20. Kiss Me
"Lie down with me, and hold me in
Your arms.
And your heart's against my chest,
Your lips pressed in my neck, I'm falling
For your eyes, but they don't know me yet.
And with a feeling I'll forget, I'm in love now".
Stentai quasi a credere che quella frase fosse davvero uscita dalle mie labbra. Le stesse che, in quel momento, erano solo a pochi centimetri dalle sue. Trattenni il respiro, e ogni cosa attorno a me sembrò non esserci più, sembrò scomparire gradualmente, mentre lui mi sorrideva, sbarazzino, con quel suo sorriso mozzafiato, e mi si avvicinava con lentezza. Le sue mani erano ancora sui miei fianchi. Non oso neppure immaginare l'espressione che dovevo aver assunto, anche perché non ci riuscirei. Era come se il tempo si fosse fermato, oppure come se stesse procedendo così a rilento, da risultare nullo. Poggiò la fronte alla mia. Eravamo pelle contro pelle. I nostri nasi si sfioravano. Sentivo addirittura l'odore evanescente della pittura ormai asciutta sulle sue guance. Un suo ciuffo ribelle mi solleticava la fronte. I miei occhi erano nei suoi e i suoi nei miei. Mi vedevo riflessa nei suoi. A quella vicinanza potevo affermare senza ombra di dubbio che non erano né celesti né verdi. Erano grigi. Incredibilmente grigi, con il contorno dell'iride azzurro e delle pagliuzze verdi qua e là. Però rimanevano i più belli che avessi mai visto. Mi stava ancora sorridendo, e io lo imitai presto. Tolse la mano destra dal mio rispettivo fianco e mi accarezzò una guancia. Il tocco fu così delicato, ma lo percepii senz'altro, perché tutto il mio corpo scattò sull'attenti al contatto con le sue dita fredde, e il sangue cominciò ad affluirmi alle guance. I nostri respiri si fondevano e confondevano. Il mio sapeva ancora di cioccolata, il suo assomigliava a quello delle gomme da masticare alla menta. Quando il suo sguardo passò dai miei occhi alle mie labbra, quasi pensai di tirarmi indietro. Sapevo più che bene che, se mi avesse davvero baciata, il nastro non si sarebbe potuto riavvolgere mai più. Me la facevo sotto dalla paura. L'avevo voluto io. L'avevo provocato io. Era a causa mia che eravamo in quella situazione. Però ero così terrorizzata all'idea di poter rovinare tutto... E, alla fine, rovinai tutto per davvero.
"Peter..." mormorai, con il cuore in gola che mi faceva far fatica a parlare.
Per tutta risposta, i suoi occhi saettarono subito di nuovo nei miei. Aggrottò le sopracciglia e aspettò che dicessi qualcosa, ma non avevo molto da dire, in verità. Io volevo baciarlo. Lo volevo dannatamente tanto. Forse troppo. Era quello il problema. L'ultima volta che avevo sperato così tanto in qualcosa, quel qualcosa aveva finito per rivoltarmisi contro. Non volevo che accadesse lo stesso. Ma non era quello il motivo. Quelle erano solo le scuse futili che continuavo a propinarmi per non darmi dell'idiota codarda, ma la verità era che la mia paura più grande era che con quel bacio i miei sentimenti per lui si moltiplicassero, triplicassero, fino ad arrivare a essere troppo ingestibili e grandi per me, che solo una volta nella mia vita avevo provato sensazioni simili. Anche se per Dave, quando eravamo più piccoli, non pensavo comunque di aver provato qualcosa di così forte e potente. Non potevo rischiare di legarmi così strettamente a una persona (anche se, volente o nolente, l'avevo già inesorabilmente fatto). Baciare Peter non sarebbe stato come baciare un ragazzo qualsiasi, cosa che facevo in continuazione. Baciare Peter avrebbe significato consegnargli il mio cuore e dirgli: "Tieni, fanne ciò che vuoi", e io non potevo farlo. L'avevo già fatto una volta, in passato, e le cose si erano capovolte a tal punto, da fare in modo che l'unica a rimanere distrutta