IX. Verità
"Se non puoi dire la verità alle persone a cui tieni di più, alla fine non riesci a dirla neanche a te stesso."
-Cassandra Clare.
Luglio 1890
Quando Genevieve si svegliò, quella mattina, sospirò.
Esattamente come la mattina precedente e quella prima e quella prima ancora.
Si girò a pancia in su, osservando il soffitto della sua stanza.
Contava i giorni che mancavano al momento in cui quella non sarebbe più stata la sua stanza, sperando sempre che il numero aumentasse invece di diminuire.
Ormai mancava solo una settimana al giorno del suo matrimonio.
Un matrimonio che non desiderava, perchè con il passare dei mesi il suo promesso sposo Spencer non era di certo migliorato nei suoi atteggiamenti.
Lo odiava con ogni fibra del suo essere, ma ovviamente Genevieve non poteva farci niente.
Sposarlo era il suo dovere – oltre al fatto che lui la tenesse sotto scacco.
Si portò la mano destra davanti agli occhi dorati, osservando l'anello di fidanzamento che Spencer le aveva datto i primi di settembre, l'anno prima.
Non c'era inciso lo stemma dei Moore – Genevieve non sapeva se ne avessero uno, in realtà – ma era un anello con un diamante.
Bellissimo, certo, ma se Spencer credeva di comprarla con un gioiello si sbagliava di grosso.
Il suo cuore era già impegnato, legato ad un altra ragazzo che era molto lontano da lei e che non vedeva da un anno.
Nonostante fossero passati dodici mesi, Genevieve non smetteva di sentirsi legata a Killian e temeva lo sarebbe stata per sempre.
Spencer non l'avrebbe mai avuta vinta.
Si sentiva meglio quando pensava al fatto che Spencer avrebbe preso la sua casa, il suo trono e tutto ciò che aveva di più caro, togliendole la libertà.
Ma il suo cuore non gli sarebbe mai appartenuto.
Solo Killian possedeva la chiave per aprire il cuore di Genevieve e così sarebbe stato finchè fosse vissuta.
Avrebbe tenuto il suo cuore e la sua identità.
Quando Spencer le aveva regalato l'anello di fidanzamento, le aveva chiesto di togliere quello che suo padre le aveva regalato per il suo diciassettesimo compleanno.
"Non sei più una Adler ora" aveva detto lui.
Aveva abbandonato le formalità fin da subito, perchè litigare dandosi del voi dava meno soddisfazione.
Genevieve aveva serrato la mascella.
"Terrò entrambi" aveva ribattuto "e finchè non saremo in chiesa e non dirò "si", sarò ancora una Alder"
Spencer aveva assottigliato gli occhi neri.
"Mi stai sfidando?"
"È un dato di fatto" aveva continuato lei, imperterrita.
Non avrebbe ceduto, non quella volta.
"Non mi rispetti ora, figuriamoci quando saremo sposati. Dovrei andare da tuo padre e rivelare ciò che hai fatto"
Che hai coperto un fuorilegge, erano le parole sottintese.
"E perdere la possibilità di diventare re, Spencer?" aveva detto Genevieve, astuta come una volpe.
Spencer aveva scosso la testa.
"Non sono stupida" aveva continuato lei "è ovvio tu voglia sposarmi perchè aspiri al trono. E mi sta bene, visto che secondo la legge delle Isole Shetland una regina ha bisogno di un re al suo fianco. Ma questo non ti consente di trattarmi come se fossi di tua proprietà, perchè non lo sono ancora. L'anello che mi hai dato è una promessa, ma quello che porto già indica chi sono io. Terrò entrambi"
"Questa volta ti è andata bene, principessina"
E se ne era andato con aria impettita, mentre Genevieve nascondeva un sorriso vittorioso e rilassava le spalle.
Si portò una mano al collo e sentì la familiare sensazione del ciondolo a forma di chiave, con la sua impugnatura importante e dall'aria antica.
