02. The Wrong Direction
"It gets under your shirt,
Like a dagger at work.
The first cut is the deepest,
But the rest still flipping hurt".
Ero ancora stranita e più che confusa, dopo aver "parlato" con quel ragazzo, ma ciò non mi impedì di incamminarmi a passo svelto verso il luogo in cui avevo lasciato le mie cose, per poi cercare di arrivare alla mia camera a un orario decente. Per fortuna riuscii nel mio intento senza troppi intoppi, ma con ancora l'immagine di quegli occhi nella mente. Mi sembrava quasi di averli già visti in precedenza, ma era altamente improbabile, perché ero certa che mi sarei ricordata di una persona così antipatica e scontrosa. Infilai le chiavi nella toppa e le girai un paio di volte, prima di poter entrare in una stanza piccola e modesta. C'era un muro pieno di scaffali in legno sulla sinistra e una scrivania dello stesso materiale - con due sedie accostate a essa - sotto questi ultimi. A fianco alla scrivania, ad almeno un metro di distanza, c'era un'altra porta, che supposi essere il bagno. C'era un letto, sempre in legno, a castello, con delle trapunte colorate con varie fantasie sul materasso, addossato al muro di fronte a me. Vicino al letto vi era un comodino, disposto accanto a un guardaroba e una cassettiera. Il comodino era proprio sotto una finestra che dava su un prato enorme, pieno di alberelli e panchine. Nell'angolo sinistro della camera vi era una ragazza bruna, con dei capelli a caschetto bagnati e spettinati e un fisico magro e slanciato, in punta di piedi, intenta a sistemare una bacheca di sughero sulla parte di muro tra la scrivania e gli scaffali. Mi chiusi la porta alle spalle, e il rumore fece in modo che la mia coinquilina si voltasse di scatto, allarmata. Le feci un cenno con la mano libera e mi diressi verso il letto di sotto, per poi buttarmici a peso morto sopra, dopo essermi sfilata lo zainetto dalle spalle e averlo lasciato per terra con valigia e giubbino. Non sapevo se a lei sarebbe andato bene il fatto di dormire sopra, ma in quel frangente non me ne curai più di tanto. Mi portai entrambe le mani sul viso e me lo massaggiai, riposando gli occhi per un po'.
"Ciao! Io sono Lindsay. Lindsay Casey" una voce squillante mi fece sobbalzare e riaprire gli occhi di scatto.
"Celeste Sullivan" mormorai, con scarso interesse, senza neppure guardarla, prendendo il cellulare da una delle tasche posteriori dei jeans per mandare un messaggio a mamma e papà e rassicurarli, dicendo loro che ero giunta a destinazione sana e salva - sai anche tu quanto mamma può essere paranoica e apprensiva, in determinate situazioni.
Sentii gli occhi della tipa puntati addosso durante tutto il tempo che impiegai per comporre l'SMS, ma la ignorai comunque, alzandomi, poi, per disfare la mia valigia. La vidi con la coda dell'occhio scrollare le spalle e andarsi a prendere un asciugamano per i capelli in quello che poi appurai essere effettivamente il bagno.
"Ma no! Maledizione, non è possibile!" mi lamentai, passandomi gli indumenti tra le mani e incominciando già ad autocommiserarmi, dopo essermi accorta di aver preso il bagaglio sbagliato.
"Qualcosa non va?" la santarellina sopraggiunse dal bagno di corsa e mi si avvicinò.
Rimescolai i panni fra loro, incasinai tutto, ma non c'era niente da fare: avevo preso quella che mi aveva preparato la mamma. Quella piena di giacche, pantaloni e gonne eleganti, tailleur e décolleté. Scossi la testa e mi risedetti sul letto, nella speranza che, se avessi chiamato Colin, sarebbe tornato indietro con il mio bagaglio. Telefonai più e più volte, ma non rispose mai. Non ritenevo potesse essere possibile. Ma non mi diedi per vinta. Non potevo farlo. Cercai delle forbicine per unghie in quell'orrenda valigia dello stesso dannato colore della mia, e, una volta trovate, cominciai a tagliuzzare tutto quello che potevo, nel vano tentativo di migliorare la situazione. Grugnii, frustrata, quando realizzai che non mi avrebbe portata a niente - e, soprattutto, che quelle forbici non tagliavano neanche l'aria. Mi rigettai sul duro materasso, nella speranza che fosse solo un brutto sogno, e mi coprii il viso con le mani. La tipa - che, fino a quel momento, aveva osservato tutta la scena senza fiatare - prese posto al mio fianco (me ne accorsi perché il materasso si abbassò sotto il suo peso), e mi mise una mano su una spalla. Separai le dita delle mani che avevo sugli occhi per vederla meglio, e la fissai, in attesa.