e devastata fossi io. Non stavo mettendo in dubbio i miei sentimenti nei suoi confronti, affatto, ma la mia mia capacità di controllarli, e la sua di custodirli. Rimasi per un po' con le labbra schiuse, cercando una scusa quantomeno plausibile da rifilargli, ma non ce ne fu bisogno. Gli irrigatori antincendio sul soffitto iniziarono all'improvviso a far piovere acqua ovunque, e noi ci ritrovammo sempre più bagnati, fino ad avere i vestiti appiccicati addosso. Non capivamo cosa stesse succedendo, però c'era un'assordante sirena che seguitava a risuonare ovunque. Peter si era allontanato da me rapidamente, confuso, quando l'acqua aveva incominciato a scrosciare. Mi chiesi se non fossi provvista di poteri soprannaturali, che mi consentivano addirittura di far scattare l'allarme antincendio quando ero in difficoltà, ma poi ci fu una voce metallica - che si diffuse attraverso gli altoparlanti a muro - che smontò le mie appena maturate convinzioni: "Ci è stata segnalata un'anomalia, in una delle cucine del college residenziale, che ha fatto scattare l'allarme. Gli studenti sono pregati di mantenere la calma e di dirigersi verso l'uscita di emergenza a loro più vicina, che è sicuramente indicata sul piano d'evacuazione del corrispettivo piano. Il punto di ritrovo è l'entrata dell'edificio principale. Mi raccomando, non accalcatevi". Io e Peter ci guardammo, mentre avevamo gocce d'acqua che ci scivolavano sul viso e continuavano a bagnarci secondo dopo secondo, facendo aderire i nostri abiti sempre di più ai nostri corpi e i nostri capelli alle nostre teste. Mi prese per mano e mi trascinò per le scale interne per scendere al piano inferiore, e da lì accedere alle scale esterne per uscire fuori e raggiungere l'entrata. L'aria che sferzava fredda contro la mia pelle bagnata mi provocava frequenti brividi un po' ovunque. O forse era la stretta della mano di Peter attorno alla mia. O il pensiero di quello che stava per succedere pochi attimi prima. Mi stavo dando ancora dell'idiota bipolare, e stavo ancora riprendendo mentalmente me stessa per aver dato l'ennesima dimostrazione di essere una contraddizione vivente, quando arrivammo al punto di ritrovo e ci unimmo agli altri. Peter mi lasciò la mano e mi promise che sarebbe tornato presto, mentre chiedeva un po' in giro cosa fosse successo. Non vedevo Lindsay e Abigail da nessuna parte, ma pensai che, forse, non fossero ancora rientrate e avessero seguito Mike al Rockefeller. Invece, pochi attimi dopo, le vidi corrermi incontro completamente fradice, mentre ridevano come matte.
"Oddio, Celeste!" esordì Lindsay, per poi riprendere a ridere convulsamente.
Sorrisi anch'io, sia perché la sua risata era incredibilmente coinvolgente, sia perché la situazione era un po' paradossale. Lì tutti se la stavano facendo sotto dalla paura, e loro ridevano... Poi collegai le due cose, e assunsi un'espressione più che sconcertata.
"Non ci credo! Avete fatto scattare l'allarme? Ma come diavolo è stato possibile?" domandai, tentando disperatamente di rimanere seria, ma facendomi scappare una risatina.
La mia constatazione le fece ridere ancora di più, e io mi unii a loro, mentre scuotevo la testa, ormai sconsolata.
"Siamo andate in cucina per fare uno spuntino, visto che stavamo morendo di fame. Però non abbiamo fatto la spesa, ultimamente, e poi toccava a Page questa settimana. Ma quella rimbambita non ha comprato altro che un'immensa scorta di gaufre e Nutella. Allora ho detto a Lindsay: «Ehi, che ne dici di scaldarcene due e poi spalmarci sopra un po' di Nutella?», e lei ha detto: «Oh, sì, perché no». Così..." Abigail preluse narrandomi gli albori della vicenda, ma non riuscì a terminare il racconto, perché riprese a ridere a crepapelle.