Ricordava quando aveva fatto quello strano sogno su Killian che diventava un angelo dalle ali nere come pece e le chiedeva di andare con lui.
Il ciondolo aveva cominvnciato a bruciare subito prima che lei si risvegliasse.
Si girò di lato, tenendosi su un fianco, ed allungò la mano verso il libro che teneva sulla scrivania.
Quel giorno era Paradiso Perduto di Milton e quando lo aprì alla prima pagina prese il ritratto che vi aveva nascosto.
Lo metteva all'inizio di ogni libro che leggeva, così da poterlo contemplare prima di andare a dormire e dopo essersi svegliata.
Guardò la se stessa ritratta un anno prima dalla mano delicata di Killian e come sempre lo immaginò che la disegnava.
Sfiorò il viso dell'altra Genevieve e si sentì un groppo in gola.
Sentiva la mancanza di Killian come se avesse una corda stretta intorno al cuore che ogni giorno si stringeva sempre di più.
Si chiese se un giorno avrebbe smesso di fare male o se invece il suo cuore alla fine non avrebbe più retto.
Non sapeva spiegarsi perchè facesse così male.
Era la prima volta che si innamorava, dunque non aveva esperienza al riguardo.
Eppure le sembrava strano che dopo un anno soffrisse ancora così tanto per la sua partenza, per la sua lontananza.
Al primo cuore spezzato si soffriva sempre così?
Era come se il suo cuore sarebbe sempre rimasto così finchè non avesse rivisto Killian.
Dubitava sarebbe mai successo.
Teneva il suo ritratto con cura e attenzione, perchè era quanto di più prezioso avesse insieme al ciondolo appartenuto a sua madre, ma dopo così tanto tempo la matita aveva cominciato ad affievolirsi e a furia di spostarlo da libro in libro non era più immacolato come quando Killian glielo aveva regalato un anno prima.
Quando fece per rimettere il disegno al proprio posto, si rese conto che il libro era rimasto aperto ad una pagina a caso.
Lesse i primi versi e ne fu colpita.
Meglio regnare all'Inferno che servire in Paradiso.
Secondo Milton, questo era ciò che aveva smosso Lucifero a compiere la ribellione che lo aveva poi condannato ad essere esiliato dalla dimora degli angeli.
Era l'angelo più amato da Dio, il più bello, ma lo aveva tradito e ne aveva subito le conseguenze.
Per un istante si chiese se fosse davvero Lucifero il cattivo, solo perchè aveva osato contestare un'autorità superiore insinuando negli angeli la possibilità del libero arbitrio.
Poi scosse la testa, richiudendo il libro.
Erano pensieri troppo complicati per la mattina presto.
Si alzò dal letto e si guardò allo specchio, ricambiando il proprio sguardo dorato.
Non era cambiata molto rispetto ad un anno prima: i capelli castani ricci erano gli stessi, con le loro sfumature rosse quando il sole li colpiva con i suoi raggi, gli occhi dorati e il naso un po' all'in su.
Forse fuori nulla era cambiato, ma dentro... dentro non c'era nemmeno l'ombra della ragazza che poteva essere stata a sedici anni.
Da quando aveva scoperto di avere il potere di far vedere alla gente ciò che lei desiderava – che aveva chiamato illusione – si era esercitata in quell'arte ed era diventata piuttosto brava ad imporre la propria forza di volontà agli oggetti.
Con Peter avevano deciso di non rivelare a nessuno la nuova abilità di Genevieve, almeno non prima di aver scoperto perchè la possedesse.
Avevano setacciato ogni angolo della biblioteca, ma non avevano trovato nulla.
Così si era dedicata solamente ad esercitarsi e aveva imparato che più cercava di creare un'illusione grande, più gli effetti collaterali come nausea e vertigini si facevano sentire in modo persistente e asfissiante.
