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16. No One Else Like You

"Is everything just right? Don't want
You thinking that I'm in a hurry. I
Want to stay your friend. I have this
Vision that has got me worried,

Because everyone wants someone.
That's one cliché that's true. The sad
Truth's I want no one, unless that
Someone's you".

"Dave?" domandai, stupita, sbarrando gli occhi.

Era ubriaco marcio. Si vedeva e si avvertiva chiaramente dal suo alito. Si manteneva saldamente a uno stipite della porta per far sì che le sue gambe non cedessero. E c'era un insistente odore di alcool che lo avvolgeva come una nuvola.

"Celeste..." mormorò soltanto, prima di cadere, letteralmente, ai miei piedi, incapace di reggersi sui suoi.

Si mise a gattoni, concentrando il peso sulle mani e sulle ginocchia. Mi accovacciai alla sua altezza e, non so grazie a quale intervento divino, ebbi la prontezza di afferrare rapidamente il cestino da sotto la scrivania e posizionarglielo davanti alla bocca, prima che iniziasse a vomitare sul mio pavimento. Si sedette, poi, stringendolo a sé, e ciò mi permise di chiudere finalmente la porta, smettendo così di dare spettacolo in corridoio. Appoggiò testa e schiena al muro e serrò gli occhi. Non aveva ancora rimesso, e aveva un'espressione così distrutta, che non me la sentii di richiamarlo e cacciarlo dalla mia stanza, nonostante fossero le quattro del mattino. Ma tanto era domenica, quindi la cosa non mi creava chissà che problemi. In tutto ciò, Lindsay aveva ripreso immediatamente sonno, non si era accorta di niente, e continuava a dormire in tranquillità. Presi un respiro profondo, mi sedei anch'io, distolsi lo sguardo dalla mia coinquilina e mi rigirai verso Dave, che era già più sereno, e mi chiesi se, magari, non si fosse addormentato.

"C'è una cosa che devo... devo dirti... devi saperlo..." sussurrò a fatica, aprendo lentamente gli occhi, facendomi perdere in quel mare in tempesta.

Assottigliai i miei e aggrottai le sopracciglia, confusa.

"Ne parliamo domani. Ora riposa un po', okay?" lo incitai, in tono rassicurante, sorridendogli.

Non era per niente nelle condizioni di sostenere una conversazione e, sebbene morissi dalla voglia di sapere perché avesse sentito il bisogno di precipitarsi nella mia stanza con tanta urgenza, dovevo aspettare. Era una situazione assurda. Più che assurda. Dave Duncan, il ragazzo a cui avevo provocato una reazione allergica e che mi aveva aggredita davanti a un sacco di gente in mezzo a un corridoio, era nella mia stanza. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero fisso di voler capire cosa volesse dirmi, però. Purtroppo o per fortuna si addormentò poco dopo, mentre io rimasi a fissarlo, lui e la sua espressione totalmente rilassata e pacifica. Mi chiesi se avessi anch'io quell'espressione quando dormivo... ma ne dubitavo altamente. Un mucchio di interrogativi mi vorticava in testa, impedendomi di prendere sonno, costringendomi a non riuscire a distogliere lo sguardo da quel ragazzo bello ma dannato che avevo di fronte. Cosa voleva dirmi? Beh, poi lo scoprii per vie trasverse. Ancora non so dire se fu un bene o meno quella scoperta. Probabilmente era già stato scritto che le cose sarebbero dovute andare in quel modo...

×××

"Lui dov'è?" inquisii, percependo già un'orribile sensazione prendere il sopravvento dentro di me.

Mamma esitò. Papà abbassò gli occhi a terra. Mia sorella Milah fece altrettanto. Sentivo le lacrime prendere forma nei miei occhi, ma non intendevo minimamente piangere e darla loro vinta. Mi feci coraggio e pronunciai con quel poco fiato che avevo ancora in gola la fatidica domanda, a cui mi fu di nuovo impedito di ricevere una risposta. Al che non fui più in grado di trattenermi, e iniziai a urlare.

"Ditemi dove diamine è, per l'amor del cielo!" sbraitai, non essendo più capace di restare in piedi, cadendo in ginocchio sul freddo pavimento della cucina.

"Se n'è andato, Celeste" disse Milah, in un tono che più gelido e disinteressato non sarebbe potuto essere.