"Così ne ho prese due e le ho appoggiate su un piattino di ceramica. Poi ho messo il piatto nel microonde e ho impostato un minuto sul timer. Mi sono girata un secondo - Celeste, ti giuro che è stato solo un secondo - per prendere la Nutella dal mobiletto, e quando mi sono rigirata c'era fumo ovunque. Abigail ha urlato: «O mio Dio!» e ha preso uno strofinaccio, cominciando a fare aria. Io ho aperto la finestra - sai, quella che dà sull'edificio nel quale si svolgono le lezioni - e ho spento il microonde, aprendolo e tirando fuori con una presina le due gaufre, che erano ormai totalmente nere e bruciate, e puzzavano tantissimo. Abbiamo iniziato a ridere, e poi è improvvisamente scattato l'allarme e siamo scappate" concluse Lindsay, passandosi le mani sotto gli occhi e stropicciandoseli, per poi affievolire la sua risata.
Presi a ridere anch'io, consapevole del fatto che la maggior parte delle persone stava cercando di risalire alla causa per la quale si era attivato l'allarme, e non avrebbe mai pensato che la colpa era di due ragazze idiote e incapaci. Peter ci raggiunse qualche minuto dopo, trovandoci ancora a ridere, ma, per fortuna di quelle due, non chiese niente. Dopo un po' sopraggiunse anche la direttrice, con un pigiama rosa con delle paperelle stampate sopra e i capelli del tutto scombinati, dichiarando che in realtà non c'era stato nessun incendio, e che era stata solo un'esercitazione. Ovviamente tutti imprecarono, perché era assurdo programmare un'esercitazione a quell'ora di notte. Nessuno si accorse di due ragazze in disparte che ridevano ancora sotto i baffi, fortunatamente.
×××
Quella notte non riuscivo per niente a prendere sonno. Il pensiero delle labbra di Peter così vicine alle mie si faceva sempre più insistente. Non capivo cosa mi fosse successo. Avevo fatto tutto da sola, per di più. Lui voleva solo diminuire il flusso di sangue che stava fuoriuscendo dal taglio, non credo volesse spingersi più in là di quello. Mi fissavo l'indice (al quale avevo applicato un cerotto color carne - fornitomi da Lindsay, naturalmente; perché, oltre agli assorbenti, avevo scordato anche il kit di pronto soccorso) e mi maledicevo per quanto ero stata stupida e fifona. Lindsay dormiva ormai da un pezzo. Dopo essersi fatta una lunga - e sottolineo lunga - doccia, si era praticamente tuffata nel letto e aveva preso immediatamente sonno. Quando aveva lasciato il bagno libero, mi ero fatta una doccia anch'io, e lei non si era svegliata neppure con il rumore del phon (segno che dormiva davvero profondamente). Io non avevo chiuso occhio nemmeno per un minuto. L'unica fonte di illuminazione della stanza era la debolissima luce di un lampione, che, da fuori alla finestra, si rifletteva sul pavimento. Mi rigirai nel letto per la milionesima volta, per poi prendere una decisione che reputavo abbastanza stupida - ma tanto quella era la giornata delle cose stupide, quindi una in più che male avrebbe mai fatto? - e infilarmi degli scarponcini presi a casaccio da sotto il letto. Mi misi in piedi e indossai il cappotto verde militare - dato che l'altro era ancora bagnato a causa degli irrigatori, ed era in una cesta insieme a tutte le altre cose che Lindsay avrebbe portato l'indomani in lavanderia ad asciugare - che avevo lasciato sullo schienale di una delle sedie accanto alla scrivania. Presi le chiavi della stanza e il cellulare - staccandolo dal caricabatteria - e li ficcai in una tasca, per poi aprire la porta e chiudermela cautamente alle spalle. Non so perché incominciai a correre, visto che non c'era fretta e che era, per di più, notte fonda. Le luci del corridoio si accesero al mio passaggio. Chiamai l'ascensore, ma era al pianoterra, e avrebbe impiegato troppo tempo per arrivare al mio, quindi scesi le scale il più velocemente possibile, e percorsi non so quante rampe, provocandomi un dolore non indifferente alle gambe. Sorpassai con rapidità l'uomo alla reception, che mi osservò