Una volta, con Peter, aveva provato a trasformare ai suoi occhi il castello in una tenda da circo e, dopo avercela fatta, era svenuta.
Peter si era rifiutato categoricamente di fare altre prove, dicendo che forse si stavano cacciando in una cosa più grande di loro.
"Non è che mi ci sia proprio cacciata, io" aveva ribattuto lei, mentre lui l'aiutava a rialzarsi "diciamo che mi ci sono ritrovata"
"E poi hai coinvolto me" le aveva fatto notare Peter.
"Ma tu sei il mio migliore amico, dovevo coinvolgerti per forza"
Alla fine però Genevieve aveva concordato che avevano fatto abbastanza esercizio per tanti mesi, perciò meritavano entrambi una pausa.
Ma non avrebbero sprecato quel tempo.
"Insegnami a duellare" gli aveva chiesto.
"Tu e una spada nella stessa frase non suonate proprio bene" aveva ribattuto lui.
Genevieve aveva alzato gli occhi al cielo.
"Vuoi dirmi che non sei capace?" lo aveva stuzzicato.
"Per favore, certo che sì. Il punto è perchè una principessa come te decida di voler imparare a tirare di scherma proprio ora"
Lei aveva alzato il mento con l'aria altezzosa che immaginava avessero le principesse di Londra.
"Io non sono una principessa come le altre" aveva risposto.
Peter aveva inarcato un sorpacciglio, perchè ovviamente non ci aveva creduto.
E non avrebbe lasciato perdere.
"E va bene" aveva sospirato Genevieve "ho sentito in città che girano voci su navi pirata che girano per le coste della Gran Bretagna e dell'Irlanda e saccheggiano i castelli, le città, i villaggi... tutto ciò che trovano e sia saccheggiabile"
"Ho sentito quelle voci anche io"
Lui aveva corrugato la fronte.
"Ma ci sono le guardie" aveva osservato.
"Lo so e mi fido di loro" aveva ribattuto lei "solo che... certo, mi sento rassicurata dal mio potere ma sapere usare una spada mi farebbe stare molto meglio. Non si sa mai"
Poi gli aveva fatto i suoi occhioni da cucciolo a cui sapeva che Peter non avrebbe saputo dire di no.
"In più parlavamo di trovare un altro passatempo, no?"
Peter aveva riso e aveva acconsentito.
Così Genevieve aveva scoperto di essere portata per la scherma: riusciva a prevedere le mosse di Peter come se avesse tenuto in mano una spada da tutta la vita e aveva una grazia che pareva quasi celestiale, a detta dell'amico che era fin troppo buono.
"Vedi che tutte le lezioni di portamento che hai fatto fin da bambina sono servite" aveva scherzato lui, dopo.
"Camminare con un libro in testa per ore intere era davvero emozionante" aveva replicato lei con sarcasmo "perchè non hanno insegnato anche a me a duellare? È molto più divertente"
Peter aveva approfittato del suo abbassamento di guardia e l'aveva disarmata, guardandola con aria accigliata.
"Però parla di meno e blocca di più"
Genevieve sorrise al ricordo.
All'improvviso la porta della sua camera venne spalancata, facendola sussultare.
"Principessa!"
Lei si voltò e si vide che sulla soglia c'era Heather, con i capelli arruffati e il viso paonazzo.
Quando notò che aveva gli occhi lucidi, si sentì un groppo in gola.
Non ora, pensò, per favore. Non ora. Ancora un po' di tempo.
"Cos'è successo?" domandò.
"Vostro padre... sua maestà...." Heather balbettava, come incapace di creare una frase di senso compiuto "il dottor Jones sta arrivando..."
Ma Genevieve non l'ascoltava già più.
L'aveva superata, tirando su l'orlo della camicia da notte, e si era messa a correre verso gli alloggi di re Malcolm.
Non era mai stata una persona religiosa, ma si ritrovò a pregare qualsiasi dio esistente che suo padre in realtà stesse bene.
