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20. Non si sputa sulle tradizioni di famiglia

Esattamente come per anni l'unica influenza rilevante nella sua vita era stata la sua famiglia, ora l'influenza stava diventano quell'insperata e inattesa, scomoda, fastidiosa compagnia di persone che non avrebbe mai volontariamente cercato. Si fece un appunto mentale di ringraziare Cato e Livia, quelli che l'avevano praticamente costretto a iscriversi con loro, attirandolo con i 10 crediti senza progetto pratico.

"Grazie mille" disse Pallia alzandosi dalla panchina di ferro bucherellato. La cabina gialla si avvicinava cigolando pesantemente, i fari che gettavano due coni di luce sull'impasto di foglie marce accumulate tra i due binari. "Di niente" rispose abbozzando un sorriso. Fu certo di vedere gli angoli della bocca di Chanej alzarsi impercettibilmente mentre prendeva la tessera abbonamento dei mezzi dalla tasca laterale della sua cartella di pelle.

"Ti scrivo per il progetto" gli disse prima di salutare con un gesto della mano e seguire Pallia sul tram. La banchina si svuotò e rimase da solo, a guardare il tram che si allontanava lungo il vialone. Dall'altro lato della strada i quattro ragazzi non c'erano più. Girò i tacchi e tornò da dove erano arrivati, per poi superare casa di Ibrahim e arrivare sulla linea 2, direzione Stazione Centrale, la linea turistica e della Mediterra bene, frequentata in estate da comitive rumorose, e da vecchie signore del carrello della spesa nella stagione fredda. I tram di quella linea gli piacevano, erano vagoni storici, con parquet e sedili in legno, levigati senza troppi complimenti da centinaia di paia di natiche. Dei salotti in miniatura, come se la popolazione originaria della città dovesse essere tenuta in ambienti speciali creati su misura in base alle loro abitudini. Quando salì sul tram lo accolse un odore di cera e di naftalina, proveniente dal collo di pelliccia della donna seduta immediatamente vicino alla porta. Sua nonna ne aveva uno identico, una volpe intera a cui era stata messa una molletta al posto della bocca, per poter comodamente mordere la coda. La città stessa cambiava fondamentalmente fermata dopo fermata. I negozi smettevano di essere catene e si trasformavano in boutique sempre più piccole con sempre meno vetrine, come se i prodotti venduti all'interno fossero troppo costosi per mostrarsi all'esterno come delle comuni mele dal fruttivendolo. Le facciate diventavano dei tripudi di colonne e finti timpani decorativi utili solo ad accumulare cacche di piccione e ragnatele, tra cui si aprivano finestre rigorosamente coperte da tende bianche o gialline. Il modo in cui tutti gli abitanti di quei palazzi cercava di distinguersi era tra gli sforzi più inutili dopo quello di Sisifo. Erano sistemi non isolati e tutto attorno a loro era a loro uguale. La reciproca influenza li aveva trasformati tutti in cloni con la stessa temperatura, portamento, stile e addirittura gli stessi nomi. Esattamente come Armilla Minore, sua mamma, era uguale alle altre quattro Armille del quartiere che frequentavano il tempio centrale, a soli cinque minuti da Corso Sette Colli.

Quando aprì la porta di casa intravide oltre l'ingresso sua mamma e sua nonna intente a guardare la televisione, sedute sulle sedie della cucina. Sua mamma aveva appena acceso una sigaretta. Sentì la porta aprirsi e andò subito ad abbracciarlo.

"Sei tornato presto!". Per essere una donna poco oltre i cinquant'anni sveva una voce molto dolce e poche rughe, equivalenti a poche preoccupazioni. "Ibrahim aveva un altro impegno dopo" farfugliò cercando di farsi abbastanza spazio per togliersi la cartella e appendere la giacca sull'appendiabiti.