abbastanza stranito, e uscii all'aria aperta, sentendo immediatamente l'umidità di fine settembre investirmi. Il mio respiro affannato faceva sì che si formassero delle piccole nuvolette di condensa all'altezza della mia bocca. Il frinire dei grilli era l'unico suono percepibile nei dintorni. C'erano solo i pali della luce a illuminare il campus e a evitarmi di andare a sbattere contro qualcosa. Corsi più velocemente che potevo fino al Rockefeller, con il cuore che batteva come un tamburo e il fiato corto. I polmoni mi stavano andando a fuoco. Alla reception c'era una donna dai tratti cinesi, ma non mi soffermai più di tanto su di lei, per quanto alla svelta la superai. Notai solo sul suo viso la stessa, identica espressione che aveva assunto l'uomo alla reception del mio dormitorio. Naturalmente, l'ascensore era guasto, ma che lo dico a fare. Mi appoggiai per qualche secondo al muro per prendere fiato e imboccai le scale. La salita era diecimila volte peggio della discesa. Quasi non sentivo più i muscoli delle cosce, per quanto facevano male. E quasi non mi parve vero quando arrivai davanti alla sua porta. Alzai una mano chiusa a pugno per bussare, affannata e accaldata, ma poi la riabbassai lentamente. "Ma che sto facendo?" era la domanda che mi fluttuava in testa ripetutamente. Pensai che Peter stesse sicuramente dormendo, così come Mike, e che non avrebbero per niente apprezzato una visita notturna a quell'ora. Certamente non dopo una giornata e una serata così impegnative come quelle che avevamo appena affrontato. Appoggiai la fronte alla porta, sentendo il battito cardiaco rallentare e il respiro regolarizzarsi, e chiusi gli occhi per qualche secondo. Quando mi rigirai per tornarmene in camera, per poco non cacciai un urlo disumano per lo spavento. Mi portai una mano sulle labbra e una sul cuore, che aveva ripreso a battermi all'impazzata per la paura, e tirai un sospiro di sollievo quando misi a fuoco la figura dinanzi ai miei occhi.
"Che ci fai qui?" inquisì, sussurrando, provando invano a celare un sorriso.
"Potrei farti la stessa domanda" ribattei, rimuovendo la mano dalla bocca ma lasciando l'altra sul cuore, ancora scossa.
"Sei tu quella davanti alla porta della mia stanza" rispose, incrociando le braccia al petto e sorridendo come chi la sa lunga.
"Sei tu quello che è dalla parte sbagliata della porta" constatai, riferendomi al fatto che fosse fuori e non dentro la sua stanza, incrociando le braccia a mia volta.
"Touché" si arrese ridacchiando, riportando le braccia lungo i fianchi e cominciando a fissarmi.
Anche lui era in pigiama. Anche lui aveva un cappotto addosso. Anche lui aveva ai piedi delle calzature che non si era neanche allacciato. Lasciai cadere le braccia anche io e sospirai, guardando prima la moquette grigia per terra e poi i suoi occhi.
"Volevo vederti, ed ero venuta a cercarti" ammisi, scrutandolo attentamente per captare un qualche tipo di reazione da parte sua.
"Anch'io" disse soltanto, in un sussurro, facendo un passo verso di me.
A quella confessione il mio cuore prese a battere di nuovo alla velocità di un branco di cavalli imbizzarrito in corsa. Lo stomaco mi si attorcigliò tutto su se stesso.
"E come mai volevi vedermi?" mi chiese, facendosi sempre più vicino, sorridendo come un idiota.
Avrei tanto voluto togliergli quell'espressione da ebete dalla faccia, ma era adorabile, e io ero troppo stanca, affaticata e innamorata per rispondere qualcos'altro che non fosse: "Avevamo lasciato qualcosa in sospeso". Ormai era a meno di un centimetro di distanza, e io ero letteralmente incollata alla porta della sua stanza. Il suo sorriso si fece ancora più ampio, e si appoggiò alla porta dietro di me con entrambe le mani. Il suo respiro si poteva ancora fondere con il mio. Ma stavolta sapevamo entrambi di dentifricio. Lui profumava di bagnoschiuma da uomo. I suoi occhi erano sempre gli stessi, ma mi sembravano più belli ogni volta che mi ci perdevo dentro.