Che il momento in cui sarebbe morto tardasse ad arrivare.
Sentiva il cuore batterle in gola mentre svoltava un corridoio, mentre il fiato cominciava a mancarle e non per la corsa.
Avrebbe tanto voluto fosse solo per quello.
Senza fiato, arrivò davanti alla sua porta.
Peter era lì fuori, con il volto pallido e la schiena appoggiata alla parete.
"Peter" sussurrò lei.
La paura le fece tremare la voce.
Lui aprì gli occhi e la guardò, profondamente addolorato.
"Mio padre è...?"
Peter scosse la testa, andandole incontro.
"No" rispose, con decisione "ero con lui a fare alcuni conti quando all'improvviso si è sentito male. Ho chiamato subito il dottor Jones"
Come richiamato da quell'affermazione, il dottore uscì dalla camera da letto del re e si richiuse la porta alle spalle.
Il suo volto era una maschera di inespressività.
"Dottore?" fece Genevieve.
Il silenzio sembrava legarle un cappio al collo che si stringeva ogni istante di più.
L'uomo scosse la testa.
"Mi dispiace, principessa" rispose "ormai l'ora è giunta. Non posso più fare nulla"
Chinò la testa e lei singhiozzò.
Peter le fu subito accanto, prendendola tra le braccia e facendo in modo che posasse la testa nell'incavo del suo collo.
"Peter" singhiozzò Genevieve, chiudendo gli occhi con forza.
Non voleva riaprirli più.
Ricordò quando la settimana prima aveva ballato con suo padre il giorno del suo diciottesimo compleanno, il modo in cui l'aveva guardata dicendo che gli ricordava Leila quando l'aveva vista scendere le scale a braccetto con Spencer.
Forse Malcolm se lo sentiva.
Sapeva in qualche modo che la sua fine sarebbe giunta presto.
"Potete vederlo, se volete, principessa" aggiunse il dottor Jones.
"Vuoi andare?" le sussurrò Peter all'orecchio.
Genevieve fece un respiro profondo, impedendosi di tremare.
Poteva usare il suo potere per fingere che andasse tutto bene?
Per far credere a se stessa che sarebbe andato tutto bene?
Raddrizzò le spalle e annuì, scacciando via le lacrime con una mano.
Aprì la porta della camera, lentamente, e vide che suo padre era sdraiato nel suo letto, sotto le coperte, con gli occhi chiusi come se stesse dormendo.
Sembrava in pace, nonostante tutto.
"Papà?" sussurrò lei.
Re Malcolm aprì gli occhi e le sorrise.
Ma si vedeva che erano di un azzurro più spento del solito.
"Genevieve" le disse.
Genevieve lo raggiunse e si sedette con delicatezza sul bordo del letto.
Con esitazione, gli prese la mano che era adagiata sopra il copriletto e la strinse.
"Come stai?" domandò.
Le uscì la frase detta in un sussurro.
Era come se fosse un momento così solenne ed importante che non avrebbe potuto parlare ad alta voce nemmeno volendo.
"Il dottor Jones mi ha detto una verità che sapevo già" rispose lui, con calma "ho le ore contate"
"Papà"
La voce le si spezzò e una lacrime le cadde sulla guancia.
Malcolm sembrò volerla asciugare, ma alla fine ci ripensò come se non avesse avuto la forza di alzare e tendere la mano.
"Mi dispiace non poter esserci al tuo matrimonio" disse alla fine "so che è stato tutto molto affrettato con Spencer, ma sono sicuro ti ami. E tu imparerai ad amarlo a tua volta"
Genevieve si morse la lingua, limitandosi ad annuire.
Dire la verità a suo padre non sarebbe servito a nulla, se non a farlo stare in pensiero.
Invece voleva che se ne andasse senza pensare di aver messo la figlia in un terribile guaio.