"Pensavamo di doverti lasciare la cena per più tardi, ma visto che sei tornato possiamo mangiare tutti assieme. Il nonno dovrebbe arrivare tra qualche minuto". La seguì in cucina, ampia, asettica e vecchia. Sul fuoco c'erano già due pentole fumanti, probabilmente lasciate dalla domestica prima di andarsene. Erano solo le sette meno un quarto, ma in casa sua si mangiava molto presto. La nonna si girò verso di lui, sorridente. "Come mai così presto?"

"Ibrahim aveva un impegno" ripeté a voce più alta di modo che la nonna potesse sentirlo. La donna sbuffò e abbassò il volume della tv con il telecomando, prima di alzarsi in piedi. Come tutti gli anziani era diventata bassa con l'età, come se si stesse sgonfiando. Allontanò il posacenere dal tavolo e lo mise sul davanzale della finestra, aprendone uno spiraglio per far uscire il fumo della sigaretta della figlia. Il filo di fumo di quella e delle pentole fu attirato fuori dall'aria fredda. "Dovrai studiare da solo stasera, quindi. La laurea non si prende da sola!" commentò con il suo solito tono da sentenza. "Le persone che non si impegnano non se la meriterebbero una laurea. Mi piace che mio nipote si impegni" sentenziò di nuovo prima di andare a prendere una tovaglia pulita dal cassetto per mettersi a preparare la tavola.

"Vado a mettere via la cartella" disse, sapendo che gli sarebbe stato chiesto in ogni caso. Uscì dalla porta della cucina che dava sull'ingresso, prese la propria borsa e se ne andò in camera. Era molto più grossa di quella di Cato o Ibrahim, aveva un letto con la testata in legno decorato, un armadio con i pannelli ricoperti di stoffa rossa da un tappezziere e le foto di lui e sua mamma appese vicino allo scrittoio che era stato di suo nonno prima di lui, quando ancora operava come avvocato, prima della pensione. Era lo stesso tavolo su cui aveva studiato lui, sua zia Tullia e sua mamma, e su cui poi avevano lavorato, anche se si chiedeva quanto ci fossero oggettivamente state sedute. Sia sua mamma e sua zia si occupavano della gestione di appartamenti di loro proprietà, il massimo di lavoro che aveva mai visto fare a tutte e due era alzare la cornetta per chiamare stizzite il comune o l'agenzia immobiliare. Adesso era sepolto dai libri di testo di Adriano, il primo ingegnere in famiglia. Suo nonno era entusiasta all'idea, meno forse la nonna che ancora rimpiangeva che il nipote non fosse entrato nell'esercito. Camera sua era un mausoleo della gloria che gli altri membri della sua famiglia volevano gettargli addosso. Appoggiò la borsa per terra e iniziò a tirare fuori tutto per poi mettere i quaderni in una pigna ordinata sul lato sinistro della scrivania. Avrebbe rivisto gli appunti della giornata dopo cena.

Mentre si toglieva le scarpe e il maglione qualcuno suonò il citofono. Subito si sentì un rumore di passi lenti mentre sua nonna si avvicinava al citofono in corridoio e apriva il cancello a quello che doveva essere suo nonno. Eppure dopo qualche minuti sentì rumore di tacchi e di sacchetti di carta. Mise fuori dalla camera in naso per vedere il completo elegante rosso di sua zia, con una mantella orlata di pelliccia nonostante la stagione non lo richiedesse ancora minimamente.

"Ho accompagnato papà in macchina" disse la sua voce identica a quella di sua madre.

"Ti va di rimanere a cena?"

"Se non è disturbo! Ho portato delle focacce, e del prosciutto affumicato". Sua nonna tubò all'idea e arrivò ad accogliere la figlia maggiore. Adriano rimase a guardare dal corridoio ancora per qualche secondo prima di farsi avanti e salutare da lontano la zia e suo nonno.