"Cosa, di preciso?" indagò, con quel sorrisetto imbecille che non si azzardava a sparire dalla sua faccia.
Stava seriamente iniziando a seccarmi. Sbuffai e sgusciai da sotto un suo braccio, intenzionata a imboccare nuovamente le scale e a lasciarlo lì a bocca asciutta. Lui però mi afferrò una mano, cogliendomi alla sprovvista, e mi attirò a sé, facendomi fare una piccola giravolta, per poi atterrare dritta tra le sue braccia. Ero confusa, avevo entrambe le mani sul suo petto, che si alzava e abbassava più speditamente del dovuto, e una delle sue era ancora stretta alla mia, mentre l'altra era dietro la mia schiena. Ebbi solo il tempo di corrugare le sopracciglia e sollevare gli occhi verso di lui, perché poi si abbassò celermente alla mia altezza e congiunse le labbra alle mie. Stava sorridendo. Probabilmente lo stavo facendo anche io. Mi fischiavano le orecchie e mi tremavano le gambe. Trattenni il fiato e chiusi gli occhi, per poi portare le mani sul suo collo, mentre lui mi cingeva il busto con le braccia. Avevo talmente tante farfalle nello stomaco, che aveva cominciato a farmi male la pancia. E il mio cuore batteva così maledettamente forte, che pensavo sarei andata in tachicardia da un momento all'altro, sempre se non ci fossi andata già. Fu un bacio semplice, e soprattutto breve. Molto breve. Troppo breve. Ma altrettanto breve fu lo sguardo che ci scambiammo quando si distanziò, perché le sue labbra furono di nuovo sulle mie, e le mie sulle sue, in un connubio di dolcezza e passione. All'inizio ci furono solo piccoli baci brevi a fior di labbra, dei piccoli assaggi, finché non sentii come un fuoco accendersi dentro di me - e dovette sentirlo anche lui -, e i baci diventarono sempre più lunghi, e le pause sempre più corte. Mi spinse a indietreggiare fino a quando la mia schiena non toccò il muro opposto a quello della sua stanza, e da lì non capii più niente. Portai le mani sulla sua nuca, tra i suoi capelli, e lui mise le sue a metà strada tra i miei fianchi e il mio seno. Percepii la sua lingua prima sulle labbra e poi sui denti, fino a quando mandai al diavolo tutto e tutti e feci sì che potesse approfondire il bacio. Ci avevo visto giusto: sapeva di dentifricio alla fragola. Avevo le pulsazioni così accelerate, ed ero sicuramente più accaldata di quanto fossi prima, e mi faceva così tanto male la pancia, ma stavo baciando il ragazzo che amavo, e pensai che fosse quello ciò che si prova quando si bacia la persona che si ama. Mi ritrovai a desiderare con tutta me stessa che stesse sentendo le stesse cose. Quando le nostre labbra si separarono, eravamo entrambi ansimanti, e quando ci guardammo negli occhi sorridemmo sincronicamente come due perfetti imbecilli. Eravamo due idioti imbecilli, ma lo amavo, e probabilmente le persone innamorate sono tutte idiote e imbecilli. Fece scivolare la mano destra nella mia sinistra e incrociò le nostre dita, per poi portarsi l'intreccio alle labbra e baciarlo. Il tutto mentre aveva gli occhi incatenati ai miei e gli angoli delle labbra rivolti all'insù. Immagino che anche io avessi quell'espressione in viso. Poggiai la fronte alla sua e chiusi gli occhi, respirando a fondo e cercando di metabolizzare quello che era appena successo.
"Celeste?" la sua voce era così roca, e il suo respiro così mozzato, che dovetti trattenermi con tutte le mie forze per non riprendere a baciare quelle labbra, di cui sapevo non mi sarei mai saziata.