"Posso fare qualcosa?" gli chiese con gentilezza.
Malcolm la guardò e nei suoi occhi scorse una dolcezza inaspettata.
Non l'aveva mai guardata così, nemmeno quando era piccola.
"Resta con me" disse "mi piace guardarti"
Genevieve gli strinse di più la mano, carezzandogli il dorso.
Erano mani forti ma non quelle che l'avevano aiutata a rialzarsi quando aveva imparato a camminare da piccola o che le avevano insegnato a leggere sfogliando le pagine di un libro.
"Mi sembra di vedere tua madre quando ti guardo" mormorò.
"A parte gli occhi, non è vero?" cercò di scherzare lei.
Malcolm distolse lo sguardo, con una smorfia di dolore.
"Hai gli occhi di tuo padre" disse, con voce così bassa che Genevieve fece fatica a sentirlo.
"Che cosa?"
Lui fece un sospiro.
"Devi sapere una cosa" disse "ormai non c'è più tempo da perdere"
Istintivamente, Genevieve drizzò la schiena, come sull'attenti.
Sentì un formicolio su tutta la pelle, come se provenisse da dentro di lei.
"Su cosa?" chiese, guardinga.
"La verità su chi sei davvero, sulle tue origini"
Genevieve scoppiò a ridere, senza nemmeno rendersene conto.
"Cosa c'è da sapere?" chiese "Tu sei mio padre e Leila era mia madre"
Malcolm la guardò dritta negli occhi.
"Leila è tua madre" disse "ma io non sono tuo padre"
A Genevieve non sfuggì l'uso del tempo presente quando aveva parlato di sua madre, ma era troppo scioccata per pensarci in quel momento.
Oppure si era aggrappata a quel dettaglio proprio perchè non voleva che la sua mente si focalizzasse sulla notizia più grossa.
Lui fece un respiro profondo e le strinse la mano.
"Tuo padre è Lucifero" disse.
Genevieve scattò in piedi, sciogliendo l'intreccio di dita.
Il cuore aveva preso a batterle forte nel petto, come un tamburo impazzito.
Era una cosa ridicola.
"Non è vero" disse, ma nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole si rese conto che invece era proprio l'esatto contrario.
E lei lo sapeva già.
Era come se lo avesse sempre saputo, nel profondo della sua anima, e ora la rivelazione di Malcolm avesse riportato a galla quel ricordo, quella consapevolezza.
Improvvisamente tutto aveva un senso: come quando da piccola aveva trovato un ritratto di Lucifero, l'angelo caduto, in un vecchio libro di mitologia e aveva notato che il colore dei loro occhi era lo stesso.
Hai gli occhi di tuo padre, aveva detto l'uomo che non era chi aveva creduto fosse per diciotto lunghi anni.
Ricordò quando si era svegliata di notte, quando le ombre parevano allungarsi come esseri con ampie ali sulla schiena e aveva visto due occhi dorati che la fissavano.
La sensazione che aveva provato quella mattina leggendo quei versi del Paradiso Perduto.
E si spiegava soprattutto il perchè avesse il potere di far vedere alla gente ciò che lei desiderava.
Perchè suo padre era l'angelo ingannatore, colui che aveva ingannato Adamo ed Eva perchè mangiassero la mela e venissero cacciati dall'Eden.
Quel potere era l'eredità demoniaca di Lucifero.
"Perchè?" riuscì solo a dire.
Ma le parole che non aveva pronunciato erano molte di più.
Perchè ora?, Perchè io?, Perchè?
"Perchè diciotto anni è l'età in cui Lucifero aveva detto ti avrebbe reclamata al suo cospetto" spiegò Malcolm.
Sembrava che all'improvviso avesse avuto più anni di quanti ne avesse in realtà.
