di solito, ero abituata a vedere sul volto di mamma e papà quando mi comportavo in un modo che loro non capivano, cioè quasi sempre.
Lo disse come se avesse veramente creduto che fossi stupida. Sapevo che avrebbe annotato tutto, una volta andatamene da quella stanza, e che avrebbe avvertito prima Mr. Harris e poi mamma e papà, se avessi detto qualcosa di "preoccupante". Di certo già pensava che fossi depressa. Mi rigirai tra le mani il cellulare, che non avevo ancora rimesso al suo posto, e proprio in quel frangente riprese a trillare. Quella volta era Abigail, ma non risposi. Quando smise, incominciò a chiamarmi Mike. Si alternavano, fino a che sullo schermo non comparve il nome di Peter, e a quel punto gettai con foga il cellulare a terra, facendo in modo che producesse un rumore sordo quando entrò in contatto con la moquette verde. C'era moquette ovunque, in quel cavolo di posto.
"Sembrano preoccupati per te..." azzardò la dottoressa, cercando in qualche modo di farmi parlare.
"Sì, beh, lo sembrano. Perché in realtà non lo sono" constatai amaramente, deglutendo a fatica il groppo perenne che mi si era formato in gola.
"Non capisco cosa intendi, cara..." mi rivelò, quasi mortificata.
"Mi dica, dottoressa, se vedesse un uccellino caduto dal nido nel suo giardino, non andrebbe a rialzarlo, e non lo aiuterebbe a tornare al suo posto, dov'è giusto che sia? Se trovasse un cagnolino che vaga da solo per strada, non lo prenderebbe con sé, e non lo aiuterebbe a ritrovare il suo padrone? Se vedesse un uomo che chiede dell'elemosina perché non ha di che vivere, non gli lascerebbe un sostanzioso gruzzoletto per aiutarlo? Se una persona avesse un attacco di panico sotto i suoi occhi, non le presterebbe soccorso? Se qualcuno cadesse a pezzi in sua presenza, indipendentemente da se lo conosce o meno, non proverebbe a capire quale sia il problema, o non proverebbe a consolarlo? Se ha come coinquilina una ragazza che fa sesso con ogni essere maschile che incontra sul suo cammino, non proverebbe a farla ragionare e a spiegarle che, forse, sarebbe il caso che smettesse di cercare qualcuno che riempia il vuoto che ha nel petto in quella maniera? Avrebbe mai prestato attenzione a quell'uccellino, se non fosse caduto dal nido? O a quel cane, se non si fosse trovato a passare dalle sue parti? O a quell'uomo, se fosse stato un passante qualunque? O a quella persona, se non le fosse capitato niente di strano? O a quel qualcuno, se avesse continuato a sorridere e a dire che non c'era niente che non andava? O alla sua coinquilina, se fosse stata una persona perfettamente normale e ordinaria? Le persone si preoccupano solo quando pensano che tu abbia bisogno d'aiuto. Probabilmente tutti loro pensano che io ne abbia bisogno. Non so se mi reputino inetta o stupida, o per quale motivo credano che io sia una povera cretina che non sa cavarsela da sola, ma lo fanno. E io non voglio che le persone stiano con me per compassione" esclamai, tutto d'un fiato, e, a giudicare dal silenzio che seguì le mie parole, dedussi che l'avevo lasciata abbastanza sconvolta.
Risollevai lo sguardo su di lei, e quando lo feci vidi che aveva gli occhi velati dalle lacrime. Forse li avevo anche io, ma non mi importava più, perché avevo deciso, ormai. L'avevo promesso a me stessa: non avrei pianto più. Non meritavano le mie lacrime. Non le meritava nessuno di loro. Non le meritava Lindsay, che, poverina, sin dal primo giorno aveva cercato di instaurare una sottospecie di rapporto con me, anche se con scarsi risultati. Non le meritava Abigail, che non aveva fatto niente di male se non capitarmi come guida quel fatidico giorno. Non le meritava Mike, che mi era stato vicino come poteva, che era l'unico a chiamarmi con un soprannome che utilizzava solo lui, che mi aveva vista sbriciolarmi davanti ai suoi occhi e non aveva detto niente, ma mi era solo stato accanto. Non le meritava Dave, che... maledizione, io ancora dovevo abituarmi all'idea che quel dannato bambino fosse lui. Non le meritavano mamma e papà, che, per quanti sforzi avevano compiuto, non avevano mai provato seriamente a capirmi. E di certo non le meritava Peter, che mi aveva deluso più di tutti. Perché io lo amavo e lui non voleva capirlo. Ma forse, tutto sommato, mi ero innamorata dell'idea che avevo di lui, di come si comportava quando eravamo soli, ma in realtà il vero Peter Poole era un altro, e io ero stata troppo stupida e cieca per accorgermene. Non ero più certa di niente, in quel momento. Sapevo solo che volevo uscire da quella maledetta stanza, prendere il primo autobus, e andare il più lontano possibile da lì. Una lacrima solitaria solcò il bel volto della dottoressa, ma la asciugò rapidamente. Aveva una bellissima collana al collo. Era un punto luce. E indossava anche degli orecchini molto simili.