"Adri! Ciao! Sei già a casa! Armilla mi aveva detto che non saresti stato a casa"

"I suoi amici avevano altri impegni, sono di provincia. Immagina tu, nel bel mezzo del secondo anno di università cosa ci può essere da fare di più importante" commentò sua madre senza lasciarlo parlare. Per il benestare di tutti la lasciava fare, dato che cercare di cambiare la sua opinione sarebbe stato stupido. Aveva tentato di convincerla più e più volte che Ibrahim non era un mezzo criminale, e che Livia parlava correttamente latino nonostante venisse dalla provincia, ma c'era stato ben poco da fare. L'unica cosa che sua madre possedeva in quantità maggiore rispetto alle paia di scarpe erano i tipi di pregiudizio. Ne aveva uno per ogni persona, per ogni stagione, per ogni festività e ogni istituzione. Sorrise a suo nonno e il nonno lo guardò e annuì mentre si toglieva la sciarpa dopo aver appoggiato il bastone al muro. Solo dopo essersi tolto anche la giacca sembrò degnare le persone attorno a lui di uno sguardo.

"È morto Vitullo" disse, asciutto. Tutto il chiacchiericcio tra le due sorelle si fermò, anche la nonna, appoggiata alla porta della cucina si rimise dritta improvvisamente, coprendosi la bocca con le mani.

"Vitullo, il padre di Vittoria?" chiese Tullia, come se si potesse dimenticare una persona del genere.

Sua mamma annuì. Vitullo era stato un grande amico di suo padre, ex collega, compagno nell'esercito, testimone di nozze. Il nonno annuì dopo qualche secondo. "Dovremo mettere una sua foto sulla mensola. E Giulio ha contattato il giornale per far mettere un'elegia funebre per domani", disse zoppicando con il suo bastone fino in soggiorno dove si fermò, con naso all'insù, a guardare la grossa libreria di legno scuro sulla parete.

"Adriano vieni qui".

Non aveva idea di cosa potesse volere. Dubitava volesse parlare del suo dispiacere per la morte del suo amico, dato che mai in vita sua aveva visto il nonno piangere o dimostrare dei sentimenti evidenti. "Sì?"

"Tu che sei giovane, prendimi quell'album là in alto" disse indicando uno dei suoi vecchi album di fotografie sul ripiano più alto della libreria, dove si trovavano tutti quei libri che nessuno aveva mai bisogno di prendere. Adriano annuì nella sua direzione andò in cucina a prendere la scala, mentre suo nonno si sedeva sulla vecchia poltrona a lato del divano e accendeva la brutta abatjour di vetro soffiato verde e rosa che abitava sul tavolino da lettura lì a lato. Prese gli occhiali dalla base della lampada e lo guardò mentre saliva sulla scala e si allungava quasi fino a toccare il soffitto polveroso per prendere l'album.

"Quello col dorso verde scuro" disse il nonno. Adriano spostò la plastica sottile che ricopriva l'album di nozze di sua mamma lì accanto e poi si tese per prendere quanto richiesto con due mani. Si levò una piccola nuvola di polvere quando riuscì a estrarre il volume. Soffiò via dalla copertina uno strato di polvere nera e poi scese dalla scala. Sua zia arrivò ticchettando con uno straccio umido, che passò immediatamente sulla copertina e sul bordo spesso delle pagine, per poi porgere l'album al nonno. Lui lo osservò per un momento come una reliquia.

"Ormai è quasi un album dei morti" disse, aprendo la prima pagina, su cui campeggiavano alcune dediche sbiadite scritte a penna stilografica. Qualcuno, probabilmente sua mamma accese la luce centrale del soggiorno, illuminando tutto il vecchio mobilio. Adriano capì che il nonno stava cercando una foto di Vitullo. Si sedette sul divano accanto a lui.

"Quando saranno le esequie?"