Mamma mi guardò impassibile, ma i suoi occhi tradivano un velo appena accennato di compassione. A lei non era mai piaciuto. Solamente perché i suoi genitori non guadagnavano minimo centoventimila dollari l'anno. O perché non avevano una Porche o una Lamborghini. Oppure perché sua madre non vestiva Gucci e Prada. O perché suo padre non portava un Rolex diverso al giorno. Solamente perché arrivavano a stento a fine mese. Perché qualche volta lui indossava un calzino di un colore e uno di un altro. Perché sua madre non riusciva a fare sempre il bucato, e suo padre andava a lavoro con una macchia di caffè sulla maglietta, già indossata il giorno prima e quello prima ancora. Perché suo padre non poteva comprare degli Swarovski a sua mamma per il compleanno o per Natale, ma la amava sopra ogni cosa e le avrebbe dato anche il mondo. Perché lui non aveva tutti i giocattoli e i videogiochi appena usciti e nuovi di zecca, ma dovevamo giocare con delle vecchie bambole di pezza della mamma e modellini di gladiatori del padre, e inventare giochi tutti nuovi con l'immaginazione. Perché veniva con i libri usati a scuola, e io il più delle volte dovevo prestargli i miei, perché dai suoi tutti sottolineati non capiva niente. Perché suo padre lavorava fino allo stremo delle forze e sua madre pure, e lui stava sempre con me a studiare e poi in giardino a giocare fino a sera tardi, altrimenti sarebbe stato solo. Eppure, nonostante mamma non lo tollerasse, mia sorella anche, e papà non si esprimesse sull'argomento, io, sebbene fossi ancora forse troppo piccola, forse troppo ingenua, mi ero completamente innamorata di lui. Forse inconsciamente, forse non dovevo, ma era successo. Mi ero innamorata della sua inventiva, della sua mente brillante, della sua spensieratezza, del suo modo di prendere la vita di petto nonostante tutti i problemi della sua famiglia, dei sorrisi che mi rivolgeva per consolarmi benché stesse affrontando un periodo orrendo, delle lacrime che aveva versato quando mi aveva detto che i suoi avevano parlato di un trasferimento, anni prima, che poi era effettivamente avvenuto, perché non riuscivano più a sostenere i debiti. Così, quando compresi che lui non ci sarebbe stato, che non ci sarebbe stato mai più, non potei far altro se non sentire un enorme groppo in gola e il rumore del mio cuore che andava in frantumi.

"Senza neanche salutarmi" constatai, con un fil di voce, mentre la consapevolezza di averlo perduto per sempre prese con rapidità piede dentro di me.

"Celeste!" gridò qualcuno.

Percepii una presa salda sulle mie spalle. Quel qualcuno mi stava scuotendo. Non capivo perché. Non capivo cosa stesse accadendo, così socchiusi gli occhi e, piano piano, l'immagine sfocata davanti a me prese forma e divenne più nitida. C'erano Lindsay e Dave che mi guardavano allarmati, ma non capivo il perché neanche di quello. Poi mi resi conto di avere il respiro affannato, e delle lacrime ormai essiccate sulle guance.

"Cos'è successo?" indagai, realizzando di non essere nel mio letto, ma ancora seduta di fronte alla parete a cui quella mattina presto si era appoggiato Dave.

Essendo stata accostata al mio comodino per tutta la notte, avevo la schiena e il collo indolenziti. Mi massaggiai quest'ultimo nel mentre attendevo una risposta abbastanza esaudiente da almeno uno dei due.

"Hai avuto un incubo?" si informò Lindsay, titubante, mordendosi le unghie di una mano e fissandomi insistentemente.

Aveva i capelli disordinati, il pigiama spiegazzato e gli occhi stanchi, ma si vedeva da lontano un miglio che era seriamente preoccupata. Dave aveva due occhiaie enormi e una cera terribile. Ci misi un po' a elaborare la domanda, così come una risposta. Non parlai, però. Il fatto che quei sogni mi stessero perseguitando, da un po' di tempo a quella parte, mi faceva paura. Perché ero riuscita ad attutire il colpo, in tutti quegli anni, e in quel momento quei sogni mi stavano facendo precipitare di nuovo nel baratro. Quello in particolare, quello che ebbi quel giorno, era diverso dagli altri, però. Era stato il più incisivo di tutti, e anche il più doloroso. Non era andata esattamente in quel modo, ma similmente. E il vuoto che avevo provato quando avevo scoperto che se n'era andato ricominciò a propagarsi nel mio petto, impedendomi quasi di respirare.

"Tu... Dicevi frasi senza senso. E nomi. Tanti nomi. E piangevi, e hai anche urlato e... Io non lo so, Celeste, ma vorrei capire cosa ti sta capitando" affermò Lindsay frettolosamente, con voce impaurita.

Non potevo e non volevo dirglielo. Non doveva saperlo nessuno. Fino a quando non sarei riuscita almeno a ricordare il suo nome e a risolvere le incognite che seguitavano a pulsarmi in testa: perché non riuscivo a ricordarmi come si chiamasse quel ragazzo? Perché quei sogni avevano cominciato a tormentarmi proprio in quel periodo, dopo sei anni di assenza? Perché non riuscivo neanche a togliermeli dalla testa e a fare in modo che smettessero? Ma, cosa in quel momento più importante: cosa voleva dirmi Dave? A quanto pareva, però, lui aveva cambiato idea, e aveva altri piani, perché si alzò, barcollando un po' e sostenendosi alla parete dietro di sé, e mi guardò con uno sguardo indecifrabile.