"Senti... Ho capito che, probabilmente, non ti vado tanto a genio. Però siamo e saremo coinquiline per un bel po'. Se proprio non vuoi che diventiamo amiche per la pelle che si smaltano le unghie e straparlano di ragazzi carini, almeno permettimi di essere questo. Potrei aiutarti, se mi dicessi qual è il problema" provò a consolarmi, sorridendomi.
Ma io distruggo tutto quello che tocco, avrei voluto risponderle. Naturalmente non lo feci. Era la prima volta, da quando avevo messo piede in quella che sarebbe stata la mia nuova "casa", che la guardavo in faccia. Aveva dei vispi occhi di una tonalità scura di verde, e delle ciglia lunghissime; un armonioso naso all'insù e delle labbra piccole e sottili. Era il perfetto prototipo della studentessa modello, lei. Al contrario di me, che, per inciso, ancora non sapevo a quale categoria appartenessi. Sospirai e mi misi seduta, guardandola negli occhi. Lei mi osservava speranzosa, ma non poteva capire. Non avrebbe mai potuto capire. Ma alla fine mi arresi, perché intesi che non mi sarei liberata di lei in nessun altro modo, altrimenti.
"Ho scambiato le valigie. E, invece di prendere quella che avevo preparato io, ho preso quella che mi ha fatto mia madre, che è piena di questa roba elegante..." le spiegai, afferrando una gonna e agitandogliela davanti al viso.
"Oh..." fu tutto quello che riuscì a dire lei.
Come se avessi davvero sperato che avrebbe potuto aiutarmi. Sospirai per l'ennesima volta, e mi massaggiai le tempie con le dita, prima di sobbalzare a causa di qualcuno che stava bussando con foga alla porta. La mia inquilina saltò giù dal letto in un battibaleno e corse ad aprire, senza, forse, rendersi conto che i suoi capelli erano ancora bagnati, incasinati e sparavano in tutte le direzioni. Scesi dal letto e la raggiunsi, vedendola in difficoltà nel proferire parola. Una volta sulla soglia, un ragazzo di media statura dal torace tonico, i capelli scuri e gli occhi blu mi si parò dinanzi. Dopo lo sbalordimento e lo shock iniziale per la visione che mi ritrovavo davanti, fui capace di rinvenire e di chiedergli cosa ci facesse lì, mentre lei lo fissava ancora con gli occhi sognanti e la bocca aperta.
"Buon pomeriggio! Io sono Dave Duncan, e sono stato incaricato di avvisare tutte le matricole di questo piano dell'orientamento apposito che si terrà a breve nella Dillon Gym. Se voleste seguirmi..." sorrise per tutto il tempo, tanto che quasi scordai l'incontro con quell'odioso ragazzo e iniziai a pensare che in quel campus fossero sul serio tutti dei viziati figli di papà cortesi ed educati.
Ho detto "quasi". La verità è che non lo feci. Nonostante tutto, mi sforzai di concentrarmi sulla copia vivente di James Dean che avevo di fronte e annuii, sfilando dalla serratura le chiavi che avevo lasciato fuori e trascinandomi la mia coinquilina dietro, sebbene avesse ancora i capelli bagnati. Il ragazzo si muoveva espertamente lungo i vari corridoi e le varie stradine, e mi accorsi, solo una volta fuori dalla mia stanza, che aveva già riunito un sostanzioso gruppetto di persone, prima di passare da noi. Raggiungemmo la fatidica "Dillon Gym" dopo un bel po' di altre soste e innumerevoli metri di camminata. Cavolo, era immensa! In sostanza era un enorme campo da basket al chiuso, con il pavimento rivestito in parquet lucido e una miriade di sedie collocate proprio al centro del campo, a loro volta zeppe di una marea di studenti seduti su di esse. Ammetto che era davvero una scena da togliere il fiato, ma non mi colpì quanto invece fece con la mia inquilina, che si guardava attorno estasiata. Era tutto sui toni del marrone, le porte da cui eravamo entrati erano arancioni, e sulla parete bianca che le sovrastava erano dipinte due tigri blu che sembravano avanzare per andarsi incontro, separate solo dalla grande vetrata di una finestra. C'era poi un altro gruppo di persone riunite ai piedi di una scala - sulla