"Sabato mattina" rispose senza prestargli troppa attenzione, troppo concentrato a sfogliare le pagine della storia, piene di foto in bianco e nero e i bordi zigrinati, visi che sembravano fatti i di cera a causa del poco contrasto tra le sfumature del grigio, baffi fuori moda e donne dai capelli arricciati per somigliare ad antiche matrone della prima repubblica. "Eccolo" disse, puntando un vecchio dito rugoso su un piccolo viso tra molti simili in una foto di gruppo dove riconobbe solo suo nonno, in quella che doveva essere stata una canottiera bianca e dei pantaloni tenuti da una grossa cintura e un fazzoletto al collo. "Eravamo nello stesso reggimento militare. Terza Centuria". Adriano osservò meglio la persona indicata. Il giovane non aveva niente a che vedere con il vecchio tricheco che era diventato col tempo. Il nonno iniziò a snocciolare tutti gli accampamenti che avevano visitato durante l'allenamento militare e le volte che avevano bevuto posca allungata con la grappa dalla borraccia del centurione e l'avevano sostituita con succo di frutta e aceto e lui non si era accorto di nulla, perché fumava tanto e si era bruciato le papille gustative. Tutti racconti che aveva sentito migliaia di volte, dopo la cena di ogni festa comandata, o comunque ogni volta che suo nonno ci teneva a fargli notare come fosse una cosa vergognosa e poco latina aver tolto la leva obbligatoria e il servizio militare. Eppure la voce, monotona e ieratica al tempo stesso, di suo nonno sembrò prendere un posto in seconda fila quando una delle foto dell'album attirò l'attenzione di Adriano. Dovette fare del suo meglio per non spaventarsi o fare qualche espressione strana che potesse attirare l'attenzione dei presenti. Quante volte gli era passata quella foto davanti gli occhi e solo ora sembrava avere senso. Puntò un dito sulla foto per evitare che suo nonno girasse pagina. Due uomini sconosciuti, giovani, vestiti eleganti, posavano davanti a quella che sembrava una colonna di una piazza coperta, tra loro, incorniciato dalle loro figure, un foglio familiare, firmato con date e simboli che Adriano aveva già visto sullo schermo del telefono di Chanej. Gli si seccò la bocca ma riuscì a chiedere: "Erano tuoi colleghi?"

Qualsiasi altro tipo di domanda avrebbe potuto destare sospetti, ma questa era sufficientemente neutra da non essere pericolosa. Si trattenne dall'alzare lo sguardo per controllare se qualcuno lo stesse fissando, ma per fortuna suo nonno iniziò a rispondere, distratto dalla domanda. "Ah sì, Fabio e Ascanio. Vivevano qui vicini".

"Siete in piazza dei Mercanti?" chiese la zia Tullia, materializzatasi molto più vicina di quanto avesse inizialmente notato, con una mano amorevole appoggiata sulla spalla del nonno.

"Sì, a quell'epoca ci trovavamo lì dopo lì il lavoro nello studio dove stavamo facendo la pratica. Fumavamo un sigaro e chiacchieravamo. Erano tempi meravigliosi, è lì che ho conosciuto la nonna". La zia si lasciò sfuggire un risolino intenerito che Adriano trovò fastidioso. Pensò a cosa potesse chiedere per farsi dire cosa fosse quel foglio, ma fu sua zia a essere più utile del previsto.

"Si tenevano già la riunioni?" chiese accennando proprio al foglio appeso tra loro. Adriano colse la palla al balzo. "Che riunioni?"

Suo nonno lo guardò con una punta di tenerezza, come quando si sta per raccontare qualcosa di importante. Nonostante ciò, Adriano sentì un brivido freddo lungo la schiena. "Vedi, all'epoca ci trovavamo con alcuni ragazzi della nostra età. Non c'erano tutte queste leggi che permettevano ai maghi di fare quello che volevano. Era una questione di ordine pubblico. Ci eravamo dati il nomignolo testuggine, come quella che si imparava a militare"

"Quindi quello era tipo un foglio di iscrizione?"