"Sarà meglio che vada" ci comunicò soltanto, aprendo la porta, girando i tacchi e andandosene, lasciandomi a dir poco senza parole.

Lindsay rimase per un po' a fissare la porta, poi si voltò verso di me, e sospirò, quando si rese conto che non le avrei raccontato il contenuto dei miei incubi.

"Quando capirai di poterti fidare di me... Io sarò qui. Non voglio litigare con te ancora una volta" decretò, mettendosi in piedi e dirigendosi verso il suo letto per sistemarlo.

Sbadigliai e mi alzai anche io, intenzionata a farmi una doccia rigenerante e a dimenticare, almeno per un po', tutto il casino che era la mia vita.

×××

"Dal cinque ottobre inizieranno gli esami generali. Questo vuol dire che ho soltanto quindici giorni contati per recuperare tutti gli arretrati. In sintesi, sono più che fottuto" annunciò Mike, buttando una pila di libri sulla scrivania e prendendo posto di fronte a me.

Non era esattamente nei miei piani trascorrere una domenica pomeriggio in biblioteca a studiare. E infatti non lo stavo facendo. Stavo scambiando SMS con Colin e, contemporaneamente, stavo giocando con il cellulare, contro un tizio che non aveva alcuna intenzione di farmi vincere.

"Potrei darti una mano io" gli propose Abigail, e lui non se lo fece ripetere due volte.

Peter non mi aveva quasi rivolto la parola, quel giorno, a parte un movimento del capo appena accennato per salutarmi quando ci eravamo visti. Mi sembrava di essere tornata per l'ennesima volta a qualche giorno prima, quando non mi avrebbe guardata nemmeno di striscio neppure se mi fossi messa a ballare il Cancan in costume da bagno sopra il tetto dell'edificio principale del campus. Aveva i capelli più spettinati del solito, gli occhi più cupi e lo sguardo più indifferente. Però era pur sempre il ragazzo più bello che avessi mai visto. Lindsay si era persa nei meandri della biblioteca a cercare non so quale libro che avrebbe risolto tutti i suoi problemi esistenziali. Non avrei esitato neanche una volta a farmelo prestare, semmai ne fosse venuta in possesso.

"Ehi, Pete, allora siamo d'accordo per le ripetizioni? Domani pomeriggio alle quattro?" si informò una voce che non mi fu difficile distinguere, sopraggiungendo da dietro uno scaffale.

Non ricordavo il suo nome (ovviamente), ma ricordavo benissimo di non sopportarla. Lui annuì e basta, cosa che, nel mio piccolo, mi fece gioire, e lei si allontanò, sorridendo soddisfatta, come se in realtà le avesse giurato amore eterno. Come si permetteva di chiamarlo in quel modo, poi, mi domandavo.

"Sulley, tutto bene?" mi domandò Mike, e solo in quel momento mi resi conto di essere rimasta a fissare un punto indefinito per un po' troppo tempo.

Annuii freneticamente, più che altro per tentare di rimuovere dalla mia testa in qualche modo il pensiero di uccidere quella ragazzina e buttare il corpo in un burrone. Mi scusai con tutti, raccattai le mie cose e mi congedai, decretando che, se fossi restata lì, non avrebbe giovato a nessuno. Tanto non stavo ripassando un bel niente... Uscii dalla biblioteca e mi diressi a passi ampi verso la caffetteria, solitamente vuota a quell'ora. Avevo bisogno di stare un po' da sola, ma le mie preghiere non vennero esaudite, perché, non appena mi sedetti a un tavolo qualsiasi, mi accorsi di essere stata seguita. Mi si accomodò di fronte e mi osservò con quel suo sguardo penetrante, quasi come se si fosse aspettato davvero di leggermi dentro. Però lui ci riusciva sempre, contro tutte le mie volontà. Mi separò le mani, che stavo continuando a torturare da non so quanto pizzicandone le dita per il nervosismo, e ne intrecciò una a una sua, facendo sì che alzassi gli occhi e li facessi incontrare con i suoi. Non c'era scusa che reggesse: amavo i suoi occhi. Amavo lui. Solo che non ero capace di definire se fosse una cosa positiva o negativa. L'unica certezza che avevo era che lui non l'avrebbe dovuto sapere.

"Ho fatto un sogno, l'altra notte. Veramente li faccio spesso, ultimamente, sogni del genere, solo che non capisco perché" confessai, frustrata, sentendo immediatamente il peso sul mio petto alleggerirsi un po' nel momento esatto in cui incominciai a parlargliene.