"È davvero così che ti senti?" sussurrò, quasi come se avesse avuto timore di pronunciare quelle parole, o forse ciò che temeva veramente era la mia risposta.
Io non fiatai, ma il mio silenzio valse più di mille parole. Il mio cellulare riprese a vibrare contro il pavimento, ma a nessuna delle due sembrò importare. Incominciai a grattare via dei residui di smalto dalle unghie, e lei si schiarì la voce, facendo in modo che riportassi gli occhi su di lei.
"Non hai mai pensato che lo facciano perché ti vogliono bene, Celeste?" mi consigliò.
Sembrava distrutta. Chissà chi delle due lo era di più, in quella stanza. Lei in quel momento mi stava dando la conferma di avere ragione. Stava facendo come tutti gli altri: si stava facendo carico di problemi non suoi e ci soffriva. Io ero così, prima. Mi facevo sempre carico dei problemi altrui per alleggerire il peso sulle loro spalle. A costo di spaccare le mie. Mi chiamavano spesso la "croce rossa" della situazione. Poi qualcosa si era spezzato, e avevo iniziato a pensare solo ai miei, di problemi, che già erano insostenibili di loro.
"E allora perché quando affogo non c'è nessuno a salvarmi? - sostenni risolutamente, in riferimento all'incubo che avevo avuto quella notte e a tutto quello che stavo provando in quel momento - Le dico io il perché: lo sbaglio più colossale che una persona possa commettere è fare affidamento su qualcun altro. Non è vero che nessuno si salva da solo. Prima lo si capisce, meglio si va avanti" conclusi, lasciando in pace le mie unghie e raccogliendo il telefono da terra, per poi spegnerlo: perseguiva a vibrare insistentemente, e io non ne potevo più.
Mi stava guardando in modo indecifrabile. Inclinò la testa verso destra e sorrise, ma era diverso dai sorrisi che mi aveva rivolto fino a quel momento: quello non coinvolgeva gli occhi, ed era più che altro un sorriso triste.
"Sei una ragazza molto intelligente, Celeste, ma sei troppo diffidente" decretò, facendomi intuire che la seduta fosse finalmente giunta al termine, perché io, di certo, non avrei aggiunto altro.
×××
Una volta fuori dall'ufficio della dottoressa McCartney avevo deciso di stare un po' da sola. Non mi aspettavo che il discorso con lei prendesse quella piega, ma non ne ero dispiaciuta: avevo fatto maggiore chiarezza nella mia mente, e quella era sicuramente una cosa positiva. Era una bella giornata autunnale: il vento fresco agitava le fronde degli alberi, ed era come una carezza leggera tra le foglie. Ero seduta sotto uno degli alberelli del campus. Il sole, con i suoi raggi sempre meno luminosi - perché si stava avvicinando il tramonto -, riusciva a raggiungermi tramite i piccoli spazi liberi tra le foglie. L'aria sapeva di terra. Ero intenta a disegnare sul mio blocco degli schizzi. Era un secolo che non avevo alcuna ispirazione per cominciare un nuovo disegno, ma la chiacchierata con la psicologa mi aveva dato l'input per un nuovo progetto. La matita era come se si muovesse da sola sulle fibre di carta del foglio, mentre la mia mente dettava direttamente alla mia mano come procedere. Ero concentrata, non mi accorgevo del tempo che passava. Non mi accorsi nemmeno della persona che aveva preso posto al mio fianco, finché non mi diede a parlare.