"Tua madre non è morta quando eri piccola" continuò "è all'inferno, con lui. L'ha tenuta prigioniera per tutti questi anni perchè... lui vuole che tu ti inginocchi davanti al suo trono. Pensava che tenendo prigionera tua madre ti avrebbe motivata ad assecondarlo, per salvarla"
Ripensò al sogno di un anno prima, quando aveva sognato Killian con delle enormi ali nere e dorate.
Aveva capito subito non fosse il vero Killian, ma non aveva trovato una spiegazione.
E se Lucifero in qualche modo si fosse intrufolato nei sogni di Genevieve per convincerla ad andare da lui?
Nel sogno, Killian le diceva di andare con lui.
Che era proprio ciò che Lucifero voleva.
"Quando ho sentito te e Anne parlare nella biblioteca, l'anno scorso" disse lei "su quella cosa che non avrei dovuto sapere secondo te, ma secondo lei sì. Non parlavate della tua malattia, vero?"
Malcolm annuì.
"Parlavamo di Lucifero" rispose.
"Anne sapeva tutto, l'ha sempre saputo per tutti questi anni"
"Come potevamo darti questo peso? E poi anche il fatto che..."
Genevieve lo guardò e serrò la mascella.
"Che altro c'è?"
Lui non rispose.
"Papà" esclamò lei "che differenza può fare ormai sapere qualcos'altro?"
"D'accordo" il re la guardò "negli ultimi mesi l'economia dell'isola sta peggiorando sempre di più, come se stessimo entrando in una crisi. Il popolo è sommerso dai debiti e dalle tasse. Io mi prendo la responsabilità, ma non sono io. È il diavolo. Non so come faccia ma in qualche modo ha fatto precipitaee il mio sistema di governo"
Genevieve rivide nella mente i vestiti dismessi dei popolani, gli occhi verde nocciola di quel ragazzo di nome Henry che diceva di odiare la casa reale.
"È colpa mia" realizzò, con un tuffo al cuore "l'ha fatto per spingermi da lui. Per spingermi all'inferno"
Tutto ciò per cui aveva sempre pensato l'unico responsabile fosse suo padre, in realtà era capitato per causa sua.
Era la figlia del diavolo.
Era un mostro.
"Come puoi avermi cresciuta per tutti questi anni, papà?" gli chiese senza fiato.
Malcolm la guardò e lasciò ricadere le braccia sul copriletto, accanto al corpo.
"Ti ho voluto bene" rispose.
"Ma è colpa mia se la mamma è all'inferno"
Finalmente aveva ottenuto un senso anche quella misteriosa frase che le aveva detto al ballo per il suo diciassettesimo compleanno, quando lei aveva detto che avrebbe voluto che Leila fosse lì e lui le aveva detto: "Forse, un giorno..." lasciando le parole sospese nell'aria.
Genevieve si disse che quel giorno sarebbe arrivato.
Avrebbe fatto in modo che arrivasse.
Avrebbe riportato sua madre a casa.
Doveva farlo, per riscattare il fatto che non si sentisse legata a lei.
E poi?
Suo padre non sarebbe stato lì a rivederla dopo tanti anni.
E sempre per colpa di Genevieve.
"Non è colpa tua, Genevieve" disse Malcolm, con voce decisa "non hai scelto tu di essere sua figlia"
Lei fece un passo avanti e raddrizzò la schiena.
Sentiva una strana vampa di fuoco dentro di sè, che pareva ribollire.
Le mani le formicavano come se chiedessero che lei le puntasse verso qualcosa e compisse la sua magia.
"Io sono la figlia di Lucifero" disse per la prima volta ad alta voce.
Lo rese reale.
E i suoi occhi presero a brillare.
Lo capì quando vide Malcolm ritrarre di scatto le braccia e portarsele al petto, in un gesto protettivo.
Quando vide nei suoi occhi azzurri brillare un lampo di un sentimento ben preciso che non aveva mai visto nello sguardo di qualcuno che la stava guardando.