Volevo che lui conoscesse la vera Celeste, perché era stato lui stesso a chiedermi di farlo. Non volevo tenergli nascosto nulla, perché volevo piacergli per com'ero, e anche perché non ci riuscivo. In un modo o nell'altro con lui parlavo come con nessun altro, raccontandogli cose di me che neppure io sapevo. Per quanto riguarda quel giorno, però, forse avrei fatto meglio a tenere tutto per me.

"Ti capita mai di sentirti soffocato e di non riuscire a respirare, nonostante ci sia aria in abbondanza e tu non abbia motivo alcuno per sentirti così oppresso? Eppure continui ad avere quella sensazione... di mancanza, che non ti fa dormire, che ti assale, tanto che non sai più cosa fare per mandarla via? - gli chiesi retoricamente, vedendo che la sua espressione mi incoraggiava ad andare avanti - In questi ultimi tempi ce l'ho sempre, e non so come fare. Nella mia testa continuano a susseguirsi questi sogni, che poi in realtà sono ricordi sotto forma di incubi, e vorrei soltanto liberarmene. Credo che il mio subconscio stia provando a dirmi qualcosa, ma non riesco a capire cosa, e questo mi fa impazzire. Peter, io non so cosa fare" attestai, sconsolata, abbassando lo sguardo e tentando di allontanare la mano dalla sua.

Lui, però, rafforzò la presa, e, ponendo l'indice dell'altra mano sotto il mio mento, mi esortò a guardarlo negli occhi.

"In cosa consistono questi sogni?" mormorò, tanto flebilmente che quasi non lo sentii.

Eravamo notevolmente più vicini, e ciò non fece altro che farmi battere il cuore più velocemente.

"In lui. Lui che c'è ma non c'è. Che torna ma poi se ne rivà. Che mi consola e poi mi distrugge. Che mi manca incredibilmente tanto e non so come devo fare. Sono sei anni che non ci pensavo più. Me lo ero imposto, Peter, ma lui c'è. C'è ancora. C'è sempre stato" conclusi, e il mio cuore si spezzò per l'ennesima volta.

Sempre che fosse possibile. Mi fissò come non aveva mai fatto. Aveva gli occhi spalancati leggermente, la bocca socchiusa e il respiro irregolare. Sembrava quasi spaventato, ma perché mai lo sarebbe dovuto essere? Non ne trovavo un motivo valido.

"Lui... chi?" richiese, titubante, come se in verità non l'avesse voluta sapere per niente, la risposta a quella domanda.

Io sì, però. Avrei tanto voluto conoscere la risposta. Il problema era che non la sapevo neanche io.

"Non lo so. È stato la prima persona di cui mi sia innamorata. È stato parte di un enorme pezzo della mia vita. Non lo vedo da soli sei anni, e ho persino scordato come si chiami. Non posso nemmeno cercarlo. Anche se non credo lo farei, visto che lui non ha cercato me" assodai amaramente, sospirando, percependo nuovamente quell'odiosissimo nodo in gola.

"Non l'hai scordato, Celeste. L'hai solo dimenticato. È la tua mente che si rifiuta di ricordarlo, ma il tuo cuore lo sa ancora. Lo rammenterai quando sarai pronta. Quando sarà il momento adatto. Fidati: non ci si può scordare di qualcuno che ha significato così tanto" pronunciò l'ultima frase con un tono che sembrava celare qualcos'altro.

Come se non fosse stata veramente rivolta a me. Fece una piccola pausa, durante la quale sospirò e scosse impercettibilmente il capo. Strinse un po' più forte la mia mano, prima di riprendere a parlare.

"Lo ami ancora?" richiese, chiudendo per un lungo secondo gli occhi.

Io davvero non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, o cosa avessi detto per aver causato in lui una reazione tale. Per di più, la domanda mi spiazzò completamente. E risposi senza rifletterci, perché io amavo lui. Ma lui non lo sapeva.

"No" sussurrai, e lui serrò gli occhi ancora una volta, lasciando di scatto la presa sulla mia mano.

Le persone cambiano. Soprattutto se poi passano così tanti anni. Non potevo pretendere che il bambino che conoscevo io fosse rimasto lo stesso. Così come io non ero per niente rimasta la stessa. Deglutii e aspettai che dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa. Invece lo vidi alzarsi, e il cuore mi sprofondò nel petto all'ipotesi che se ne stesse andando.

"Vieni, ti porto in un posto" dichiarò, sistemando la sedia sotto il tavolo e porgendomi una mano.

"And looks like you, and feels
Like you, and smiles like you.
I want someone just like you,
Through and through. I'm forever
Blue, because there's no one else like".

N/A

Capitolo revisionato.

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