"Fai quasi venir voglia di diventare quel blocco da disegno, sai?" mi confessò, ridacchiando, e la sua voce mi fece sussultare.
Smisi di scatto di disegnare e mi voltai verso di lui, guardinga. Mi sorrise. Non era uno dei soliti sorrisi che mi rivolgeva. Non era un'espressione maliziosa, la sua. Era un sorriso sincero, che veniva dal cuore. Lo fissai inespressiva, attendendo che mi spiegasse quantomeno cosa ci facesse lì. Il suo sorriso si affievolì a poco a poco, fino a tramutarsi in un'espressione abbattuta e poi incredibilmente seria.
"Celeste..." sospirò, grattandosi la nuca con una mano.
Per la seconda volta in mia presenza, sembrava a corto di parole, e sembrava anche visibilmente nervoso.
"Non sono bravo con le persone, okay? Per niente. E mi sono comportato da vero stronzo, con te. Però vorrei in qualche modo rimediare e..." preluse, alternando lo sguardo da me all'erba sulla quale eravamo seduti.
"Dave..." lo interruppi, sospirando anche io.
"No, Celeste, davvero. Voglio ricominciare daccapo. Pensi sia possibile?".
Incastrò gli occhi blu nei miei, e non so perché rimasi momentaneamente senza fiato. Non risposi. Si appoggiò con la testa al tronco dell'albero dietro di noi e fissò un punto davanti a lui, corrugando per qualche attimo le sopracciglia e serrando la mascella. Feci per girarmi anche io nella direzione in cui stava guardando lui, ma me lo impedì, tirando fuori dalla tasca dei jeans un cofanetto e porgendomelo. Lo guardai stranita, e lui mi incitò con gli occhi ad aprirlo, rivolgendomi un piccolo sorriso. Aprii, titubante, la scatolina, e rimasi davvero senza fiato, quando vidi cosa conteneva.
"Da aeroplanino a farfalla, no?" domandò retoricamente, sorridendo più ampiamente.
C'era una collana a forma di farfalla. Era costituita da una serie di brillantini rosa, ed era bellissima. In quel momento ebbi la certezza che Dave Duncan era sul serio il bambino senza nome che popolava i miei sogni e i miei ricordi ricorrenti. E, in uno slancio impulsivo, mi catapultai tra le sue braccia, rischiando quasi di far cadere la collana a terra. Non sapevo perché avessi iniziato a ridere, ma anche lui rise, quindi non me ne preoccupai più di tanto. Avvolsi le braccia attorno al suo collo, e lui mi cinse il busto con le sue, stringendomi più forte. Il mio blocco da disegno e la matita caddero sull'erba. Dopo qualche attimo mi distanziai da lui, imbarazzata per quello che avevo fatto, e lui mi sorrise, mentre le mie guance si tingevano di rosso. Raccolsi da terra le mie cose e le sistemai all'interno del mio zaino, poggiando il cofanetto sul terreno. Lui vi prese la collana da dentro e aprì il gancetto.
"Posso?" mi chiese, quando finii di mettere a posto la mia roba, domandandomi il permesso per mettermela al collo.
Acconsentii, sorridendo, e mi voltai di spalle. Mi spostò i capelli da un lato e mi fece passare la collana davanti al viso, per poi chiudermi la catenina argentata dietro la nuca. Sorrisi ancora di più guardandola, e quando mi rigirai verso di lui stava sorridendo a sua volta. Mi fissò a lungo negli occhi, senza distogliere lo sguardo, e io arrossii nuovamente e abbassai il mio, prima che lui ridacchiasse e mi ponesse l'indice di una mano sotto il mento, per esortarmi a risollevarlo su di lui.
"Ti va di venire in un posto con me?" indagò a un certo punto, e, prima ancora che un antipaticissimo déjà-vu potesse prendere il sopravvento nella mia mente, mi misi in piedi, gli tesi una mano per aiutarlo a fare altrettanto e gli sorrisi.
"Certo" acconsentii, mentre lui ricambiava il mio sorriso.
"I'm not asking for a lot, just that you're
Honest with me. My pride is all I got".
N/A
Se dovessi spiegarvi il perché mi sia venuto da piangere, scrivendo questo capitolo, non ve lo saprei dire.
Capitolo revisionato.
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