"Mm?" mugolai, mantenendo gli occhi chiusi, mentre lui intrecciava alle mie anche le dita dell'altra mano.
"Ti fanno ancora male?" si informò, alludendo alle mie labbra e al gioco stupido che avevamo iniziato a fare qualche ora prima.
Ridacchiai e scossi la testa, inalando il suo profumo inebriante. Aprii di poco gli occhi e mi accorsi che stava sorridendo anche lui.
"Ti va di aspettare l'alba insieme?" mi domandò dopo un po', ma avrei detto di sì anche se mi avesse proposto di scalare l'Everest, pur di rimanere ancora un po' con lui e non tornare nel mio letto, troppo grande per una persona sola e troppo freddo rispetto al calore che mi si propagava in corpo solo standogli vicino.
×××
"Quella dovrebbe essere la cintura di Orione. La vedi? Quella che sembra una clessidra" mi disse, indicando con un dito la costellazione proprio sopra le nostre teste.
Eravamo sul tetto dell'edificio, stretti nei nostri cappotti per non morire di freddo, stesi su delle lenzuola che aveva raccapezzato nella sua stanza. Indossavamo entrambi un cappellino di lana. A me ne aveva prestato uno suo, siccome nessuno dei due aveva avuto voglia di tornare in camera mia a prenderne uno mio. Le nostre dita erano intrecciate, e la mia testa era poggiata alla sua spalla sinistra. Fosse stato per me, sarei rimasta su quel tetto per l'eternità.
"A me sembrano tutte uguali" confessai, ridendo, facendo ridacchiare anche lui, che scosse la testa, rassegnato, e mi lasciò un tenero bacio su una tempia.
Strinsi la sua mano e sospirai. Guardai il cielo scuro con degli sprazzi irregolari di stelle e mi chiesi cosa ci fosse al di là di queste ultime, delle nuvole e al di sopra dell'atmosfera. Mi domandai se esistessero gli alieni, e se in quel momento ci stessero guardando, da lassù. Ma era un pensiero alquanto egoistico, perché c'erano miliardi di esseri, sulla Terra, e gli extraterrestri non avrebbero avuto motivo di concentrarsi proprio su noi due. In quel momento, però, credevo che fossimo lo spettacolo più bello dell'universo intero.
"Qual è il tuo colore preferito?" si informò, dopo un po', sfregando il pollice sul dorso della mia mano.
Scrollai le spalle. Non ci avevo mai pensato. E poi nessuno mai me l'aveva chiesto, fino a quel momento. Mi veniva da rispondere: "Grigio" - nonostante odiassi le terre di mezzo -, perché avevo recentemente scoperto che era il colore dei suoi occhi, tuttavia non lo feci.
"Il rosa antico" dichiarai invece, girandomi di poco verso di lui per vedere che espressione aveva assunto.
"Quindi ti sei colorata i capelli perché ti piace il colore, non per una scommessa" dedusse, senza guardarmi, crucciato, con le labbra premute saldamente tra loro.
E, se mi soffermavo per qualche secondo a pensare che quelle labbra grandi e screpolate erano state sulle mie solo qualche ora prima, il mio cuore accelerava automaticamente i suoi battiti. Arrossii e mi riconcentrai sulla sua osservazione.
"No... L'ho fatto per una scommessa, però ora, tutto sommato, il colore mi piace" riconobbi, scrutando il suo viso, che fissava pensieroso il cielo antistante.
"Credi che Dave sia sincero?" la buttò lì all'improvviso, anticipandomi di poco, quando stavo per chiedergli quale fosse il suo, di colore preferito.
Sgranai gli occhi e percepii una fitta allo stomaco. Cosa stava insinuando? Perché non sarebbe dovuto essere sincero, secondo lui? E com'era passato dal chiedermi quale fosse il mio colore preferito a quello? Ero sicura di non avergli detto che la scommessa l'avevo fatta con quel bambino, quindi non mi spiegavo il percorso che aveva fatto il suo cervello per arrivare a quel punto.