pista -, che portava a un palchetto nero allestito apposta per l'occasione, sul quale era eretta una donna rigorosamente bionda (certamente tinta), sulla trentina, con un sorriso smagliante in volto, che si presentò e ci diede il "benvenuto" parlando ad un microfono. Il tipo che ci era venuto a chiamare ci salutò lì e s'incamminò verso gli altri suoi amici, per poi posizionarsi sul palco, dietro la donna, dove c'erano anche altri ragazzi e ragazze che, come lui, avevano un cartellino con il loro nome sopra, vicino alla scritta "Tour Guide". Erano tutti dritti e avevano le mani dietro la schiena. Sembrava un esercito, più che un gruppo di studenti. La donna pronunciò un discorso estenuantemente lungo - del quale non ricordo molto, sinceramente -, al termine del quale ci presentò la nuova idea che era venuta a lei (che poi compresi essere la preside) e al suo vice per quel nuovo inizio semestre: fare in modo che gli studenti del secondo anno ci introducessero nella struttura con un tour esplorativo, e che ci raccontassero la loro esperienza lì, in modo da tranquillizzare quelli che tra noi erano più nervosi. Come la mia coinquilina, per esempio, che si stava torturando le mani, a furia di pizzicarsele e mangiucchiarsi le unghie. La preside si congedò, al termine del suo sproloquio, perché aveva "altre cose importanti da fare", e il suo vice si occupò di nominare tutti gli alunni sulla sua lista, in modo da assegnare ad ognuno una guida. La mia coinquilina era tra le prime, e il mio turno arrivò dopo non so quanti nomi, cognomi, nomignoli e secondi nomi che mi avevano fatto venire un lancinante mal di testa.
"Celeste Sullivan?" indagò l'anziano signore con la testa calva, un pizzetto nero sul mento e degli eccentrici occhiali rossi incavati sul naso ricurvo.
Alzai la mano in alto, nel tentativo di farmi individuare tra l'infinità di studenti, e lui mi sorrise, invitandomi ad avvicinarmi. Rimanevo dell'idea che quella delle guide fosse una pensata ridicola e assurda, visto che, comunque, esistevano le mappe del campus.
"Eccoci qui. Come si sente? Tutto a posto?" domandò, sorridente, mentre, in realtà, non mi dedicava la minima attenzione, perché era troppo impegnato a cercare il nome della mia guida sul foglio che aveva in mano.
Non mi scomodai neppure a rispondergli, o a fare anche solo un cenno, dato che non sembrava per niente interessato a una mia risposta.
"La sua guida sarà... il signorino Peter Poole..." affermò, dopo qualche minuto, accarezzandosi il mento con una mano, pensieroso, mentre aggrottava le sopracciglia, probabilmente per decifrare cosa ci fosse scritto sul foglio.
Forse la gradazione delle sue lenti era un po' più bassa di quanto non pensasse. Lo guardai, spaesata, aspettandomi che, come minimo, mi desse una qualche indicazione, almeno per capire dove cavolo fosse quel benedetto ragazzo che mi avrebbe fatto da guida. Lui sollevò lo sguardo dal pezzo di carta e parve riscuotersi, sorridendomi con un'espressione che sottintendeva: "Non è colpa mia se sono così smemorato, perdonami". Mi indicò un tizio in fondo alla schiera di ragazze e ragazzi del secondo anno con un dito, poi mi sorrise e mi fece un occhiolino. Quel gesto mi inquietò più di quanto si potrebbe immaginare. E tu non ridere così! Io restai sconcertata, sul momento. Dicevamo... scossi la testa, cercando in tutti i modi di rimuovere quell'immagine recente dalla mia mente, e incominciai a camminare lentamente, molto lentamente, come se stessi andando al patibolo. Non che la situazione fosse molto differente. Arrivai dove si trovava la mia guida e mi schiarii la gola per attirare la sua attenzione, dato che era apparentemente molto concentrato sul suo cellulare di ultima generazione.
"Ehm... tu dovresti essere la mia guida... Io sono..." mi bloccai immediatamente, quando i miei occhi incrociarono quelli del ragazzo, che aveva appena alzato la testa nella mia direzione.