"Vedo che ti interessa" rispose il nonno allegro, più di quanto lo vedesse di solito. "Sì. Questo tipo di codice era un misto tra la stenografia per l'esame di avvocatura e il gergo militare. Lo usavano già prima che arrivassi io, era per assicurarsi che nessuno capisse dove ci saremmo trovati. E all'inizio di iscritti ce n'erano tanti!"

"Ti ricordi Armilla quando le riunioni di tenevano al Bar le Balconate?"

Sua mamma rise dalla sua posizione più distante e si coprì vergognosamente il viso con le mani, ridendo. "Non farmici pensare"

"Come mai tutto questo interesse? Avete iniziato anche voi una cosa del genere?" chiese sua nonna, cogliendo forse l'esitazione e la paura nel nipote. Adriano ricacciò indietro il disgusto e sorrise, cercando di imitare al meglio il suo stesso sorriso timido. "No, non penso sia più possibile purtroppo, di questi tempi. L'università è tecnicamente mista".

"Non per molto" rispose la nonna, felice di essersi sentita dire esattamente quel che voleva. "Ho visto al telegiornale che hanno sospeso tutte le attività miste. E penso fosse anche ora. Cosa aspettavano? Che le streghe iniziassero a sfasciare coppie umane, portandosi via i ragazzi? O che iniziassero a insegnare direttamente all'università? Era esattamente per questo motivo che esisteva la Testuggine, ma penso che i ragazzi di oggi stiano capendo che è necessario fare qualcosa" sentenziò mentre il nonno annuiva con gli occhi chiusi.

"All'epoca non potevano nemmeno salire sui treni. C'era una carrozza tutta per loro? E sai perché?" chiese ad Adriano il nonno. Il ragazzo scosse la testa ma temette la risposta. "Perché i maghi sono ladri per natura. Non ci possono fare niente, ma non rubavano ai loro simili. Quindi mettendoli in un vagone tutto per loro non rubavano. Altro che libera circolazione".

"Sai che forse ho ancora in giro un manifesto di quando eri all'università, Tullia" disse sua mamma alzando un dito, come se avesse appena scoperto la velocità della luce. Si mosse rapidamente verso la libreria e prese un grosso volume, un manuale di economia aziendale, e lo aprì, estraendo dalle pagine un foglio giallino rovinato e coperto di firme e simboli. Adriano non dovette sforzarsi per sembrare affascinato. Si alzò e andò accanto a lei. "Mi puoi spiegare come si legge?" chiese a sua mamma. Lei lo guardò stupita, ma fu il nonno a rispondere. "Te lo spiego io, ragazzo. Dopo cena ci mettiamo qui e vediamo se mi ricordo ancora come si fa". La nonna rise tornando in cucina ad apparecchiare, mentre sua mamma gli passò una mano sui capelli con fare amorevole. Lo guardò piena di affetto. "E io che mi preoccupavo per te" disse, quasi commossa. Adriano sorrise e arrossì, non per l'affetto come pensava lei, ma per la vergogna della scena che aveva appena messo in piedi. Sorrise anche a sua zia e a sua nonna, nutrendoli di quella falsa e marcia speranza che gli stava rivoltando lo stomaco. Pensò al consiglio che aveva ricevuto da Chanej, di osare contraddire le persone che lo soffocavano. Questa era una questione completamente diversa, doveva stare al loro gioco per imparare a giocarlo. Prese il manifesto dalle mani di sua madre lo appoggiò sul tavolino da lettura vicino al nonno, monito e invito al tempo stesso ad assorbire quanto più possibile.

Un sistema viene influenzato dall'ambiente entro cui si trova. Non siamo sistemi isolati, siano per forza influenzati da quel che abbiamo attorno. E avrebbe usato la loro stessa influenza contro di loro.

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https://youtube.com/playlist?list=PLsrvzs5RHOr36idowm7QXlbui3Nh5Yfqb

Playlist si chiede, playlist si riceve. Ovviamente verrà aggiornata col tempo, ma per ora direi che potete divertirvi a indovinare a chi corrisponde ogni canzone.

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