"Perché non dovrebbe esserlo? Io non gli ho mai parlato di quel bambino, e non avrebbe potuto sapere in altro modo le cose che mi ha detto" lo difesi, ostinata, seppure non meritasse di essere difeso, visto come si era comportato.
"E se invece l'avessi fatto? Tanto non ricordi mai le cose che dici o fai quando sei ubriaca..." ribatté, convinto, voltandosi e incontrando i miei occhi.
Mi si bloccò il respiro. Non riuscivo a decifrare il suo sguardo, e avevo la strana sensazione che, in verità, quelle parole celassero un doppio senso. Allontanai la mano dalla sua e lui non si mosse.
"È successo solo una volta in sua presenza, e non avevo ancora iniziato a fare quei sogni assurdi" sostenni, cominciando a gradire sempre meno la piega che stava prendendo la conversazione.
Mi osservò a lungo. Forse stava meditando sulle parole giuste da dire per non ferirmi. Purtroppo, però, l'aveva già fatto. Ma non potevo lamentarmi, perché la sua era solo una semplice constatazione. Fondata, per di più.
"Non mi fido di lui" enunciò semplicemente, rigirandosi verso il cielo, con le sopracciglia ancora aggrottate.
"Non è tua la fiducia che deve avere" mormorai, stringendo le mani a pugno e facendomi male perché le unghie mi graffiavano la pelle.
Il taglio al dito riprese a farmi male, e potevo percepire il sangue caldo riversarsi nuovamente contro il cerotto. Probabilmente avevo fatto in modo che si riaprisse la ferita. Ma quella non era l'unica ferita a essersi riaperta.
"E tu ti fidi del primo che capita?" la sua voce uscì come un sussurro, e a stento lo udii, ma compresi fin troppo bene le sue parole.
E non ci pensai due volte a sollevarmi a sedere, togliermi il cappello dalla testa, buttarglielo in faccia e dichiarare: "Senti, Peter, vaffanculo". Fanculo a lui, a Dave, all'alba che mi sarei persa, a me che gli avevo permesso di baciarmi e che mi ero ficcata in quella situazione assurda. Mi alzai e me ne andai, rossa dalla rabbia e più infuriata che mai, perché non doveva permettersi di dire quelle cose. Solo quando fui in camera realizzai che in realtà mi ero arrabbiata perché aveva detto cose vere, ma nel modo sbagliato. A quel punto indirizzai tutta la mia rabbia verso me stessa, trovando ironico come con un vaffanculo fosse iniziata e con un vaffanculo fosse finita. E a pensare che, fino a qualche minuto prima, ero la persona più felice della Terra, delle lacrime silenziose cominciarono a rigarmi le guance, mentre il mondo mi cadeva addosso tutto in una volta.
"Kiss me like you wanna be loved.
This feels like falling in love.
[...]
I'm cold as the wind blows, so hold
Me in your arms".
N/A
Ci tenevo a precisare che, purtroppo, anche se vi sembrerà più che surreale, gli eventi narrati all'inizio di questo capitolo sono realmente accaduti. Sì, avete capito bene: sono talmente anormale, da far scattare un allarme antincendio mentre volevo solo cuocere un waffle. Ma, per fortuna, nessuno ha realizzato che è stata colpa mia. Ero in vacanza a Londra, e pensavo che il microonde della cucina del college non fosse talmente inceppato da praticamente esplodere dopo due secondi (una mia amica l'aveva usato pochi attimi prima, e FUNZIONAVA, mannaggia!). Quindi sono io quella con dei problemi, sì. Per sfortuna non avevo un Peter che stavo quasi per baciare, ma mi è bastato il panico di poter essere scoperta, in quella occasione. Se vi interessa, mi sto ancora schiattando dal ridere ripensandoci. Anche perché è andata esattamente così, e davvero una mia amica aveva preso uno strofinaccio e... AHAHHAHAHAHAHAHA
Detto questo, un bacio, e grazie per i commenti dolcissimi e carinissimi che ogni tanto lasciate a fine capitolo: mi fanno sorridere.
Rita x
Capitolo revisionato.
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