Rimasi con la bocca aperta e le pupille dilatate, e anche lui sussultò. Almeno per un millesimo di secondo. E, no, non me lo ero immaginato. Mi domandai perché, tra tanti studenti del secondo anno, io proprio con lui fossi dovuta capitare. Non mi concesse neppure il tempo di finire di presentarmi, o quantomeno di riprendermi dal mio sconcerto, perché cominciò a camminare velocemente verso le scale, subito dopo aver riposto il telefono in una delle tasche posteriori dei suoi jeans. Invece di rimanere lì imbambolata come uno stoccafisso, lo seguii, sebbene faticassi a stargli dietro - perché era molto più alto di me, e ogni suo passo equivaleva a minimo tre dei miei. Non sapevo dove fosse diretto, ma di sicuro aveva molta fretta. E di sicuro non mi voleva tra i piedi, visto come tentava di seminarmi. Non ho idea di quanto tempo corremmo, io a lamentarmi e a chiedergli di fermarsi, e lui a ignorarmi completamente. Ma che gli ho fatto di male? era il quesito che ronzava con insistenza nella mia testa, mentre mi affannavo a tenergli il passo. La sua corsa si arrestò davanti alla porta della segreteria. La spalancò con ben poca grazia, facendo balzare la segretaria dalla sedia e portarsi una mano al cuore. Io, dal mio canto, ero sempre più sbalordita da quel comportamento decisamente poco consono a uno studente della Princeton. O a una persona sana di mente in generale. Con un gesto rapido si strappò la targhetta con il suo nome dalla maglietta, e la poggiò con altrettanta poca accortezza sulla scrivania della segretaria, allibita quanto me, se non di più.
"Ho cambiato idea" disse soltanto, prima di girare i tacchi e uscire.
Non senza prima avermi lanciato un ennesimo sguardo di fuoco. Mentre ancora mi interrogavo sui problemi che affliggevano quel ragazzo, la donna si era alzata dalla sedia e mi era venuta vicino.
"Non si preoccupi, cara: è un ragazzo un po' difficile, non ce l'ha con lei" mi rassicurò, posando una mano dalle unghie curate sulla mia spalla destra.
Ma a me sembrava comunque che ce l'avesse proprio con me. Le feci un piccolo sorriso, mentre lei tornava al suo posto a cercare qualcuno che potesse sostituirlo e farmi da guida, nonostante le avessi più volte ripetuto che non ce ne fosse bisogno. Avevo notato un accento, nella sua voce, in quelle poche parole che aveva pronunciato da quando ci eravamo "incontrati", che mi faceva presumere che non fosse di quelle parti. Ricordo che, infatti, pensai immediatamente che fosse irlandese, per il tono con cui calcava ogni parola. Ma perché gli stavo tanto antipatica, poi, non sapevo spiegarmelo.
"Ecco qui: ho trovato la persona che farà al caso nostro. Ora la mando a chiamare" mi sorrise la signora (della quale non ricordavo il nome), alzando la cornetta di un telefono sulla sua scrivania e digitando sulla tastiera.
Speravo solo che quel qualcuno non fosse odioso e scontroso quanto quel Peter. Che, oltretutto, aveva anche un bel nome. Ed era decisamente un bel ragazzo. Ma era anche così maleducato... Quando la persona che l'avrebbe sostituito varcò la soglia, compresi, con mio grande sollievo, che si trattava di una ragazza, dal rumore che producevano i suoi tacchi a contatto con il pavimento della stanza. Mi voltai rapidamente, e notai due grandi occhi scuri che erano già puntati su di me, mentre lei mi sorrideva, radiosa.
"Miss Sullivan, lei è Abigail Brooks, una tra le nostre migliori allieve del secondo anno. Le farà lei da guida nell'edificio al posto del... giovanotto. È okay per lei?" mi chiese, come se davvero fosse stato normale chiedere a me il permesso.
Non smetteva mai di stupirmi. Assentii e seguii la ragazza con il tailleur da signora e i capelli castani rigorosamente stretti in uno chignon ordinatissimo. Non c'era neppure una ciocca che fuoriuscisse. Come diavolo facessero a essere tutti così perfetti, in quel cavolo di campus, ancora non lo so. A parte quel tipo... Che, poi, per il modo in cui ci eravamo "incrociati" entrambe le volte in cui lo avevo visto, non ero neanche stata capace di concentrarmi su qualcosa che non fosse il suo viso. La mia nuova guida mi fece camminare per non so quanto tempo, illustrandomi non so quante cose, ma io non sentii niente di niente. La mia mente era altrove: sapevo che mi stavo facendo troppi problemi su una cosa di cui, probabilmente, non mi sarebbe neppure dovuto importare. Ma non penso che a qualcuno possa far piacere essere trattato in quella maniera, da uno sconosciuto, per di più. Che problemi poteva avere? Beh, all'epoca non lo sapevo, e, per certi versi, sarebbe stato meglio se fossi rimasta nell'ignoranza. Perché, si sa: "la curiosità uccise il gatto".
"You build your heart of plastic,
Get cynical and sarcastic,
And end up in the corner on your own".
N/A
Capitolo revisionato.
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