Malcolm non le dava la colpa della perdita della moglie.
Aveva paura di lei.
E questo le spezzò il cuore.
Si rispecchiò negli occhi di quello che aveva creduto suo padre e vide il riflesso del proprio sguardo dorato.
"Grazie di avermelo detto" disse infine "io... forse è meglio che riposi un po'. Torno fra poco"
Vide Malcolm annuire e sentì il suo sguardo puntato sulla schiena mentre usciva dalla camera da letto.
Si appoggiò alla porta e fece un respiro profondo, stringendo i pugni nascosti tra le pieghe della camicia da notte.
Doveva impedirsi di piangere.
"Gen?" la chiamò una voce.
Si voltò di scatto e vide che Peter le stava venendo in contro dal corridoio, dove doveva essersi seduto su uno dei divanetti adiacenti al muro in attesa che lei tornasse.
"Va tutto bene?" chiese, avvicinandosi.
Genevieve serrò la mascella e lo fissò dritto negli occhi.
"Duelliamo" decise.
Peter inarcò un sopracciglio.
"Devi essere sconvolta con tutta questa storia" disse, con cautela "sei in camicia da notte poi. Sei proprio sicura..."
Fece per toccarle il viso ma lei si ritrasse.
"Ho detto che voglio duellare" insistè "vuoi farmi questo favore?"
Fammi dimenticare chi è mio padre e che tutto ciò che sta succedendo è colpa mia, avrebbe voluto dirgli, mi serve un amico.
"D'accordo"
Genevieve lo prese per la manica della camicia e lo portò nella stanza delle esercitazioni, dove prese due spade dal muro dove erano appese.
"Sicura di non voler indossare qualcosa di più comodo?" le chiese Peter.
Per tutta risposta lei gli lanciò la spada che lui afferrò al volo.
"En garde" disse.
Lui inclinò la testa di lato, ma non disse nulla.
"Vuoi parlare di ciò che è appena successo?" chiese, dopo che bloccò un suo fendente.
Genevieve serrò la mascella.
"No" rispose e si lanciò in avanti.
Sembrava che un ardente fuoco le stesse divorando le viscere, facendola avanzare e ritrarre come una furia.
Come se quello fosse un vero duello e Peter fosse Lucifero.
Pareva un demonio, con i ricci castani che l'avvolgevano come un'aureola e la camicia da notte che si allargava intorno a lei.
"Gen" fece Peter "cosa ti ha detto tuo padre per sconvolgerti così?"
"Combatti e basta" replicò lei.
Ma quando Genevieve si lanciò in avanti per fare un affondo, inciampò nella camicia da notte e cadde in ginocchio.
Sbattè le mani sul freddo pavimento e lasciò che la sua voce producesse un urlo raccapricciante.
"Ti sei fatta male?" esclamò Peter, correndole accanto.
Ma lei non era lì.
Tuo padre è Lucifero.
Sbattè di nuovo le mani a terra, con forza, sperando che il dolore fisico facesse in modo che quello emotivo le desse tregua.
Tua madre è all'inferno con lui.
Chinò la testa come per nasconderla tra le braccia e così l'urlo che lanciò di nuovo suonò attuttito.
È colpa mia.
"Mi stai facendo preoccupare"
Peter le posò una mano sulla schiena madida di sudore e la fece alzare.
Ma Genevieve rimase con la testa china e gli occhi socchiusi, mentre sentiva il suo cuore rimbombare nelle orecchie, impazzito.
"Ma cosa ti sta succedendo?" esclamò Peter preoccupato "Che cosa ti ha detto tuo padre?"
Inginocchiato accanto a lei aveva gli occhi alla sua stessa altezza.
"Mio Dio" disse, mentre le alzava il viso "i tuoi occhi stanno brillando"
Genevieve aprì piano gli occhi e li puntò in quelli castani dell'amico.
"Peter" sussurrò "mio padre è Lucifero"
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